Lo Studiolo di Isabella


Mantegna e Isabella non si amavano: i loro rapporti hanno lasciato negli anni una traccia inequivocabile di incomprensioni, litigi e ripicche. Tuttavia, il Maestro rispose prontamente alle sollecitazioni della Signora quando quest'ulima volle, intorno al 1497, edificare negli ambienti del suo appartamento ducale un luogo dove ritirarsi in meditazione: lo Studiolo, appunto. Purtroppo, il contenuto dello Studiolo stesso, comprendente due tele del Mantegna, una del Perugino, due del Costa e due del Correggio, oltre a innumerevoli tesori d'arte e di collezionismo, venne disperso negli anni della decadenza gonzaghesca. Ma quel che resta ci riempie ancora di un ammirato stupore.
Anziché fiacchi, come alcuni studiosi li hanno frettolosamente definiti, i dipinti del padovano ci appaiono oggi come due delle più notevoli rappresentazioni di un ideale cortigiano e umanistico ai confini dell'esoterismo. E' ancora tutto da esplorare quell'ambiente di letterati, maestri del colore, sommi artigiani e sottili pensatori che ha contraddistinto la Corte dei Gonzaga negli ultimi anni del quindicesimo secolo. Di questa cerchia, che presentava in luce soltanto uno dei suoi due volti, Mantegna era a buon diritto parte integrante. Le reminiscenze albertiane si fondono dunque con gli studi cabalistici di Pico della Mirandola, le meditazioni sulla mitologia classica si intrecciano con raffinati procedimenti magici. L'Hypnerotomachia Poliphili, grande racconto di un viaggio iniziatico, risente probabilmente di questo clima culturale, mai analizzato con sufficiente acume.



Dall'opera a più mani Le Studiolo d'Isabelle d'Este, edita a Parigi negli anni '70 in occasione di una mostra al Louvre (dove si trovano oggi tutti i dipinti) , ricaviamo questa interessante descrizione della prima tela:
Il titolo Parnasso apparve solamente nel XIX secolo. Questo quadro, che il Mantegna donò probabilmente a Isabella prima del luglio 1497, rappresenta, secondo l’Inventario del 1542, Marte, Venere, Vulcano, Orfeo e le ninfe che danzano. Non si possiede il suo programma, meno complesso di quello del suo pendant Minerva; i due quadri si rispondono e si spiegano l’un l’altro. L’anteriorità del Parnasso è dimostrata dall’iconografia.
E’ un’allegoria della corte, che celebra l’unione di Gian Francesco Gonzaga e di Isabella d’Este. Una poesia contemporanea dell’umanista mantovano B. Fiera, in cui Isabella è paragonata a Venere, sembra confermarlo. Recentemente è stato dimostrato che questa allegoria nuziale è posta sotto la protezione degli astri che presiedettero all’evento. Il quadro si ispira al VII canto dell’Odissea che narra gli amori di Marte con Venere e le disavventure coniugali di Vulcano? Questa tesi, che implica un’interpretazione erotica di alcuni particolari del quadro, è stata molto discussa. Tuttavia, se si rammenta che da questi amori nacque Armonia, o, secondo un’altra tradizione, Anteros, l’amore della Virtù, la favola antica ha un’altra valenza: essa esclude la sensualità dagli amori di Marte e Venere a favore della Virtù e dell’Armonia, poiché Venere, evidente allusione a Isabella, è la Venere celeste protettrice delle Muse, dunque delle arti. Teneramente abbracciata a Marte, ella è in piedi con lui su un arco trionfale di rocce; attorno a loro, il mirto, fiore di Venere, i frutti che alludono al matrimonio (il limone, le mele cotogne) e il lauro associato alle Muse e a Mercurio come simbolo di vittoria. Accanto a Marte, l’Amore soffia nella sua cerbottana in direzione di Vulcano. Una sottile linea dorata parte dall’arma e raggiunge Vulcano. Dietro la coppia è situato un letto, drappeggiato di stoffe blu, rosse e bianche, i colori degli dei planetari Venere, Marte e Mercurio, colori che sono gli stessi degli Este-Gonzaga. Questo simbolismo araldico conferma l’identificazione della coppia Venere-Marte con Isabella e suo marito.
Il dominio di Venere è racchiuso da una siepe di lauro, da cotogni carichi di frutti e da una barriera (originariamente continua) che si schiude su una quieta campagna incorniciata da montagne; in primo piano una fonte. Il suolo è stato accuratamente ripulito per la danza delle Muse. A destra, Mercurio tiene il caduceo e la siringa: la sua insolita unione con Pegaso è spiegata dal fatto che entrambi rappresentano il pianeta e la costellazione dallo stesso nome che presiedettero al matrimonio di Isabella. La loro importanza, nel significato del quadro, è sottolineata dalla loro grande dimensione.
All’estrema sinistra, un musicista cantore accompagna le danzatrici. L’Inventario lo chiama Orfeo, al quale rassomiglia. Tuttavia le nove danzatrici alludono alle Muse e di conseguenza ad Apollo. Ma, paragonata a quella degli altri personaggi, la dimensione di questo musicista è quella di un adolescente: non potrebbe essere questi Lino, spesso confuso con Orfeo, che vuole rivaleggiare con Apollo suo padre? Invece di essere posto in mezzo alle Muse, come Apollo secondo la tradizione, egli sta accanto a loro ma non porta la corona di lauro. Quanto alle danzatrici, Ninfe secondo l’Inventario, il loro numero e l’enfatizzazione di Pegaso dimostra che si tratta piuttosto delle Muse.

