Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo quarto

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Il televisore di Anna riceve solo in bianco e nero, e le immagini vengono riprese solo da tre canali. In questo momento, di mattina, la trasmissione più interessante è un film hollywoodiano sulla Bibbia. Purtroppo, il regista ha progettato le scene in funzione dei colori sgargianti degli abiti e delle armature, e infatti ricordo bene il contrasto tra la barba bianca di Mosè e il suo grande mantello rosso. Nulla a che fare con il grigio opaco in cui si risolve la tinta insanguinata che percorreva il set; il volto dei nemici è una maschera inespressiva, e anche la luce diventa scura, ricoprendo i riflessi delle spade con una specie di bagliore malato.

Mi sembra quasi di non avere più le mani; la fontana si è spenta, l’acqua è stagnante. Anna è ripartita, prima ancora che mi fossi svegliato completamente. Mi spaventa molto il modo risoluto in cui intende affrontare il problema; forse ho sbagliato a raccontarle tutto, creando senza volere una rivalità tra donne di cui non ho affatto bisogno. Spero torni presto; intanto cerco di ricostruire nella memoria i colori perduti, confrontando ogni passo del racconto con gli affreschi che riempiono le chiese italiane. Ma lo scarlatto, il verde e l’azzurro esistono solo nella pellicola originale; i procedimenti del technicolor non restituivano nulla della realtà, prima esagerando e poi sottraendo, come un maestro che non insegna ai suoi allievi la formula delle polveri predilette.

Il tempo ha fatto il resto, slabbrando le linee, velando con una lente dorata il panorama. Charlton Heston assomiglia a Michelangelo; il profeta, l’artista e l’attore sono la stessa cosa per gli americani, rapiti ad ammirare il deserto intorno a Las Vegas, in cui talvolta avanzano piccole carovane di mormoni. Vorrei l’attualità, e per questo premo un tasto, inutilmente.

Se fossi ancora sulla mia isola avrei l’imbarazzo della scelta. Almeno trenta network programmano in continuazione gli avvenimenti del pianeta. Mi sposto con noncuranza da una città in fiamme a una landa artica in cui emerge il fungo di una bomba che sta per essere perfezionata; il ghiaccio si scioglie, determinando un piccolo sconquasso nell’esistenza dei pinguini, assolutamente ignari della mutazione genetica provocata dal bombardamento delle radiazioni. Poi, una fragorosa campagna elettorale percorre con un fiume di bandiere una metropoli dell’occidente; il candidato si prova un cappello sotto l’urlo della folla, ma il brusio viene inesorabilmente respinto dalla voce sibilante del commentatore. Sotto altri cieli, un documentario commenta la vita appartata dei monaci tibetani, anch’essi minacciati da qualche improvvisa intolleranza; e dal vuoto emergono arcipelaghi del Pacifico, abitati in apparenza da popoli felici.

Qui no; cambio, ed ecco Shakespeare recitato in greco da un uomo grottesco e inutilmente concitato. Forse la tragedia antica non si adatta al teatro elisabettiano; forse è un dilettante, che prova Amleto nel corso di una rassegna sperimentale. Eppure, l’ultima alternativa è un telegiornale letto da un annunciatore triste, che segue un copione scritto da qualche politico eminente e si dimentica a tal punto della propria vita da accontentarsi di un tono piatto e distratto, quasi pensasse ad altro. Gli ateniesi non hanno assimilato le regole del villaggio globale, così come preferiscono le vecchie divinità ai versi di un inglese proteso a contemplare l’abisso, un poco scioccamente.

Sull’isola, io registro, seziono, isolo un fotogramma e lo infilo in una specie di quadro astratto, come un medico separa un gruppo di cellule dal corpo, le analizza e le tramuta in un nuovo, convincente oggetto. Ma il particolare conserva sempre l’informazione originaria, poiché un tempo è appartenuto ad un insieme più ampio, al mondo. È un campione scelto con intenzione arbitraria, ripetutamente colorato e deformato. La violenza della televisione di Anna mi schiaccia, chiude ogni porta.

