La prima grande opera:

la Cappella Ovetari



La cappella della chiesa degli Eremitani a Padova fu la prima grande opera affidata al genio di Andrea. La proprietaria Imperatrice Ovetari sottoscrisse nel 1448 un contratto con il Mantegna, con Nicolò Pizolo, con Giovanni d'Alemagna e con Antonio Vivarini affinché venisse esaudito il desiderio del marito, da poco morto: decorare l'ambiente con le storie dei santi Giacomo e Cristoforo.
Il lavoro fu assai travagliato, per i dissensi intervenuti tra i pittori, per i problemi sopraggiunti alla morte di Giovanni, per la successiva morte dello stesso Pizolo, ferito in una rissa, per la lite ormai incancrenita tra il giovane maestro e lo Squarcione. L'opera venne dunque completata non prima dei tardi anni cinquanta, grazie anche alla collaborazione di altri artisti. Nel 1457 ebbe luogo l'incresciosa disputa tra l'Ovetari e Andrea, accusato di aver raffigurato solo otto apostoli nell'episodio dell'Assunta; Squarcione ebbe l'incarico di rappresentare come perito la committente lesa.
Infine, un bombardamento aereo causò, nel marzo del 1944, il crollo dell'intera sala: solo l'Assunzione, il Martirio e il Trasporto di San Cristoforo, staccati in epoca ottocentesca, si salvarono dalla distruzione.
Il complesso capolavoro pone quindi numerose questioni, in parte irrisolte, sia relativamente alla datazione dei singoli affreschi che all'attribuzione degli stessi all'uno piuttosto che all'altro dei pittori impegnati. Tuttavia, concorde è l'ammirazione dei critici, che talvolta sembrano attribuire alla Cappella Ovetari il posto più alto nell'intero arco del cammino artistico del padovano.

Ascoltiamo cosa scrisse in proposito Goethe:
Nella chiesa degli Eremitani ho visto alcuni dipinti del Mantegna, uno dei più antichi, che mi colmò di meraviglia. Che sicura e precisa spontaneità in questi dipinti! Dalla considerazione di codesta realtà, così autentica e non soltanto apparente, preoccupata, sì, degli effetti e ispiratrice della fantasia, ma severa, pura, chiara, amica, impegnata, delicata, precisa... si sono formati gli artisti posteriori...

Di certo, gli elementi fondamentali dell'opera di Andrea sono già presenti qui, addirittura esaltati dal giovane impeto della mano: la natura, le rovine, il martirio dei santi, la punizione divina, l'estasi e il mistero. Fra tutte, prevale l'immagine dell'enorme corpo esanime di San Cristoforo, che occupa con la sua mole l'intero squarcio prospettico attorno a cui si raduna la fabbrica dell'antica città.

Ecco il racconto del Fiocco:
Il Mantegna si affaccia giovanetto alla ribalta... Ad ogni modo già dal suo primo apparire in questo campo, così nel paesaggio grandioso, che si impone con le sue rupi accatastate, come nel gruppo di Cristo fra i due discepoli Pietro e Andrea, davanti a cui si prosternano i due pescatori Giacomo e Giovanni, mentre il padre Zebedeo accudisce alla barca, il maestro non ci dà espressioni evasive o simboliche. Egli entra diretto nel dramma, e pare voglia far corrispondere alla severità dell'incontro la terribilità della natura, con quelle rupi dolomitiche elevate come guglie, di cui fa notare la varietà delle colate, con gusto quasi geologico, che gli sarà particolare per sempre... E' una pittura che ci parla innanzi tutto con la evidenza delle trovate di genio; ma sussura anche tutta una storia. Il modulo lunghetto delle figure, gli accenni discreti dell'antichità, l'ammirabile chiarezza, ci provano infatti, come il più sta al meno, ma indubitabilmente, un contatto con Jacopo Bellini; tanto naturale se si pensa non solo al fascino dell'artista anelante al nuovo come alla sola atmosfera vitale, ma anche ai dolci legami familiari conclusi col matrimonio della sua figliola, da parte di Andrea, nel febbraio 1454.
Nello stato odierno alquanto composito, ottenuto dopo lo strappo del dipinto per salvarlo dall'umidità e che lo ha preservato in definitiva, l'Assunta, sebbene allungata spropositamente con l'aggiunta di una zona di cielo, ci si presenta in ogni modo integra se non proprio genuina. La zona neutra era stata infatti interposta per abbassare il gruppo degli Apostoli, in modo che non sormontassero la pala dell'altare, allora avvicinato all'abside, e si potesse invece godere il solo gruppo della Madonna trionfante simile alla Sant'Eufemia di Napoli per la figura grande e solenne, con le braccia aperte come un'antica orante, fra uno stuolo di angioletti tripudianti; tanto ben disposta sotto l'arco stellato....
Nello spazio il pittore dispone la scena del supplizio del gigante in due quadri; quello a sinistra, dominato dal supplizio del santo, contro cui si scagliano invano le frecce, le quali cadono qua o là o vanno a colpire in un occhio il tiranno che assiste alla fine della vittima dal suo fastoso palagio; l'altro destinato al trasporto del corpo immane del martire, da parte di uno stuolo di guerrieri e di popolo. Solo le donne sono assenti dall'orrida scena, ma occhieggiano dalle belle logge lontane e dalle finestre, o scendono per la china del monte. L'accusa di statuario, che si era lanciata al Mantegna, male intendendo quella dignità che fu subito sua dalle prime opere, qui non ha più pretesti di essere pronunciata, giacché il pittore si palesa sempre più semplificato di tecnica, tralasciando quelle finezze le quali potevano far pensare a una grafia non dimentica del gotico. D'altra parte il mondo che qui si osserva è tutto agitato, è tutto in moto, a cominciare dagli arcieri seduti a terra per approntare gli archi, o sorpresi dopo averli appena scaricati nel vedere vana la loro ferocia. Uno, ancora con le braccia tese, si meraviglia nello scorgere la freccia cadere senza effetto; un altro a braccia ormai abbassate, guarda con sbalordimento la strana parabola della sua, andata a piantarsi nell'occhio del tiranno...
Questa antichità, interrogata ardentemente, rivive sotto forme che ne hanno il sapore, la dignità, l'andamento; quali li può avere una tragedia di Shakespeare quando rievoca Giulio Cesare. Egli la interpreta certo come non riuscì ad alcuno di farlo, in quanto esisteva una corrispondenza fra lo stacco di quelle cose classiche se pure presenti, spoglie ormai di ogni necessità che non fosse la loro espressione eterna, ed il suo gusto per le esperienze alte, serene, apatiche a modo loro, se non della divina apatia di Piero della Francesca... La classicità del Mantegna è il suo stile, che infatti i contemporanei accusarono di trito e di statuario. Ma sotto quella scorza ci sono più palpiti, per chi sappia auscultare i battiti del cuore profondo, che in certi sfrenati affreschi del Tiepolo... Fu dunque il Mantegna una ripetizione della grande conquista fiorentina? Ne fu la conclusione per certo, ma fu anche un qualche cosa di nuovo; come luce che si aggiunge a luce... Dire che con la perdita della cappella Ovetari si è perso tutto di lui è per fortuna non vero; ma certo si è perduta la chiave della sua arte, il suo preludio magnifico, la culla incantevole della sua pittura. Ogni volta che entravamo nel fatale sacrario l'animo si espandeva nel sogno, che l'arte, quando è davvero tale, eccita in noi, e ne uscivamo, pur dopo le tristezze della vita, con un conforto nel cuore, con una nuova fede, con un respiro più grande. Mi ricordo, e fu una delle ultime soste che vi feci, di essere rimasto come estatico per ore e ore mentre un altro pure vi stava, rapito come me nella stessa muta contemplazione. Ci riconoscemmo quasi svegliandoci insieme, all'uscirne: era Roger Fry, lo squisito pittore e critico inglese che doveva morire poco dopo. Niuno di noi avrebbe potuto allora nemmeno supporre, tanto l'arte pare reclami di vivere eterna, che quel mondo sarebbe in un triste giorno caduto per sempre.