Bouleau, nel suo fondamentale testo La Geometria Segreta dei Pittori, ci svela d'altra parte un mondo di riposte concordanze e di alchimie musicali:
La meraviglia degli antichi quando trovarono conferma nel mondo esterno -sotto la forma di rapporti semplici di lunghezza- a consonanze evidenti all’orecchio come l’ottava o la quinta, è qualcosa di profondamente commovente. La loro gioia aveva a che fare col bisogno di rassicurazione...
Questa musica, è un miracolo che si sia concretizzata e si sprigioni con tanta grazia e purezza dai monumenti eretti dall’Alberti come da tutte le opere degli architetti, pittori e scultori penetrati dalle sue idee. Il fatto è che Alberti non resta nel campo della speculazione. E’ artista, e pensa concreto. Nel trattato De pictura la sua estetica si precisa: la composizione è l’armoniosa disposizione delle differenti superfici collocate al loro giusto posto. Niente parti piene di rughe, spigolose come volti di vecchie, ma belle superfici lisce e serene. Non temere il vuoto, il nudo, nemmeno la povertà; temere piuttosto un eccesso di abbondanza e agitazione. E’ ciò che Focillon ha benissimo definito la legge dei vuoti e la legge della lentezza... l’armonia intellettuale frutto d’un giusto rapporto tra i numeri.
Cerchiamo qualche esempio tipico dell’Albertismo in pittura...
Quando Mantegna realizzò dei dipinti allegorici per la grotta di Isabella d’Este, la minuziosità delle istruzioni ricevute, quella precisione di dettagli che esasperava Giovanni Bellini o scoraggiava il Perugino, dovette infastidire anche lui; ma l’atmosfera umanistica che regnava attorno alla bella Dama corrispondeva certamente ai gusti dell’artista. Nel Trionfo della virtù, impacciato da un programma dettagliato e ridicolo, non potè che indicare la cesura 4/6/9. Ma nel Parnaso, il cui soggetto visibilmente gli piaceva, l’austero maestro seppe distendersi. Fece di quell’inno alla danza un inno alla musica e, aggiungendo le proprie sottigliezze a quelle dell’esigente principessa, si divertì, ritmando i danzatori sul doppio diatessaron, a mettere nel quadro nove muse e sedici personaggi, come il doppio diatessaron è un rapporto da nove a sedici unità. Le cesure a 9/12/16 sono sottolineate con forza a partire da destra: asse maggiore della composizione a 9, accentuato dalla mandorla formata da Marte e Venere piegati uno verso l’altro; asse secondario a 12, deliberatamente sottolineato da una roccia a picco.



Prossima pagina


Pagina precedente



Home Page Mantegna