Il roveto ardente ora arde davvero? Sono fiamme o fiocchi di neve le strisce che agitano i suoi rami? Sento il desiderio di volare sull’Europa per assistere alla catastrofe dei governi e dell’uomo comune, sapendo che l’unico dettaglio degno di nota è il raggio che illumina ogni nostra disavventura. Penso alla giacca gialla di un operaio lanciato dentro una galleria in cui divampa un incendio, dopo l’urto dell’autocisterna contro la parete; per un attimo resta una macchia sul video, mentre l’inviato si volta verso la telecamera e parla, parla dell’accaduto. Sì, spesso mi trasformo in una mongolfiera placida e annoiata, sospesa a tre chilometri di altezza, dotata di un magico sguardo da falco. Quel re che si agita inutilmente, invece, cercando una rima impossibile, mi riporta a terra, mi sprofonda nelle solite ossessioni.

La regina Paola vuole la mia testa. È inutile ripetere che non è così; questo è il succo dei ragionamenti e dei sogni della notte. Due volte ho aperto gli occhi, sudato, solo per incontrare il buio dell’estate e il corpo di Anna, nudo accanto al mio. Prima di riaddormentarmi, precipitando ancora nella vertigine del liquore non digerito, ho sfiorato la sua pelle bianca. Il sesso mi è sembrato allora il più grande dei miracoli, perché nulla lo giustifica se non un vago soprassalto di animalità, ormai superfluo. Era bella, lo ammetto, per metà emersa dalle lenzuola, in parte abbronzata e in parte pallida. Mi ricordava l’abitante di un pianeta lontano, venuto per stipulare un accordo con la presuntuosa razza dei maschi, indegnamente rappresentata da me.

Ma la costruzione fantastica si è dissolta ammirando il bordo elastico delle mutandine, che segnavano appena l’inizio della coscia. Prima di cadere nel sonno ho scoperto che mi ispirava tenerezza; purtroppo, alla commozione seguiva subito l’ansia, come se non potessi amare più il gesto o l’abito qualunque di una donna.

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Non so da cosa abbia avuto origine tutto questo. Comunque, devo capire: spengo il televisore, quasi mi avesse offeso. Ho portato alcuni nastri che contengono le mie riflessioni, le note che dovrebbero chiarire da quale storia nasce l’indagine attuale. Su un punto non ho dubbi: non ho mai fatto nulla di male. Ma a chi traffica nei mercati tra Kiev e Lisbona può capitare di scivolare in una vicenda dai confini illeciti, e restare assolutamente ignaro. Di personale, a mio carico, rimane poco; nemmeno nel momento dell’ascesa, quando ho dovuto concludere operazioni rapide e rischiose.

Ecco una traccia: ero appena arrivato sulla costa di Patrasso, dopo aver visitato Delfi nella mia ultima settimana da turista.

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C’era un albergo sul mare, abbastanza spoglio e tuttavia piacevolmente esotico. Il gestore era un povero negoziante che aveva tentato di allargare la sua attività oltre i limiti abituali. Mi aveva confessato di trovarsi in grave difficoltà, perché i guadagni troppo scarsi non bastavano a coprire gli interessi bancari. Kosmas, così si chiamava, aveva costretto tutta la famiglia a lavorare nella nuova azienda; spinto dalla necessità di inventare qualche attrattiva insolita, che bilanciasse la piattezza della spiaggia e il fondale poco propizio alle esplorazioni subacquee, era riuscito a trasformare la moglie in una cuoca perfetta, in grado di combinare il pomodoro e i formaggi della cucina locale con i piatti raffinati di origine francese. Lui era basso, brutto e scuro. Due baffetti ispidi gli spuntavano sotto il naso, irritando le narici e costringendolo a passare meccanicamente le dita sopra la bocca, come se volesse grattarsi e non potesse, lisciando quei peli fastidiosi. Era derelitto, ma molto simpatico.

