Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo quinto

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Sto correndo lungo Odós Aghíou Konstantínou, verso Platia Omonías. Ho lasciato alle mie spalle il rifugio di Anna, tremando; lei non è più ritornata, e il cadere del sole mi ha fatto rabbrividire. Sono rimasto ad osservare il muro bianco che trascolorava dall’arancio al violetto; ho cercato di cogliere tutti i passaggi di questo arcobaleno serale, mentre il mio udito si affinava tentando di indovinare gli spostamenti di chi saliva in ascensore. Interpretavo la serie dei suoni nella speranza di sentire la corsa leggera della mia amica. Ho ascoltato un bambino piangere per un’ora intera, e un gatto che gli miagolava accanto offrendosi quasi come un gioco impossibile, il sostituto di una madre mancante.

Ormai è notte, e la folla ateniese si lancia nelle strade per respirare il vento fresco che viene dal mare. Parlo di folla, perché nessuno riesce a dividere, qui, d’estate, un individuo dall’altro; nessuno si arrischia a distinguere, sotto le luci gialle, bianche, azzurre di una città in decomposizione, i volti degli uomini che avanzano o indietreggiano nella pubblica via. Il cammino si interrompe ad ogni metro; molti negozi sono ancora aperti e riempiono il marciapiede di merci in esposizione. Le donne anziane, placidamente sedute accanto alle porte delle case, si mescolano alle puttane di varia bellezza che ingombrano l’occhio e vogliono rubare uno sguardo.

È il traffico dei traffici, abituato a trascurare in modo perentorio qualunque sommità che lo sovrasta, a partire dal fantasma ingombrante dell’Acropoli. A questo monumento gli ateniesi non prestano fede, rivelando una solida saggezza. Naturalmente, i legami di parentela con gli antichi eroi sono del tutto perduti; il commerciante di Odós Sofokléous discende da Sofocle non più di quanto un siciliano preso a caso sia figlio di Empedocle, il sapiente che si gettò nell’Etna per essere meglio dimenticato. Ma la separazione dal passato desta sempre meraviglia: talvolta mi riprometto di studiare meglio la nuova stirpe mediterranea, eternamente mobile. L’uomo che mi sta urtando non resta nella memoria, è comune senza esserlo. Credo si tratti di una virtù precisa, distillata negli anni da una razza che, fingendosi inferiore, si ritrova oggi superiore e planetaria. Distante dalla fissità di certi volti di ragazzo scolpiti in marmo pario, perfetti ma passivi, quasi ad esprimere il desiderio di venire stuprati dagli invasori.

Mi fermo, e sono nella piazza; qualcosa che assomiglia alla vertigine mi conquista definitivamente. Le macchine girano intorno all’isola verde inventata al centro del rondò; il frastuono può assordare, ma le mie intenzioni sono comunque dirette verso uno scopo preciso. Forse Anna mi ha abbandonato a causa della nostra lite, forse è stata trattenuta e la trappola destinata a me è già scattata contro di lei. Devo salvarla, in nome dell’amore e dell’amicizia. Guardo un vecchio dinoccolato, con le dita raccolte ad afferrare un bicchiere di vetro in cui nuotano molte foglioline di tè. Mi assale il rimpianto per un bacio non dato, sopra gli scogli, quando volevo liberarmi a tutti i costi di lei. Mi annoiava quella vita, oscillante tra il sesso e le sostanze; mi sembrava stupido il modo in cui si affannava a rincorrere soluzioni perdenti, come se rifiutasse di esistere in quantità normale. Anche l’ultima scenata appartiene allo stesso personaggio; si sveglia, mangia e respira solo per ottenere un abbraccio, una mia carezza, una polvere pericolosa, mescolata dolcemente al vino.

