Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo sesto

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Oggi è il primo venerdì del mese. In questa occasione di solito organizzo una piccola festa; invito gli amici più cari e alcune persone divertenti che non conosco troppo. D’estate, i camerieri preparano un grande tavolo sullo spiazzo oltre la piscina, accanto a uno spuntone di roccia che si affaccia sulla mia seconda spiaggia, piegata come un anello nuziale spezzato a metà. Il percorso dalla villa al banchetto è segnato da una doppia fila di torce, bastoni alti un metro che portano in cima una palla di materiale resinoso facilmente infiammabile. Il fuoco, una volta acceso, resiste per lungo, lunghissimo tempo, sprigionando un fumo aromatico che si alza dolcemente nell’aria, quasi venisse da un antico sacrificio propiziatorio, replicato da sacerdoti instancabili.

Quando il sole tramonta, i commensali interrompono per un attimo i loro scherzi e rabbrividiscono leggermente, rivelando un timido stupore. Contemplano la teoria delle luci che punteggia lo spazio aperto, non ancora buio. Allora, la conversazione si piega a toccare argomenti casuali e bizzarri, soffiati sulla superficie del mare da un dio scontroso, che forse paragona le voci dei mortali a campanelli tintillanti.

Io partecipo e insieme non partecipo alla cena. Anna un giorno mi ha chiesto se cercavo di assomigliare agli eroi di Fitzgerald, abituati a soppesare la folla da lontano, felici solo quando scelgono camicie di seta dai toni esasperatamente languidi, posate in cassetti che la mano volgare dell’ospite non sfiorerà mai. Il paragone mi lusinga; ma le ho ricordato che lo scrittore si affida all’azione, e i suoi personaggi vivono certe lunghe soste solo per marcare meglio il processo implacabile del destino. Se le disgrazie capitate alla mia famiglia mi hanno insegnato qualcosa, credo proprio si tratti dell’abitudine all’attesa, l’ora pigra e svogliata in cui si manifesta la bellezza, prima che le unghie della tigre riprendano a ferire. Mi accorgo di essere preda di uno di questi momenti, e vedo già la tigre nella malinconia dell’onda che si disfa sulla sabbia, così placida e innocua.

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Stamattina, però, mi sono svegliato male. Prima che la sveglia elettronica scattasse, ero già con l’occhio oltre il lenzuolo; lo sguardo era vacuo e vagamente arrabbiato. So bene qual è il motivo del mio disagio: Paola vive nell’isola da una settimana, confinata in una casa di contadini a un chilometro da qui. Ma non posso impedirle di venirmi a trovare, di fare il bagno, di crogiolarsi al sole tempestando con le sue unghie curate i tasti di un lettore di dischi. Nota tutto, sente tutto, e si è così perfettamente abituata alle regole che le ho imposto da risultare invisibile. È gentile, attenta; non pensa affatto di ledere la mia autonomia, il ritmo degli affari. Anzi, per marcare meglio il suo assoluto distacco dall’avidità di notizie tipica dei giornalisti, si aggira sugli scogli come un elfo aggraziato che scompare e riappare improvvisamente, e di nuovo sparisce nuotando in una dimensione parallela.

Mi capita di consultare la rete e vederla spuntare dietro lo schermo nella prospettiva illusoria che la finestra dello studio schiude, a mezzogiorno. È là, minuscola, e io non posso afferrarla. Se la chiamo, mi risponde con un gesto affettuoso completamente gratuito. Di tanto in tanto la incrocio, lungo un sentiero, vicino a una porta, accanto al buffet allestito sul confine della grande vetrata. Quello che mi turba è la sua tendenza a rispondere usando frasi convenzionali, che accennano a qualcosa di essenziale, ma al tempo stesso lo escludono. Ha la capacità di ruotare, mostrando per un istante infinitesimo un particolare importante, che viene subito coperto dal medesimo slancio di partenza. Questo non avviene né mediante il corpo, né con le parole. Si tratta di un piccolo trucco di origine probabilmente orientale, una magia che mi lascia indifeso.