Sì; io ero reduce da altre disgrazie, e assistere a una sfortuna opposta, molto più normale, mi sembrava riposante. Mi è venuto in mente di comprare tutto, lasciando Kosmas a gestire il locale. La cifra era irrisoria, e la moglie mi fissava speranzosa. Era una bella ragazza, dal carattere silenzioso e mite; si era sposata a quindici anni, come capita di frequente da queste parti. Pensava che il suo ruolo consistesse innanzitutto nell’assecondare il marito. Gli aveva dato due bambini affamati, la dedizione completa nel lavoro pesante e una serie invidiabile di salse sofisticate. L’ingrediente base erano i limoni, mi spiegava con la sua voce dolce; li tagliava a metà con un movimento netto del polso, attenta a non sprecare nemmeno una goccia. Fiumi di latte si univano poi alle marmellate di pesca, al vino e ad alcune erbe il cui nome restava segreto. La vedevo incamminarsi di pomeriggio sulle colline e ritornare al tramonto con il grembiule pieno.

Non avevo molto tempo; sapevo che qualunque scelta avrebbe interrotto definitivamente l’immobilità dei miei ricordi, costringendomi a ripartire. Era la mia prima decisione da adulto. Nelle ultime ore non riuscivo più a sostenere lo sguardo tremante di Kosmas, ormai pressato dalle visite di alcuni figuri dall’aria funerea, che tacevano a lungo prima di iniziare una rabbiosa invettiva piena di parole incomprensibili. Mi rifugiavo allora nella stanza della cuoca, per gustare con lei un nuovo piatto e apprezzare l’azzurro che decorava le sedie e le finestre, una tinta inconsueta e impossibile per l’Italia, simile agli sfondi dei vecchi santini.

Ci faceva compagnia una nonna decrepita, forse perché non aveva un programma migliore, forse per evitare che rimanessimo soli.

Sbucciava fagiolini, separando il capo e la coda dal resto, che precipitava dentro una scodella appoggiata sul pavimento. La ragazza sorrideva a intervalli regolari. Una volta ha incominciato a cantare una nenia che non dimenticherò più.

Scherzando, mi sono anche rivolto alla nonna per chiederle se mi conveniva investire denaro nell’albergo, ma non ho ottenuto risposta.

‘‘È sorda, è sorda, non sente.’’

‘‘E tu, che ne dici?’’

‘‘Kosmas sarebbe contento. Ho paura per lui.’’

‘‘Paura? Perché?’’

‘‘I soldi degli usurai costano più degli altri.’’

Non volevo proseguire il discorso, probabilmente per non restare troppo coinvolto. Anche se i bagnanti si erano allontanati e il ristorante era deserto quasi tutte le notti, il posto continuava a piacermi per la sua innocenza. Ma dall’innocenza alla passione la distanza era breve; se lei avesse male interpretato una mia frase, se avesse creduto di aiutare il marito offrendosi al ricco straniero, mi sarei impigliato in una rete senza scampo. Se avesse iniziato a piangere, tergendosi delicatamente le guance con uno strofinaccio, non avrei resistito.

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‘‘Luca! Sono qui.’’

Anna è tornata; è già mezzogiorno e io mi sono perso dentro questi dubbi inutili. Corro ad aprire le imposte, mentre sento che lei si avvicina. La luce riempie la stanza e mi paralizza. Qualcuno mi abbraccia, mi bacia.

‘‘Bene, ce l’ho fatta. Non vuoi ascoltare come è andato il grande incontro?’’

‘‘Incontro? Allora l’hai trovata, alla fine. È cambiata? È invecchiata, o sembra ancora una ragazzina? Cosa vuole da me?’’

‘‘Avevi ragione. Era proprio la persona che parlava in dialetto. Sai, non è stato facile ottenere l’appuntamento. Un amico ha garantito per me, e l’ha convinta ad avvicinarsi. Si comporta in modo molto prudente, come una spia in missione segreta.’’

‘‘Dunque?’’

‘‘Dunque, dunque... Stai calmo. Non ho ancora capito di che affare si tratta, ma è sicuramente una storia importante. Si riferisce al tuo passato.’’