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Se qualcuno l’ha imprigionata, devo liberarla. Ho frugato nell’agenda e nel diario, e ho trovato il nome di Paola accanto all’indirizzo di un vicolo del centro. È laggiù, due incroci a destra. La mia ultima esitazione non può servire a nulla, perché certamente non è il caso di telefonare alla polizia. Non ho nemmeno il tempo di radunare i miei uomini, che in questo momento sono dispersi tra i bar e le osterie del porto. Così, seguo l’ispirazione dell’attimo e mi dirigo verso la meta, scoprendomi a mio agio nel cuore di un’ultima impresa romantica, una breve follia che arriva e subito scompare. Ma non sono ancora capace di trascinare tutto me stesso. Per metà sono immerso nei dubbi, che riesco a scordare solo concentrandomi sui gesti delle figure calate a ritmare la notte.

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L’illuminazione della capitale è soggetta a forti sbalzi, anche nei quartieri più battuti; cambio percorso e sono immediatamente nel buio, interrotto dai fari delle automobili che sembrano tagliare in due le mie gambe. A sinistra spicca una macelleria, grazie al suo neon lampeggiante; mi chiedo chi può comprare la carne violacea tempestata dalle mosche e dalle farfalle. Superando la vetrina, o meglio quel che ne resta dopo che il tavolo di marmo ha invaso la strada, ho la sensazione di attraversare un posto di blocco costruito a difesa di una frontiera immaginaria; sono le macchie di sangue del grembiule di un inserviente a suggerirmi l’idea della guerra, o di una feroce guarnigione di polizia dove i nemici vengono catturati e sottoposti a tortura. Nessuno mi parla. È vero, non riuscirebbero: la mia velocità reale è troppo alta, e gareggia con il corso dei pensieri.

Superata l’ultima svolta, controllo se il vicolo corrisponde all’indirizzo. La targa appesa ad un lampione spento non rivela gran che; mancano alcune lettere, e quelle rimaste diventano simili alle parti di una formula matematica, innaturali e astratte, rivestite di un’apparenza classica, vicine all’eternità. La purezza del tratto, inciso sopra una specie di porcellana bianca segnata nel mezzo da una grande crepa, contrasta vivacemente con lo squallore delle case, ognuna arricchita da un fiammante portone di lamiera. Il metallo è stato dipinto di verde o di rosso. Capisco d’essere arrivato alla fine della ricerca e mi affretto a esaminare i campanelli nella speranza di trovare un indizio utile. I numeri non esistono.

Stranamente, accanto a un’entrata è appoggiato un motorino nuovo, che brilla di un lusso non adatto al luogo. L’associo immediatamente a una delle manie più singolari di Paola: arrivava regolarmente a scuola, anche d’inverno, con un Ciao lucido e truccato, frutto della sua volontà d’indipendenza. Lo parcheggiava in cortile e restava spesso a contemplarlo, anche durante lo svolgimento delle prove scritte. Mentre gli altri si affannavano a comprendere i sottintesi di una versione difficile, lei considerava sorridendo le cromature del manubrio, gli specchietti retrovisori, l’ultimo adesivo scelto per decorare la carrozzeria. A me bastava mezz’ora per risolvere i problemi del brano preparato dal professore; prima di consegnare, mi stupivo della completa immobilità della mia compagna, ferma nel banco accanto alla finestra, con il foglio intatto davanti alle dita, rapita nel mistero di un mistero. La chiamavo, bisbigliando ‘‘Paola!’’ Io, il migliore, avevo paura d’essere punito per la sciocca preferenza che accordavo a una ragazza tanto distratta. Lei, che mi aveva inteso, aspettava un attimo prima di concedersi; poi si voltava lentamente, mormorando in una lingua che i profani non capivano: ‘‘Presto. Passami il compito.’’

Questo avveniva, quasi sempre. Più tardi, trascorrevo il pomeriggio a chiedermi come era possibile che una donna fosse svagata a tal punto, e insieme così terribilmente pronta a esigere l’unica cosa che in quel momento le serviva davvero. Penso che il motorino fosse il simbolo di un orizzonte infinito, lo stesso forse che mi commuoveva leggendo la poesia di un autore dell’ottocento, o l’ultimo capitolo di un romanzo francese. Ma non riuscivo ad accettare che l’assoluto potesse trasformarsi in un oggetto tanto banale, senza perdere affatto la sua intensità. Il bagliore del metallo si rifletteva negli occhi di Paola, prima abbandonata a se stessa e poi fremente, nella sua richiesta di aiuto, senza dover mai chiedere aiuto. L’istante di transizione mi affascinava, costringendomi a ubbidire.