Quanto a me, sono combattuto tra il desiderio di scordarmi di lei, trattandola come una commensale di cui si ignora il nome e non si apprezzano le forme, e l’impulso a proteggermi da un attacco che sicuramente arriverà. Quindi la spio, ascoltando i discorsi che le capita di intrecciare con i camerieri o con il mio maggiordomo, Massimo; seguo gli scatti leggeri della sua persona, le mosse naturali, i riflessi involontari, i dettagli che dovrebbero illuminare alcuni progetti reconditi. Ieri, l’ho osservata mentre si tuffava da un trampolino troppo alto per i miei gusti: mi ha sorpreso ancora l’armonia dei suoi muscoli, e ho colto la puntualità dell’azione, quasi scegliesse un attimo per dividerlo e amministrarlo con calma, decidendo insieme il sentimento e la volontà. Appena ho capito questa sua caratteristica, tuttavia, mi sono vergognato; non intendo giocare la parte del voyeur, filtrare una briciola di verità per rimuginarla di notte, in mezzo a un torrente di dubbi. No, non sono così debole.

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Spero che la festa mi aiuti. Gli invitati stanno raggiungendo il cancello della tenuta, una grata di ferro battuto da cui partono due muretti bassissimi. È il simbolo vagamente assurdo della mia ricchezza, la soglia di un territorio che non ho protetto con guardie o cani feroci. Ho comprato il cancello da un antiquario portoghese; mi interessavano le sbarre, imponenti, nere e dorate, ma abbastanza rade da permettere il passaggio di un bambino.

Gli amici ora aspettano con cortesia che un domestico venga ad aprire. Li riconosco tutti; gli uomini sono vestiti in smoking e camicia bianca, nonostante la calura serale. C’è l’indiano, Rajiv, o come diavolo si chiama; ci sono due ragazze compiacenti che io mantengo per mezza estate. C’è Nicoletta, un’italiana bugiarda fino all’estremo, che mi ha ossessionato per un anno intero con un corteggiamento senza scopo e senza speranza. Infine, tre greci di Salonicco, mercanti di tutto e di niente, abituati a concludere affari importanti lontano dagli uffici e dalla fabbrica.

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‘‘Signore, è arrivato il signor Yannis. Vorrebbe salutare, se non disturba.’’

‘‘No, Yannis non disturba mai. Sono subito da lui.’’

Lo incontro e lo abbraccio. Ha esattamente tredici giorni meno di me, ma sembra molto più vecchio. Ha i capelli quasi bianchi, una fisionomia da lottatore, molte rughe che gli segnano il viso, come se avesse trascorso gran parte del tempo a collegare macchine e ingranaggi che non volevano affatto rimanere uniti. Ci siamo anche odiati, a causa di Anna, ma non solo. Eppure il rispetto tra di noi è sincero; evitiamo di parlare di questioni che possono ferirci, perché entrambi ubbidiamo a una sorta di codice cavalleresco costruito apposta per i contendenti più agguerriti. Lui possiede quella che volgarmente viene definita forza virile; se fosse necessario combattere una battaglia decisiva, l’ultimo soldato a ergersi con la schiena diritta davanti alle falangi nemiche sarebbe senz’altro lui. Gli concedo volentieri l’onore del colpo mortale; mi spiace però assistere al suo sfacelo fisico, motivato dalla fatica eccessiva, dalla tensione inarrestabile.

Non riesco a trattenermi, e gli chiedo di Anna.

‘‘L’hai vista? Ho perso le sue tracce nel centro di Atene.’’

‘‘Anna? No. Abbiamo litigato... Non fa più per me, è cambiata. Sono sorpreso: non mi ha detto che doveva aiutarti.’’

Scuoto automaticamente la testa. Non è il caso di raccontare a Yannis tutta la storia, anche se nascondergli qualcosa di tanto grave è un grosso rischio. Lui ha il dono di sentire il pericolo e di reagire un attimo prima, quando l’avversario non dispone ancora di un bersaglio facile. Si allunga, e lo afferra; può anche ucciderlo, con un coltello, con la voce, con le mani.