‘‘Me l’aspettavo. E in che modo?’’

‘‘Non so... Un errore, una dimenticanza.’’

La guardo intensamente; vengo preso all’improvviso da un sentimento di pena, come se mi trovassi di fronte a un animale mutilato, oppure fossi costretto ad esaminare uno dei crudeli avvenimenti naturali che spaventano i bambini: la farfalla catturata dalla mantide, il piccione schiacciato dalla caduta di un tronco, il fiume che devia il suo corso nella pianura e sommerge le tane delle talpe. Ma non scopro l’origine del mio dolore, perché Anna sembra graziosa, quasi bella.

‘‘Luca? Mi ascolti?’’

Ha indossato un giubbetto di pelle rosso, da motociclista, e le sue mani sono protette da guanti arabescati. Mi viene in mente l’eleganza inutile di una zitella, che ci tiene ad apparire in ordine nonostante tutto. Forse, secoli prima, ho recitato la parte di un parente scapestrato, un nipote che aveva fatto tanto arrabbiare la zia. Forse l’affetto originario si era trasformato in amore, cieco, esclusivo, sofferto.

‘‘Certo. Ma la situazione non è chiara. Cosa cerca da me? Hai preparato il terreno?’’

‘‘Non è facile. Credo voglia vedermi di nuovo, usarmi come intermediaria. Già stasera, al porto, dovremmo concludere un accordo.’’

‘‘Accordo? Ti rendi conto che non capisco? Io non sono ricattabile. Stamattina ho tentato di ricostruire i primi anni della mia carriera, ma non ricordo niente di strano. E poi, è davvero una giornalista?’’

‘‘Oh, senti! Sei stato tu a chiedere il mio aiuto. Figurati se mi interessa conoscere davvero il tuo passato. Sarà pieno di avventure poco regolari. Sei come gli altri, insomma.’’

La sua voce acuta mi insospettisce. Posso ancora fidarmi di lei?

‘‘Ti ha offerto un regalo, in cambio della collaborazione?’’

‘‘Regalo?’’

‘‘Sì. Qualche linea di polvere, una sostanza capace di alleggerirti, di renderti allegra.’’

‘‘Sei un maledetto bastardo. Anzi, sei un maiale.’’

‘‘Non mi sono sbagliato, però.’’

Trema, osservando l’orizzonte dietro di me, completamente occupato dalla parete bianca. È piccola, con due scarpe dai tacchi alti che rendono la sua figura precaria, come se i particolari del vestito, accumulati da un’intenzione fragile, si ribellassero al corpo che li sostiene. Mi rendo conto d’essere spietato, ma non ho altra occasione per difendermi.

‘‘Vai via! Spero di non vederti mai più.’’

‘‘Anna, non urlare. Non posso permettere a nessuno di inventarsi trappole contro di me, contro le mie regole. Il gioco deve essere corretto. Se ti paga...’’

Esplode, oscillando verso il tavolo e poi aggrappandosi allo schienale di una sedia, quasi avesse finalmente trovato l’appoggio che desiderava.

‘‘Ma che ne sai di me, che ne sai! Sei un maschio presuntuoso, non sei mai uscito dai tuoi territori. Quando stavamo insieme, mi compravi la droga solo per allontanarmi. Volevi mettere tra di noi il tuo disprezzo, la tua intelligenza superiore. Eri deluso se scoprivi che riuscivo comunque ad amarti, in tutte le condizioni, ubriaca, drogata, addormentata. La forza che dimostravo ti ha spaventato. A me del mondo non fregava nulla, mi importava solo dei tuoi occhi. Ma tu non hai cancellato quelle che adesso chiami regole, l’appuntamento con la televisione, la tastiera per i tuoi ordini. Io creavo confusione nell’esistenza. Era meglio eliminarmi.’’

‘‘Non ti ho eliminata. Sei ancora qui, e mi sembri molto viva.’’

‘‘No, ti sbagli. Sono morta. Quando ho capito che andavi con le altre donne solo per cacciarmi via, allora sono morta. Piango ogni volta che sento la tua voce.’’