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Quindi, questa è la casa giusta: seguendo l’intuizione, apro il cancello e mi trovo all’interno di un lungo e stretto corridoio che termina in un andito oscuro, là dove comincia una scala ripida. Purtroppo, tra me e la scala si interpone un’ombra; è un gigante dalle spalle larghe, la barba mal rasata, due occhi azzurri come l’acqua del mare verso la costa. Indossa un girocollo nero che mette in evidenza i suoi muscoli; le mani sembrano piagate da qualche malattia. Mi avvicino, e più che dal suo aspetto minaccioso vengo intimorito dai tagli, ora molto evidenti, intorno alle dita; un anello d’argento con uno scarabeo scolpito sopra una pietra blu segna il suo indice. La bocca è carnosa, volgare.

‘‘Scusa, mi fai salire?’’

‘‘No.’’

‘‘Come sarebbe, no?’’

‘‘Hai capito benissimo.’’

Così dicendo, si stende quasi ad occupare lo spazio che lo sbocco del corridoio crea, in fondo. È mosso da una sorta di quieta determinazione, che si unisce però a una sofferenza incessante. Nulla del mondo gli interessa, tranne il suo compito quotidiano, che intende portare a termine con molta cura.

‘‘Perché vuoi fermarmi?’’

‘‘È il mio lavoro.’’

‘‘Ce l’hai con me?’’

‘‘No.’’

La voce contrasta con il personaggio: è garbata, senza inflessioni. Parla un greco scolastico, tipico delle classi agiate, oppure di chi ha imparato la grammatica più tardi, dall’esterno. In un certo senso mi assomiglia, almeno nel modo di esprimersi. Scarto subito la possibilità di pagarlo, di corromperlo; d’altra parte, uno scontro fisico si risolverebbe a mio completo svantaggio. Sono ormai a poche spanne da lui, e non so come comportarmi.

I miei nervi allora cedono per l’esasperazione. Io, che non ho mai fatto a pugni con nessuno, tento goffamente di afferrare l’avversario per la maglia, con un’azione che è insieme troppo lenta e troppo rapida. Il braccio viene bloccato con facilità estrema, il polso si piega provocando un dolore insopportabile. La fronte sta per sbattere contro la sua testa.

‘‘Glaukos, smettila. Lascialo libero.’’

Ascolto queste parole quando il sangue mi ha già invaso il cervello, nel timore d’essere in pericolo mortale. Le mattonelle sporche del pavimento si confondono febbrilmente, la prospettiva cade, una macchia dilaga nel centro della pupilla.

‘‘Luca, ti prego. Vieni.’’

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Paola mi chiama con un tono che non ammette repliche, nitido nella sua semplicità, autorevole e pulito. Alzando il capo mi sembra di scorgere una scarpa e una caviglia sottile che spuntano dal secondo pianerottolo. Il viso ora sta avvampando, perché le forze vitali riprendono vigorosamente coraggio. Sembro ubriaco; ricordo una cena in cui insieme a molti amici discutevo di donne, giudicando anche Paola, tra le risate e i brindisi. Supero i gradini con un passo indebolito dallo sforzo e volto le spalle al guardiano, che si è ammansito all’istante. La battuta del piede è così corta da costringermi a procedere in equilibrio precario, controllando dove cammino e piegando la schiena verso la luce. L’appartamento che mi attende è infatti illuminato da una lampada alogena. Resto sorpreso quando lei mi bacia sulla guancia, delicatamente.

‘‘Quanto tempo, Luca. Chi l’avrebbe immaginato...’’