‘‘Pensavo solo di presentarle Paola, la ragazza che dorme sull’isola. Credo l’abbia già vista, ma non so esattamente quando.’’

‘‘La tua nuova donna? Sì, è carina. I marinai del motoscafo l’hanno scoperta quando sono attraccati sul pontile della spiaggia. È una giornalista.’’

È già informato, dunque, e mi ascoltava semplicemente per conoscere meglio le mie intenzioni. È una trappola strana, questa, dalle pareti mobili che slittano rivelando altri nascondigli, ricoperti di specchi in cui mi rifletto per caso, con una goffaggine insospettabile. Ecco, adesso vengo stordito dall’intuizione che Anna sia definitivamente, assolutamente perduta.

‘‘Non è la mia donna. Non sarebbe di buon gusto...’’

‘‘Perché? Sì, Anna ti ama ancora. Ma desidera anche me. Ci trova complementari.’’

Yannis ride, e per il resto non si sposta affatto. Mi guarda, piantato nel mezzo della sala: sfruttando al massimo l’imponenza della sua figura, rimanda le risorse più brutali al momento in cui la situazione diverrà realmente difficile. Da parte mia, ho fatto il possibile: ho dato ordine di setacciare la capitale nella speranza di rintracciare la fuggitiva. Ho lasciato decine di messaggi nella segreteria telefonica, sottolineando l’appuntamento abituale del venerdì. Non posso fingere: ho bisogno che da un momento all’altro lei arrivi davanti al cancello, in modo da ottenere una spiegazione, un chiarimento. Se questo non avviene, affronterò Paola.

‘‘Bene, finiremo la conversazione più tardi. Vado a bere uno dei tuoi aperitivi.’’

‘‘Sono troppo leggeri per te, Yannis’’

‘‘Certo. Ti somigliano.’’

Si allontana, ridendo ancora. Benché il tono delle sue parole sia spesso sinistro, non dimentico la lealtà che ha dimostrato molte volte, alleandosi alle mie operazioni, irrobustendole con la sua franchezza.

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Ma è venuta l’ora di prepararsi, e scendere verso gli ospiti con il piglio indolente del ricco annoiato, che trascura il suo potere con eleganza e si concede al saluto di una piccola folla.

In camera da letto, scelgo tra le moltissime una cravatta a righe rosse e argento su fondo bianco. Mi accorgo d’essere pallido quando controllo il nodo e alzo un poco il mento, così che la luce di un faretto piove dall’alto sul mio viso, tagliandolo. Decido fulmineamente di cambiare l’intera illuminazione della villa, con un moto di rabbia che all’esterno non traspare. Mi ricredo subito, però, perché in fondo non sono abituato a prendermela davvero con le cose, i mobili, i vestiti, i calzoni, le pietre e le mura: considero tutto quel che mi circonda simile a me, nella stanchezza e nell’opacità di alcuni risvegli. Il mondo è innocente, se il passare dei minuti lo fa decadere, se l’incertezza della vita si trasferisce agli oggetti di cui ci serviamo. La riga della cravatta si lega al filo grigio che spunta sulla tempia, sopra l’orecchio destro. Vorrei eliminarlo, ma temo di ferirmi. Ho indossato una giacca nera, abbastanza pesante, acquistata a Istanbul; mi illudo d’essere protetto dalla sua stoffa, quasi fosse un animale fedele, pronto a sacrificarsi per il padrone.

Mi volto, e non riesco nemmeno ad aggiustarmi le maniche. Paola si affaccia, con un’espressione impertinente giustificata forse dalle sue gambe nude. Indossa un costume intero, giallo, con un bel fiore che sboccia accanto al suo seno scarso, ma non per questo meno femminile. Sembra uscita dalla doccia che le sta alle spalle: la pelle è asciutta, anche se alcune gocce d’acqua le decorano il collo, immobili come i grani di zucchero caramellato, o come la cera sciolta da una strega durante un rito preparatorio. I capelli, da antico romano, ornano le guance dividendosi in ciocche bloccate dal gel. Lei parla, come se abitasse da secoli in casa mia.