‘‘Adesso basta.’’

‘‘Sì, hai ragione.’’

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Mi accorgo troppo tardi d’essere scivolato involontariamente in un ruolo che non mi compete. L’avrei abbracciata, se solo la situazione l’avesse consentito, se fosse... Noto che la sua gonna è corta, la sua cintura borchiata.

In questo momento mi viene in mente un pensiero strano. Vorrei lavorare in un negozio di cianfrusaglie, mettermi dietro il banco e aspettare l’arrivo delle ragazze, vederle frugare alla ricerca di una collana preziosa, di un bagliore appena diverso dal normale. Un tempo, di Anna amavo proprio quello che avrei dovuto detestare; il suo mostrarsi promiscua, la sua dedizione a ogni aspetto della realtà. Per me, la realtà è una roccia piatta, dove si scoprono con grande fatica alcune scanalature adatte a piantare un chiodo, passaggi obbligati nella salita, soste da abbandonare in fretta. Per lei, al contrario, tutto si sgretola e si mescola, come nel cassetto riempito dalla biancheria di una tredicenne. Talvolta una calza si rompe, un guanto si sfila, il corpo rischia il collasso; ma questo non è importante, è una fatalità, un andirivieni necessario.

‘‘Ciao. Addio.’’

‘‘Dove corri? Dove?’’

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Se ne è già andata, sforzandosi di rimanere in piedi sopra i tacchi traballanti. La porta si chiude, separandomi anche dal rumore, dall’ultima tentazione di accompagnarla, di fare pace. Anna non esiste più, così come il resto del mondo. Mi butto sul letto, nella speranza di ricomporre il quadro, che si frantuma in centinaia di pezzi sotto la spinta dell’intrusione di Paola.

‘‘Dove sono rimasto?’’ chiedo a me stesso, e questo semplice attimo di introversione si traduce subito in un piccolo viaggio verso la nebbia. Mi sembra di navigare in una barca che galleggia sul lago, trascinato da una corrente debole ma efficace. È quasi buio, e i programmi della giornata sono scomparsi, spazzati via da qualche incredibile coincidenza. Il paesaggio è invernale, nulla in comune con la mia assolata Grecia; al centro del lago forse mi aspetta una risposta, un approdo che purtroppo non riesco a individuare per colpa della foschia lattiginosa. Siedo a prua, avvolto da un cappotto; la mia età è indefinibile, ma certamente non sono più così giovane come ero, quando sono partito. Rabbrividisco (mentre qui, nel letto, il calore aumenta e mi costringe a sudare), ma la sensazione di umidità e di gelo è quasi consolante. Abbandonato, fingo d’essere un viandante che probabilmente sta per incontrare un drago. Non un mostro, però, tutto fuoco, fiamme e zolfo; piuttosto un serpente pigro, che si nutre di alghe in sospensione e spesso vomita un torrente di minestra densa, divertendosi a mescolare le acque.

L’indiano, là sul traghetto, mi ha parlato con grande dolcezza. Credo sia un demone mandato a controllare questo periodo della mia vita, per consolarmi prima che arrivi la sofferenza, come un arbitro gentile che sorride prima del fallo più cattivo. Certo, se il mito della reincarnazione fosse vero, ogni attimo e ogni impresa sarebbe un piccolo punto, segnato o subìto, all’interno di una partita di pallacanestro infinita. Chiedergli un consiglio... Il suo capo è coperto da un mezzo turbante bianco, che forse si dipana e si trasforma in un filo su cui Shiva tesse la danza delle esistenze.

Ora ritorno a pensare al passato, abbandonando la barca al suo destino. Perché, se Rajiv si è avvicinato in modo tanto gentile, la traccia del mio peccato deve manifestarsi periodicamente, con regolarità esatta; non c’è dubbio che qualcosa si è mosso, in corrispondenza della morte dei miei genitori. Dunque, nel periodo successivo... Sono costretto a sorvolare ancora le capanne e il mare, ricostruendo le frasi che scambiavo con la mia bella e sfortunata albergatrice.

