Alquanto interessante è l'origine della Sacra Conversazione,
più nota con l'appellativo di Madonna della Vittoria. Il
marchese Francesco Gonzaga, sposo di Isabella d'Este, volle esaudire un
voto, subito dopo la controversa vittoria ottenuta sui Francesi a Fornovo
(6 luglio 1495). Utilizzando astutamente una multa inflitta a un israelita,
Daniele Norsa, per il presunto maltrattamento che questi avrebbe riservato
a un affresco di soggetto sacro, il Gonzaga commissionò al Mantegna
una tela di analoga ispirazione. L'anno seguente l'opera venne trasportata
dalla Casa del Maestro alla nuova chiesa, detta della Madonna della Vittoria,
prontamente eretta al posto della casa dello sfortunato ebreo.
Osservando il dipinto, risultano subito evidenti alcuni particolari: l'enorme
cura posta nei dettagli, soprattutto per quanto riguarda l'apparato
floreale; la presenza del marchese e la contemporanea e vistosa assenza
di Isabella; la cornice di santi guerrieri alla spalle della Madonna, tra
cui spicca la figura di San Longino, colui che ferì il costato di
Cristo; il corallo rosso appeso sopra la testa di Gesù Bambino,
come simbolo e presagio della futura passione.
Nota il Camesasca, con spirito forse eccessivamente critico:
Si giunge così al '96, l’anno della Madonna della Vittoria, la
colossale miniatura che richiama le descrizioni della cappella vaticana,
specie se si cerca d’immaginarla nell’ambiente originale, ideato apposta
per contenerla, presumibilmente dal Mantegna stesso. Allora il gesto asimmetrico
della Vergine, equilibrato dal San Giovannino, e tutte le altre figure
vicendevolmente bilanciate e disposte sul solito piano che scorcia all’ingiù,
in contrasto con la rigorosa perpendicolarità del padiglione vegetale,
trovavano forse inimmaginabili rispondenze nelle pareti. Oggi, divenuta
autonoma, la gran 'macchina' non convince più; appare stanca ed
è stancante. Ci disturbano i suoi concenti perseguiti con ostinazione,
fin nella croce di Sant'Andrea, che non potrebbe rispondere con dissimmetria
più calcolata all’occhietto di cielo tra le frasche; è uggiosa
la cura da fioraia con cui i frutti sono appesi alle fronde; la granatica
frigidità dei materiali, a furia di carezze e vagheggiamenti in
una luce inadatta, non suscita il minimo diletto estetico, per cerebrale
che sia; il cinguettio dei cromatismi che tormentano la pergola con fasti
autunnali e screziature di pappagalli non riesce per nulla eccitante.
E' un giudizio troppo severo. La tela, oggi al Louvre, pecca probabilmente
di un eccessivo virtuosismo, come se il Mantegna intendesse polemicamente
dimostrare la propria maestria a una scettica Isabella.
Ma si tratta in ogni caso di un capolavoro, in cui la natura deborda e
circonda le figure dei Santi e della Madonna, quasi ci trovassimo di fronte
a un Paradiso raccolto ed esploso al tempo stesso.
Seguiamo a questo proposito le osservazioni di Erika Tietze-Conrat:
La Pala della Madonna della Vittoria ha precedenti interessanti,
poiché di recente si è ritrovato un cartone assai importante
che ci permette di conoscere i sistemi di lavoro del Mantegna nei grandi
dipinti, proprio come la lettera del 1491 ci dice in che modo egli si accingesse
alle repliche in piccolo dei suoi quadri. I trattati di tecnica pittorica
ci parlano dell'esistenza del cosidetto 'spolvero', ma per quel che ne
so io, non mi risulta che oggi ne resti uno solo; e ciò è
comprensibile, dal momento che lo 'spolvero' costituiva un tracciato del
cartone vero e proprio, un surrogato che serviva al trasferimento sulla
tela o sulla tavola e che veniva distrutto proprio dall'azione di questo
trasferimento, a differenza del vero cartone, nel quale figuravano tutti
i particolari di modellatura, che rimaneva intatto...
Nel caso della Madonna della Vittoria la parte del Mantegna dovette essere
assai considerevole, al punto di lasciare agli aiuti solamente l'operazione
meccanica di preparare il cartone ausiliario e di 'spolverarlo' sulla tela;
ciò che sembra confermato dal fatto che il ritratto del Marchese
non fu compreso nello 'spolvero', restando completamente affidato al maestro
nell'esecuzione definitiva. La composizione è la continuazione di
ciò che il Mantegna aveva iniziato nel trittico di San Zeno, e seguitato
nella Camera del Palazzo Ducale e nella Cappella del Vaticano. La terra
e l'uomo vi si legano con le sfere celesti; il pergolato sotto il quale
si raccolgono le figure si staglia sul cielo aperto.
Il Kristeller tenne a notare che nella composizione la risoluzione perfettamente
naturale e mentalmente persuasiva di una sintesi armoniosa d'interessi
con l'unità di azioni e di emozioni veniva raggiunta per la
prima volta in una pala d'altare. Il gesto della mano della Madonna è
supposto quale una derivazione dalla Madonna delle Rocce di Leonardo; a
questo proposito, una visita del Mantegna a Milano intorno al 1490, per
quanto non avvalorata da alcun documento, è assolutamente possibile.
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