‘‘Sono elegante? Che dici, vengo così?’’

Sorrido, senza perdere completamente la smorfia di rimprovero che rende comica la mia reazione. Allargo le braccia, e all’improvviso mi ricordo una festa di compleanno, ai tempi del liceo, in cui lei si era divertita a travestirsi da attricetta, con un gonnellino a righe da cui spuntavano le sue cosce appena muscolose. Ha il fisico di una ragazza che va regolarmente in palestra e si allena a sopportare uno sforzo prolungato.

‘‘Penso che in valigia tu abbia almeno un abito da sera. Sai, di notte il vento batte sull’isola. Raffredda il mare, libera l’aria dal calore del giorno.’’

‘‘Sì, scherzavo. Potresti essere più gentile, però. Una volta ti piacevo, mi sembra.’’

Pronunciando questa frase si è allontanata, ritornando nel buio del corridoio. Per istinto, assecondo il movimento e la seguo, spingendomi sulla soglia. Da qui la osservo, o meglio esploro la distanza d’ombra che si è creata tra di noi. C’è una grande pace, come se le ultime parole avessero intonato una strana formula magica, preparata apposta per mescolare il passato e il futuro. Ascolto una musica che l’impianto stereo nascosto nella piscina diffonde, a beneficio di Yannis e degli altri. È una canzone nuova e ritmata, con accenti da melodia sacra e cadenze di tamburo elettronico assolutamente profane; anche se giunge smorzata nelle stanze alte, è tanto ricca di forza naturale da convincere il mio cuore ad aprirsi per un attimo. Paola, da parte sua, inizia a ballare, improvvisando una discoteca in miniatura, priva di luci e di pista. Così, io vedo il mondo attraverso un velo; le note si infrangono sul corpo della mia amica, simili a una pallina da tennis che, al rallentatore, batte contro le corde della racchetta e subisce tutto il rimbalzo elastico, scivolando via dopo il colpo del maestro. La partita si decide in questi giri di boa, negli avvicendamenti, negli scambi.

Eppure, non credo si tratti di un’avance. Mi è già capitato di scoprire il corteggiamento che fa una donna, e conosco le pause, le esitazioni, la parola di troppo dal significato innocuo, il voler restare là dove ci si trova. Assomiglia a un’inerzia dolce, che inclina verso un piacere malinconico; solo quando l’uomo diventa sgarbato, quando sceglie modi sbrigativi e frettolosi, viene il momento di una vera dichiarazione, detta malvolentieri e con un tono quasi sempre offeso. Paola non si comporta così, anzi, non incomincia neppure. Se io volessi toccarla, lei cambierebbe atteggiamento, inventandosi un discorso in relazione all’intervista, alla famosa intervista.

‘‘Balli bene, ma è ora di andare.’’

Smette, mentre la canzone continua, rifiutandosi di uscire dalla sua provvisoria eternità. Il pallore di alcune zone del corpo, non abbastanza sfiorate dal sole, le dona davvero, mostrando un temperamento lunare che attende con pazienza il suo momento di fortuna sotto i raggi del Mediterraneo. ‘‘Sì, hai ragione. Mi vesto nel bagno di servizio. Ho lasciato là i miei trucchi.’’

Si volta e cammina sulla moquette senza accennare affatto ad un saluto probabilmente inutile, ma che avrei molto gradito.

Rimango di nuovo solo, a perfezionare i particolari di un abbigliamento ormai goffo, superfluo, pretenzioso. Per controllare se i capelli sono in ordine uso il vetro di una finestra, che rimanda un riflesso spento: ho la sensazione di aver mancato l’appuntamento, di mancarlo ad ogni occasione, forse per la mia stupidità. Lei c’è quando non c’è; viceversa, se la incontro in carne e ossa, non la riconosco più. Mi impegno in un dialogo con un fantasma che risponde cortesemente, distratto però da altri fini, da inspiegabili disegni più consoni alla sua condizione. Mi chiedo a chi appartiene il fantasma: l’ottusità mi impedisce di procedere.