Una lettura più tradizionale e puntuale si riscontra nelle parole del Christiansen:
La parete laterale della cappella, affrescata con le Storie di San Giacomo, fu dipinta dal Mantegna prima del Martirio di San Cristoforo e dell'Assunzione della Vergine. Il registro superiore, con le scene della Vocazione di Giacomo e Giovanni e San Giacomo che disputa con i demoni, contiene in realtà i più precoci saggi a noi pervenuti del suo approccio alla pittura narrativa. Diversamente da quanto accade nell'episodio del Martirio e nell'Assunzione, l'inquadratura delle scene era già determinata a priori dalle cornici marmoree che Pizzolo aveva creato per la volta, e si richiama espressamente agli affreschi trecenteschi del pittore padovano Guariento che ornano l'abside maggiore della chiesa...
Come nella volta, festoni di frutta ravvivano la decorazione con i loro vivaci colori e introducono un ulteriore elemento di illusionismo spaziale in quanto appaiono appesi sul lato della cornice offerto all'occhio dell'osservatore. Era un sistema ambivalente, la cui efficacia era determinata dalla trattazione delle singole scene. Solo nel registro mediano, ove il Mantegna ha unificato dietro alla cornice l'ambientazione di due distinti episodi, come avrebbe poi fatto anche per il Martirio, l'effetto diviene indiscutibilmente illusionistico. Nel suo celebre trattato sulla pittura del 1435, l'Alberti definiva la pittura come 'una finestra aperta, attraverso la quale si osserva il soggetto da dipingere', e questo è l'effetto che il Mantegna intende ottenere. Egli presta enorme attenzione a descrivere la profondità della cornice e al gioco della luce che la colpisce, mentre evita con la stessa cura la confusione fra la cornice e il pavimento a riquadri della scena, il cui margine anteriore termina con evidenza prima del piano di intercisione.

Ma il Fiocco conclude, con enfasi non più trattenuta:
Il Mantegna si rivela insomma in queste pitture monumentali come l'eroe di una battaglia pregiudiziale; come il banditore della superiorità toscana rispetto alle oziosità gotiche. E la sua vittoria fu gigantesca. Dopo di lui incomincia anche per il Veneto e per l'Italia Settentrionale la novella storia. La vinse per sé creando un'arte astratta, solitaria, arrovellata; e la vinse anche più per quei maestri toscani che aveva adorati, se non raggiunti; e che per forza della sua propaganda, opposta alle agevolezze dell'arte locale, divenivano sempre più luminosi; tornavano direi un'altra volta a insegnare. Non più a degli impreparati, a degli aridi, a degli spregiatori, ma a una schiera piena di fede, di volontà e di amore.
A questo, ed era già tanto, si limitano le decorazioni della cappella, luminosa nei secoli, vanto massimo di Padova e della nuova arte veneta; sigillo trionfale di una scuola che ivi raggiungeva la sua consacrazione indiscutibile; e sigillo troppo alto per essere superato dai piccoli maestri che si accinsero a raccogliere le briciole del magnifico banchetto, senza sapere andar più in là... La lotta sorda e accanita dello Squarcione contro lo sdegnoso Mantegna spingeva ormai questo fuori della città nativa, dove la voce del suo genio non fosse turbata dal ringhioso maestrucolo, che lo aveva sperato preda sottomessa, e gli abbaiava contro ora che se lo vedeva fuggir alto pei cieli...


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