Rispondo con un cenno d’assenso, tentando di mascherare la debolezza della mia posizione. Sento che la porta si chiude dietro di me e vedo una grande stanza, arredata all’italiana, con tutti gli oggetti che da Milano a Roma incontrano il favore della borghesia alla moda. La poltrona disegnata da un famoso architetto, uno stereo dell’ultima generazione, un forno a microonde rimasto imballato. Ma nulla di tutto questo mi interessa, mentre mi dimentico dello smarrimento e butto la giacca sul divano, con un gesto che vuole dominare l’ambiente in cui mi trovo. Lei è di fronte a me.

Le sue braccia candide risaltano ancora di più grazie al gilè nero che indossa, come un Peter Pan delle tenebre; ha i capelli cortissimi, e mi sembra che li abbia anche colorati, perché non ricordo quel riflesso chiaro che ora li percorre. I suoi orecchini sono due semplici perle, che si armonizzano sapientemente con una catena di oro bianco a due giri, appena sotto il mento. Le gambe sono fasciate da una specie di collant dalla trama resistente. Forse è più alta, ma il fisico è asciutto e teso come al solito; le guance sono scavate, accese da un’ombra di trucco che al contrario rende esangui le labbra sottili.

‘‘Accomodati. Abito qui già da un mese.’’

Ho l’impressione che aprire bocca per dire qualcosa sia una fatica totalmente inutile. Sì, lei è come un ragno, che tesse la ragnatela per bisogno e per vanità; la sua eleganza corrisponde al luccichio dei fili di seta sospesi tra un albero e l’altro, geometrici ma femminili, dal disegno regolare e variabile. Quanto a me, non credo di somigliare a una mosca; probabilmente interpreto qualche tipo diverso d’insetto, uno scarabeo vanesio dal dorso dipinto in modo chiassoso, facile preda delle ghiandaie, eccessivo nel suo non volersi mimetizzare affatto. Ma non escludo nemmeno d’essere semplicemente un uomo, ipnotizzato dal mondo microscopico del bosco, invidioso della sua operosità. La stanza è piena di cristalli, vetri e altre superfici trasparenti.

‘‘Ciao, Paola. Cercavo Anna.’’

Se devo dimostrarmi idiota, tanto vale incominciare subito e seguire la parte sino in fondo. Mi piacerebbe cogliere in risposta un fremito di sorpresa o di disappunto; purtroppo, la mia compagna non ha perso affatto il dono di vivere al minimo livello di emotività, così che le basta arricciare il naso per esprimere un segno di sarcasmo sincero.

‘‘Anna?’’

‘‘Sì. Tu avevi appuntamento con lei, oggi.’’

‘‘Infatti...’’

‘‘Infatti?’’

‘‘L’ho incontrata questa mattina. È una ragazza graziosa. Siete insieme da molto?’’

Sto già perdendo terreno. Per calmarmi, ripeto a me stesso che sono io l’imprenditore abile e fortunato, io ho alle mie dipendenze un piccolo esercito di aiutanti fedeli, io commercio tra l’Europa e l’America senza allontanarmi dal giardino di casa. Paola invece è... Chi è? Cosa fa?

‘‘Per chi lavori, Paola? Un giornale italiano?’’

Alza impercettibilmente le spalle. Sì, sono costretto ad ammetterlo: è diventata più bella, proprio perché ha perso quell’aspetto da bambina di campagna che velava il suo corpo, suggerendo un orizzonte di fatiche sgradevoli, genitori abituati a minacciare rappresaglie, paesaggi troppo calmi e nebbiosi per una donna a cui piacciono le montagne. Però, non ha neppure l’aria metropolitana, lo sguardo dell’impiegata ambiziosa che si prepara due uova nella solitudine di un tinello periferico. Forse è sposata, anche se non ha anelli alle dita.

‘‘Va bene, non sono affari miei.’’

Mi siedo sul divano, colto da un attacco improvviso di timidezza. Sono costretto a notare una piccola striscia rossa accanto allo stipite della porta alla mia destra. Temo sia sangue, ma non posso esserne certo; la salsa di pomodoro bruciata può avere un’apparenza molto simile. Il resto del pavimento è pulito, sembra anzi lucidato di fresco con un detergente al limone. Vorrei chinarmi ad annusare, ma non è il caso.