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‘‘E così, questa sera siamo in pochi. Meglio. Non sopporto i tuoi ricevimenti più rumorosi, Luca. Tutti si ubriacano e scordano come mi chiamo.’’

‘‘Capita perché parli troppo. Non lasci agli altri un attimo di pace. Dovresti imparare dall’ultima arrivata... Paola, non è vero?’’

‘‘A me piace restare in silenzio. Un mio amico, il direttore di un giornale italiano, dice che è meglio far correre gli occhi piuttosto della lingua.’’

‘‘Ma le notizie si raccolgono parlando.’’

‘‘Naturalmente.’’

‘‘Quanti anni hai, cara? Sembri molto più giovane di Luca, eppure siete stati compagni di classe.’’

‘‘Io sono invecchiato in fretta ascoltando i tuoi discorsi, Nicoletta. È l’effetto dell’eccessiva esposizione alle idiozie.’’

‘‘Villano. Lui è così, con tutte. Ma è inutile metterti in guardia.’’

‘‘Mi sono iscritta alle elementari prima del tempo. Sono nata in marzo. Ero la più piccola.’’

‘‘Bene. Ne hai trentanove, allora.’’

‘‘Trentotto.’’

‘‘Trentotto, trentotto... Non mi quadra ancora. Ma non importa; in ogni caso, sei un fiore.’’

‘‘Grazie.’’

‘‘Paola ha il dono di allenarsi anche quando respira. Non sta mai ferma. Molti dicono che il movimento è la chiave dell’eterna giovinezza.’’

‘‘Sì. Le tensioni vengono sciolte appena arrivano. Non riescono a provocare nessun danno.’’

‘‘Questa è nuova. Vorrei avere una conferma dal nostro amico orientale. Andiamo, ci dia un parere. Lei è certamente una persona molto saggia.’’

‘‘Lei chi, Paola?’’

‘‘Luca, non fare lo stupido. Alludo a lui, all’indiano.’’

‘‘Hai voglia di rispondere, Rajiv?’’

‘‘Sì, signori, ho ascoltato.’’

‘‘Dunque?’’

‘‘Vi aspettate troppo da noi. Vedete, noi, intendo dire gli abitanti del mio paese, non abbiamo un’opinione su tutto. Sì, conosco pensatori che hanno dedicato la vita a esplorare le strade della sapienza, e altri nostri scienziati si occupano di logica, ma...’’

‘‘Non sprecate energie nei dibattiti casalinghi, insomma. Siete più astuti.’’

‘‘La ringrazio, signorina. Veramente, io... Quando dimostro un interesse troppo acceso nei confronti di un oggetto, ecco, ad esempio il bicchiere che riposa davanti al mio piatto, provoco sempre un’azione opposta, che nasce di riflesso. Guardo il bicchiere e intanto ne sono guardato. È inevitabile. Così, creo un dualismo capace di paralizzarmi. C’è una storia...’’

‘‘Avanti. È eccitante.’’

‘‘Zitta.’’

‘‘Un sant’uomo si trovò, sotto il sole del Rajasthan, di fronte a un cobra arrotolato sulla stuoia su cui i passanti lasciavano l’elemosina. Se avesse fatto il gesto di tendere la mano, il serpente avrebbe ubbidito al suo istinto, scattando con un morso. Così, il saggio si irrigidì: provò ad annullare la minaccia separando se stesso e il suo avversario nelle infinite parti di cui è composto il mondo. Rimasero faccia a faccia per molte ore, finché il cobra non sparì, aprendo il cammino della meditazione.’’

‘‘Ah, che bello.’’

‘‘Io gli avrei sparato.’’

‘‘Io sarei morta dalla paura.’’

‘‘Allora è questo il modo di combattere i nemici più pericolosi.’’

