Scrive il Fiocco:
Nacque Andrea Mantegna con ogni probabilità a Isola di Carturo,
l'Insula de Supra o Insula de Pedemonte dei documenti, paesello che oggi
fa parte del comune di Piazzola e quindi del padovano, ma nella prima metà
del quattrocento era annesso al territorio di Vicenza. Con ogni probabilità,
perché in effetto sappiamo solo che ivi aveva visto la luce Tomaso
primogenito di maestro Biasio marangone, di cui Andrea era il secondo figliolo.
Nacque nel 1431, come possiamo dedurre dalla scritta di un quadro con la
data del 1448, in cui si dichiarava diciassettenne; e potè esser
detto variamente padovano e vicentino. Come potè passare poi col
Vasari per mantovano, in seguito alla definitiva dimora ivi fissata quale
pittore della corte dei Gonzaga, dal 1460 circa sino alla morte, che ivi
lo colse nel 1506.
Di una precocità che non ha paragoni, stupenda e sbalorditiva; degna
di quei tempi fortunati, gonfi di linfe gagliarde e di creazione, a dieci
anni appena, nel 1441, già era iscritto alla Fraglia dei Pittori
Padovani: Andrea fiuilo (che sta per figliolo) de M. Francesco
Squarzon depentore. Lo Squarcione dunque, furbo conoscitore di uomini,
ne aveva subito compreso il talento e se lo era accaparrato, adottandolo
con il solito sistema e con le solite moine... Ma bastò al Mantegna
il breve legame infausto perché il nome del padre putativo, non
foss'altro per vanteria di questo, si appiccicasse a lui, come a tanti
suoi colleghi di adozione...
Francesco Squarcione, conoscitore e collezionista di antichità
classiche, è uomo dalla dubbia fama; lui stesso pittore, riuscì
a far della sua bottega un'impresa commerciale di tutto rispetto, sfruttando
con cinismo il metodo dell'adozione. Della sua ostilità verso l'allievo
e figlio prediletto rimangono tracce certe e documentate.
D'altra parte, la formazione del Mantegna non risente soltanto della personalità
dello Squarcione: puntuali rimandi alla cultura ferrarese si riscontrano
nell'Adorazione dei Pastori di New York, dove emerge l'influenza
di Piero della Francesca, oltre a un netto riferimento a Roger van der
Weyden, i cui dipinti erano visibili nella città emiliana. Fondamentale
è tuttavia l'apporto dei toscani operanti nel Veneto (Filippo Lippi,
Andrea del Castagno e, ovviamente, Donatello), come si può notare
nell'impostazione prospettica del San Marco di Francoforte.
Ma l'ambiente padovano, e la sua scomposta curiosità nei confronti
di tutto quel che sapeva di classico, risulta certamente decisivo. Leggiamo
la celebre descrizione che Longhi dedicò alla bottega dello Squarcione,
intingendo la sua penna magistrale nel malcelato veleno di un dispetto
quasi incomprensibile:
Per quanto ciò possa sembrare fantastico, sento profondamente
che tutto ciò che avvenne tra Padova e Ferrara e Venezia tra il
'50 e il '70 - dalle pazzie più feroci del Tura e del Crivelli,
alla dolorosa eleganza del giovane Giambellino, alla apparentemente rigorosa
grammatica mantegnesca - ebbe la sua origine in quella brigata di disperati
vagabondi, figli di sarti, di barbieri, di calzolai e di contadini, che
passò in quei venti anni nello studio dello Squarcione. Studio veramente
indescrivibile; o da immaginarsi soltanto per mano di qualche pittore del
genere del De Chirico: in un quadro serotino e minaccioso dove i busti
classici decapitati si vedono sorreggere le cornici tortili per i trittici
da dipingersi su misura per i vescovi del Polesine; le placchette fiorentine
far da vassoio alle oncie di azzurro dell'Allemagna; i tappetini cinesi
inferocire di mostri accanto ai rotoli di pannina intignata buttati là
dallo Squarcione, sartor et recamator; e qualche minutezza ponentina
in tavola stare come miracolo vicino a uno scorcio toscano...
Qua e là, sparsamente, la polvere bionda sul latte dei calchi recenti
e, tutto il giorno, le visite tumultuose e ironiche dei lavoranti di Donatello.
Quivi crebbe il Mantegna accanto agli altri squarcioneschi; e molto si
dibattè di certo fra tutti sul come si dovesse intendere l'arte
di quei fiorentini, che sembravano modellare la creta con la stessa sbadata
sicurezza che Iddio Padre medesimo aveva adoperato sull'uomo. Creare un'idolatria
sulla materialità dei fatti era cosa naturale per quelle menti arcaiche
e appassionate; soltanto si era incerti quale di quei fatti occorresse
idolatrare. Mantegna credette di doverne scegliere la fonte presunta e
vantata: l'antichità classica; e se ne creò rapidamente una
disperata e sottile dogmatica non meno immaginaria di quella che il veneto
Piranesi, tre secoli dopo, caverà dalle antichità romane
e soprattutto dalla sua fantasia. E' dubbio infine se Andrea si sia invaghito
più della materia del marmo medesimo o della forma in cui esso si
era configurato negli esempi antichi che gli venivano alle mani; ma io
propendo a credere che la prima abbia prevalso, se si rifletta che a contorno
di quei suoi uomini lapidei immaginò una natura anch'essa, se non
del tutto archeologica, fossile almeno. Così la grammatica del Mantegna,
con tutta l'intenzione di essere classica, fu nel fondo anticlassica...