‘‘Sbagli, sono affari tuoi. Ho viaggiato fin qui per intervistarti.’’

‘‘Ah, davvero... E chi ti manda, se posso chiederlo?’’

‘‘Nessuno. Vendo gli articoli al miglior offerente.’’

‘‘Ma guarda. Perché sarei un argomento così interessante?’’

‘‘Luca, ti prego. Lo sai, io avevo una vera adorazione per te. In questo periodo vanno di moda le storie degli italiani che hanno trovato fortuna all’estero. In patria non è rimasta molta gente in grado di mostrare buone credenziali. Parecchi industriali sono in carcere, altri dovrebbero giustificare troppi compromessi. Il pubblico cerca avventure limpide, l’emigrante che si è fatto da sé....’’

‘‘Sì, ho sentito dire. Non penso d’essere un esempio di onestà, però.’’

Lei ride e allarga un poco gli occhi, quasi a mimare uno stupore irrefrenabile. È falsa, ma simpatica; riesce a imitare benissimo gli sguardi di una ragazzina impertinente, che insiste per invitarti a una festa dalle conseguenze inattese. Eppure mi accorgo di muovermi all’interno di una scena completamente ricostruita; forse in cucina è nascosto un cadavere, e sotto il vestito nero si aprono ferite non cicatrizzate.

‘‘Ma dai! Proprio tu, il genio, il sincero, il buono. Quante volte ci hai salvato, noi che meritavamo al massimo un cinque in pagella? Ti alzavi dal banco e pretendevi d’essere interrogato per il terzo giorno consecutivo. Riempivi di parole i fogli protocollo, mentre io distraevo il professore.’’

Tocca a me ora sorridere, ma in modo amaro. ‘‘È passato il tempo, Paola. Temo di deluderti. Anch’io ho dovuto accettare qualche favore illecito.’’

Rimane con la bocca leggermente aperta, approvando meccanicamente quest’ultima frase. Poi appoggia il dito medio sulla guancia sinistra e scende con lentezza verso una piccola piega della pelle, in basso. Con un sospiro, chiede: ‘‘Spero non avrai ucciso qualcuno, no?’’

È drammatico non capire se scherza o se indaga: vorrei interrompere la conversazione, scendendo le scale a precipizio e ritornando nella piazza affollata. Ho commesso un grave errore a presentarmi così, indifeso, senza precauzioni. L’appartamento è circolare, privo di uscite, artefatto. Tutto è illusorio, anche il suo ginocchio inquieto che si piega e si distende accompagnando il ritmo di idee imprevedibili.

‘‘Voglio sapere dov’è Anna.’’

‘‘Anna? E come posso risponderti? Non l’ho più vista.’’

‘‘Il secondo appuntamento era per il pomeriggio, o per la sera.’’

‘‘Niente affatto. Avevamo già discusso abbastanza. Adesso aspettavo te, in carne e ossa. La tua fidanzata...’’

‘‘Non è la mia fidanzata. Si tratta semplicemente di un’amica che ho sbagliato a coinvolgere. Ma ero in difficoltà. Il tuo arrivo ad Atene è molto strano.’’

‘‘Strano? Io non trovo. Perché sei così diffidente? Mi piacerebbe parlare con te, registrando su nastro e poi sbobinando. Quando il pezzo sarà pronto, lo controllerai. Non vendo articoli senza avere prima l’approvazione della fonte.’’

Ha un tono piccato, adesso. Ma non credo nemmeno a una frase di questo discorso. Così, insisto a mostrarmi sgarbato, per provocarla e svelare nuovi dettagli della sua missione bizzarra. ‘‘Qui non ci sarà nessuna intervista. Se veramente vuoi le mie confidenze ti consiglio di accompagnarmi sull’isola.’’

Scopro con un brivido che l’ho resa felice.

‘‘Ah, è perfetto, stupendo. Non osavo chiederlo. Visiterò il tuo regno in mezzo al mare, la casa di cui si parla tanto, il centro operativo. Grecia classica e tecnologia: sarà un racconto magnifico. Certo. Il principe della finanza si riposa ammirando il tramonto, dopo aver battuto sui tasti del computer gli ordini che sconvolgeranno il mercato...’’