‘‘No, non mi sono spiegato. Il serpente era attirato dal sentimento che l’uomo manifestava. Fino a quando avvertì la passione nel cuore dell’altro, restò incatenato a contemplarla, poiché nel suo karma c’era una domanda irrisolta sul motivo che spinge le creature a desiderare. Quando il saggio dimenticò il proprio impulso, l’animale venne di conseguenza liberato e scivolò nel bosco, dove più tardi incontrò una morte tranquilla.’’

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Ora la conversazione è finita e stiamo tutti riposando nelle sedie a sdraio che i camerieri hanno allineato lungo la gettata di cemento, sulla sommità dello scoglio.

Yannis vuole illustrarmi un progetto e traccia grandi cerchi nell’aria con le dita che stringono una sigaretta accesa. Non gli dò retta, ma sono affascinato dal fumo che appare a vortici improvvisi nel chiarore diffuso da una lampada alle nostre spalle; il viso del mio compagno d’affari è nascosto, anche se la bocca appare ritmicamente per vuotare il bicchiere sostenuto dall’altra mano, la destra. Noto con quanta avidità beve, e quante volte versa il cognac dalla bottiglia che ha requisito al termine della cena. Il fumo si mescola alle stelle: grazie a una distorsione magica delle distanze, il firmamento sembra galleggiare all’interno di una nebbia nordica. Il vento è cessato, ma il mulinare del braccio determina ugualmente una tempesta di proporzioni minuscole. Se mi limito a fissare il vuoto, ho il timore d’essere imprigionato in un teatro di burattini, con il fondale punteggiato da riferimenti argentei, tondi come pianeti alla deriva. Il vapore è il preludio all’apparizione di una nave, dalle vele scosse e riparate affannosamente dai marinai.

‘‘Il mare è sparito.’’

‘‘Perché, Paola, speravi di fare il bagno? Non sei a Rimini. La spiaggia è deserta, a mezzanotte. Nessun fuoco, nessuna braciola alla griglia.’’

‘‘Non prenderla in giro. Dal motoscafo scendiamo spesso in acqua, dopo il tramonto.’’

‘‘Sì, ma avete i fari. Comunque non è consigliabile. Si rischia di cadere in un branco di meduse.’’

‘‘Non bruciano, di solito.’’

‘‘Qualcuna urticante c’è sempre, piccola e cattiva in mezzo al gruppo.’’

Il mare è insidioso. Per questo, ultimamente tendo a evitarlo. Nicoletta si alza e si toglie il vestito da sera, mostrando un costume rosso che mi sorprende un poco. Dice che vuole tuffarsi, e grida alle altre di seguirla, giù fino alla spiaggia. È evidente, però, il suo tentativo di inventare come al solito una bugia, turbando la tranquillità della serata.

Mi giro, senza badare più di tanto al trambusto suscitato dallo spogliarello. Due sedie più in là c’è Paola, assorta in un pensiero che forse le sfugge e poi ritorna. È proprio vero, ha l’aspetto di una ragazzina; la sua guancia è gonfiata da un respiro profondo, un soffio che la anima oltre ogni difficoltà, ragione, torto. Non ha iniziato l’intervista, e non si è ancora permessa di accennare a un mio dovere o a un suo diritto. Preferisce costeggiare la giornata, dividendola nelle consuete occupazioni di una bagnante, attenta a non scordare la presenza delle cose. Ma vorrei sapere a chi sta rivolgendo quella preghiera muta a cui si dedica in questo momento, brillando di luce nella notte. Rajiv le è a fianco, quasi compiaciuto per il silenzio metafisico che li circonda e che sottolinea la loro diversità rispetto al resto dei commensali.

Paola si alza a sua volta e si toglie i pantaloni. Ha conservato il costume giallo per farlo valere di colpo, come un’arma.

‘‘Luca, adesso mi butto.’’

Così ha detto; mi accorgo subito che il suo non è uno scherzo ma un comunicato. Infatti arretra, camminando verso l’estremità della spianata. Sosta nell’ombra, defilata, poi si volta e sparisce.

‘‘Oddio, è matta.’’

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