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‘‘Il rischio di restare imprigionato si precisava, mentre i giorni passavano. Proprio all’ultimo momento, quando i creditori tempestavano di telefonate Kosmas, sempre più imbarazzato e sprovveduto, lei mi invitò a seguirla in una lunga passeggiata verso il bosco. Era un uliveto che copriva il pendio di una collina, dividendola in corridoi argentati. Il luogo era senza dubbio suggestivo, anche perché la luce incerta della stagione sembrava colmare i vuoti che separavano le persone dagli alberi, le foglie dal respiro. Guardavo un ramo, e avevo subito la sensazione che un soffio nato dal cuore del tramonto lo legasse all’altro; gli occhi vagavano perduti tra l’ammirazione e il rispetto. Ma la mia incertezza cresceva; avrei preferito allontanarmi velocemente, per non sostenere un dialogo che si annunciava troppo intenso.’’

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Non so quando ho registrato il nastro. Ad ascoltarlo oggi fa pensare a una storia romantica, un tradimento. Cadevo facilmente nel lirismo, allora. Ma non è accaduto nulla di irreparabile; solo alcune richieste piuttosto normali, un accenno alla mia evidente bontà, le allusioni al carcere in cui Kosmas avrebbe scontato le sue cambiali. Mi disse che il golfo era bellissimo e che sarebbe stato un affare sfruttarlo. Accennò all’abilità degli italiani e alla loro inventiva; immaginava già schiere di milanesi che percorrevano la sommità degli scogli alla ricerca di una caletta esclusiva. Lei avrebbe preparato piatti deliziosi, mentre io sarei rimasto a sorvegliare con indolenza la fatica dei miei nuovi dipendenti.

‘‘No, ascolta... Sto fuggendo proprio da questo genere di felicità. Non mi interessa attrezzare il paese, accogliere i miei concittadini. Ti ammaleresti, obbligata a cuocere gli spaghetti e il risotto di pesce. Non voglio rovinarti.’’

‘‘Ma... Perché parli così? Da bambina cucinavo sempre. È brutto restare a casa, con un padre pescatore che non ritorna mai per cena. Oggi conosco molte ricette. Mi piace dare sapore ai piatti.’’

‘‘Se compro, l’albergo non sarebbe più vostro.’’

‘‘Non importa. Tu garantiresti lo stipendio, la sicurezza. È abbastanza. È moltissimo.’’

Era inutile; i nostri punti di vista apparivano inconciliabili. Tuttavia, mi colpiva lo splendore del sole, il calore che mi circondava, come se quella terra mi avesse scelto una volta per tutte. Non intendevo spezzare l’attimo di pace che la natura mi stava offrendo, dopo il lutto interminabile. Ho accettato di rilevare le quote, e al ritorno ho comunicato la mia decisione a Kosmas; lui, incredibilmente allegro, ha preso da uno scrittoio sporco una pila di documenti che ho firmato in fretta. L’indomani, una transazione bancaria di importo quasi irrisorio perfezionava l’accordo. Risalendo in taxi verso l’albergo, ho ammirato per un attimo il suo tranquillo disordine dall’alto di una curva.

I problemi iniziarono subito dopo. Lei mi aspettava dietro ogni angolo, lasciava un fiore sul mio cuscino, appoggiava accanto alla finestra della camera un vassoio su cui riposavano brioches appena calde e frittate croccanti. A tavola ero il primo a essere servito, e il suo viso non osava mostrarsi direttamente al mio, preferendo rimanere nascosto nella penombra di una timidezza raggiante. Poi, arrivarono biglietti scritti con una grafia ricercata, poesie di qualche grande autore. Quando mi avrebbe rivelato il suo amore?

Presto, se come al solito non fossi fuggito. E, quel che è peggio, se non avessi rivenduto la proprietà, di nascosto, al farmacista del paese, un tipo dalla faccia avida e dalla carnagione eccessivamente pallida.

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