Più equanime e intelligente è il racconto di Ingeborg Walter,
che tratteggia in poche righe l'aspetto psicologico dell'aspro conflitto
tra Andrea e lo Squarcione.
Il racconto di Vasari già da tempo è stato corretto con
l’ausilio di fonti documentarie. Mantegna non proveniva affatto da una
famiglia di contadini e perciò nell’infanzia non aveva portato mai
il bestiame al pascolo... Era invece figlio di un falegname di nome Biagio,
residente a Isola di Carturo, un villaggio non lontano da Padova... Confermata
risulta invece la notizia di Vasari che il maestro (lo Squarcione) adottò
l’apprendista... Quando Mantegna alla fine del 1455 si rivolse al giudice
delle vettovaglie di Padova, il magistrato competente per le cause relative
agli artigiani e alle corporazioni, per rivendicare la parte di guadagno
sottrattagli da Squarcione, il suo avvocato... dichiarò che il suo
cliente era vissuto per sei anni ininterrotti presso Squarcione, lavorando
per tutto questo tempo a suo vantaggio, sia nelle faccende domestiche che
come pittore, a seconda delle esigenze sue...
Se si considerano i tanti vantaggi di Squarcione, che in cambio di una
donazione sostanzialmente fittizia dei suoi beni otteneva con l’adozione
il pieno controllo sugli apprendisti, ci si può chiedere che cosa
inducesse loro e le loro famiglie ad accettare queste condizioni. Verosimilmente
pesavano anche su di loro considerazioni economiche che apparivano decisive.
Gli statuti non precisavano chi dovesse pagare la tassa per l’iscrizione
nella corporazione, ma è facile immaginare che i maestri l’addossassero
agli apprendisti. Nel caso di Mantegna che non era padovano, si trattava
di una somma considerevole. Anche i costi dell’apprendistato potevano essere
risparmiati, se l’apprendista era disposto a sbrigare i servizi più
umili...
Andrea Mantegna lasciò il padre adottivo appena si sentì
in grado di poter camminare sui propri piedi, e denunciò il contratto
di adozione, come si può desumere per via analogica... Non sappiamo
se la nascita del primo figlio di Mantegna sia coincisa con la vittoria
in tribunale su Squarcione o se invece avesse dato al giovane artista solo
la spinta per rivendicare i suoi diritti. Essa rappresentò in ogni
caso una grande conquista nella sua vita, perché gli assicurò
la libertà di azione e di lavoro, insieme alla speranza di poter
lasciare un giorno la propria bottega a un erede.
Ecco affacciarsi l'analisi della Presentazione al tempio di Berlino:
il viso del giovane posto all'estrema destra della tela corrisponderebbe
proprio ad un autoritratto di Andrea.
Mantegna aveva dunque ogni ragione di celebrare con i propri mezzi artistici
la nascita di un figlio come l’evento liberatorio
che gli apriva le migliori prospettive per il futuro. La scelta del tema,
che ha per contenuto la consegna del figlio al padre, non era casuale,
ma corrispondeva ad un’esperienza vissuta in prima persona. Il bambino
che irradia luce da ogni parte e rivolge gli occhi in alto al di sopra
delle altre figure del quadro, è Dio divenuto uomo, ma nello stesso
tempo con la sua rotonda corporeità il figlio tanto desiderato dal
padre. Il bambino si dispone su due sfere diverse: quella mitica attestata
dal Vangelo e quella reale, alla quale rimandano le fasce con le strisce
divisorie e la preziosa cuffietta battesimale allora in uso. E tuttavia
il quadro non sprigiona nessuna gioia e sembra ombreggiato da un atteggiamento
pensieroso, come se il prezzo pagato per acquistare la libertà avesse
lasciato le sue tracce. L’indipendenza era strettamente collegata con la
separazione dal padre, con la morte del padre naturale sopraggiunta poco
prima e la rottura definitiva con il maestro, che per tanto tempo aveva
preso il suo posto. L’acquisto del figlio si otteneva anche a prezzo della
rinuncia della madre, della quale l’artista era ben consapevole. Mentre
egli stesso nel quadro contempla la scena della presentazione, sua moglie,
la madre del bambino, si gira rassegnata dall’altro lato.
Era Nicolosa Bellini questa moglie, figlia di Iacopo e sorella di Giovanni.
La vita trascina il giovane maestro verso scelte difficili, che il suo
sguardo fermo può contemplare ma non evitare.
Da simile rovello adolescenziale sorge forse il conflitto tra presente
e antichità, tra natura e corpo, una tensione che soltanto il manifestarsi
del divino può per un attimo placare, mentre a nulla servono l'ingegno
e la perfezione del tratto.
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