‘‘Paola! Cos’è questa assurdità?’’

Si avvicina e, prima che io riesca a impedirlo, mi abbraccia affettuosamente. Ora, nel momento esatto in cui il suo corpo mi sfiora, avverto un grande sentimento di pace, assurdo e fantastico, quasi che un lungo cammino sotto la neve sia improvvisamente finito. C’è un grande contrasto tra il vuoto assoluto che mi circonda e la presenza di una nuova persona. Non la riconosco, così come nella pianura ghiacciata il viaggiatore scorge solo i lineamenti della donna che lo sta salvando. Ma la sua esistenza gli basta, mentre il giorno muore.

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Ecco, è l’alba. Paola e le sue valigie sono ammucchiate nel centro della sala in cui aspettiamo il traghetto che ci porterà, insieme, sull’isola. Definirla sala è certamente troppo; in realtà si tratta di un capannone sporco adattato frettolosamente allo scopo.

In mezzo stanno tre file di sedie, rubate forse a qualche aeroporto. Davanti, inizia una spianata di cemento che dovrebbe terminare là dove le onde battono contro la banchina. Per fortuna, il sole si è appena levato: la temperatura si alzerà presto a livelli insopportabili, disturbando le galline stipate nelle cassette aperte proprio accanto a me. Un contadino baffuto le controlla con attenzione, cercando di non sciupare l’unica sua proprietà. Ogni tanto le conta puntigliosamente, e si volta per verificare se qualcuna ha rotto gli indugi, liberandosi. Ma scappare è un’impresa difficile, perché un legaccio le imprigiona e il sonno sembra fare il resto, intorpidendo il loro spirito. Ho l’impressione di non avere dormito affatto, anche se ricordo d’essere ritornato a casa di Anna nell’inutile speranza di salutarla. La mia coscienza è un poco allucinata; il capannone è un luogo a parte, senza riferimenti, e le sue pareti prefabbricate costringono il pensiero a rimbalzare, annullando ogni forma di coerenza.

Paola mi sorride, divertita. Non rispondo al suo gesto d’intesa; preferisco alzarmi per cercare un caffè, tanto improbabile quanto può esserlo un bar sprofondato nell’oceano. Avrei dovuto usare il denaro, spostarmi in aliscafo, noleggiare un velivolo; ho scelto invece di servirmi della linea abituale come un turista qualunque, costretto a subire i ritardi, gli scioperi, il rombo dei motori che si alza fino a provocare il mal di testa e il vomito. Non voglio che la mia immagine venga deformata dagli atteggiamenti tipici di un magnate, di un miliardario. Il mio ruolo assomiglia molto all’idea che un estraneo si fa di questi personaggi, ma un abisso mi divide dai brillanti operatori della Borsa. Sono molto simile allo scolaro di una volta, protetto dalle sue qualità e completamente insicuro.

Percorro il lato più lungo di questo hangar abbandonato. Purtroppo, la macchina che distribuisce bibite e focacce è vuota o rotta. Mi chino alla ricerca di una manopola capace di sbloccare l’ingranaggio e vedo in terra due carte, un tre e un sei di bastoni. Le raccolgo, stupito per il loro disegno raffinato, che rivela certamente un’origine italiana. Dietro alla macchina spunta una signora, forse cinquantenne, tutta protesa a esprimere felicità e gratitudine.

‘‘Grazie. Pensavo davvero di averle perdute. Che strano: il tre significa un grande successo, il sei è... Davvero, le ha pescate giuste.’’

Parla a raffica, mentre io esploro la memoria per decidere se dare credito o no a questa profezia. La signora non riesce a tranquillizzarmi. Il suo aspetto cortese è abbastanza insolito, e la voce è di nuovo priva di accento, immateriale, misteriosa.

‘‘La terrò aggiornata. La fortuna non mi ama.’’

‘‘E invece sì, le giuro. Io...’’

‘‘Luca! È arrivata la nave. Corri.’’

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