Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo terzo

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‘‘Mi chiami solo quando sei in difficoltà. Vergognati. Sì, ti dovresti proprio vergognare.’’

‘‘Le solite frasi, Anna. Non cambi mai.’’

‘‘Sì, sono ostinata. Sono qui per ricordarti che non puoi approfittare del mondo intero. Ti rimprovero. Non merito d’essere trascurata così, e la vita di Atene è schifosa.’’

‘‘Dammi un bacio.’’

‘‘E dopo, cosa succede?’’

‘‘Un bacio ti calmerà.’’

‘‘Ma non serve a nulla.’’

‘‘Questo è sicuro.’’

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Annoiato, sono pronto a dimenticare il luogo in cui mi trovo e la donna che ho davanti. Non riesce più a piacermi, anche se il suo corpo è ancora bello e le spalle nude formano un arco perfetto, quasi volessero abbracciare le mie parole. D’altra parte, non ho mai desiderato Anna, nemmeno quando facevamo l’amore tutti i giorni e il mio riserbo veniva appannato per un attimo dalla forza di un’altra persona. Quel tempo è lontanissimo, oggi; io continuavo a tradirla, nella speranza di cancellare un affetto che senza dubbio resisteva.

Il mio punto debole sono le ragazze in apparenza fragili, e invece dure, determinate. Voglio essere il loro salvatore, mi illudo di liberarle dalla condizione precaria in cui sono precipitate; non mi accorgo, nonostante una voce interiore tenti ogni volta di avvisarmi, che queste difficoltà sono utili alla loro esistenza. Spesso, i difetti della superficie di una parete nascondono il vuoto; se cerchi di raschiare il muro per togliere un avvallamento ti capita di sfondarlo. Capisci troppo tardi che si trattava di un particolare della costruzione.

Ma i tipi di debolezza sono infiniti. Riescono sempre a sorprendermi, a commuovermi davvero. Anna, ad esempio, è una tossica. Non molto, non tanto da rubare o da morire; resta appesa al ritmo di una dose settimanale, adattandosi al ruolo di piccola impiegata della droga. È abituata alle domeniche rovesciate, al tempo che sviene dentro un istante di luce.

È così, o almeno credo. Nessuno mi ha informato di una sua redenzione improvvisa.

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‘‘Allora, di cosa hai bisogno?’’

‘‘Mi devi ospitare. Ho un appuntamento con una ragazza, e prima di incontrarla volevo capire meglio la situazione. Aspetta. Non è quel che credi. Anzi, può diventare un pericolo.’’

‘‘Dici sempre che le donne sono un pericolo per te. Forse questa è l’occasione buona per dimostrare che non sei completamente matto.’’

‘‘Non sono matto.’’

‘‘Sì, certamente, scherzavo. L’età ti ha reso più serio. Forse più triste.’’

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Siamo in un bar all’aperto, seduti in una delle poche zone d’ombra. Anna di tanto in tanto si piega all’indietro e la sua faccia ritorna ad essere illuminata dal sole. I suoi capelli neri sono legati da un fermaglio color rosa fragola che spicca sulla massa scura; il rossetto segue la medesima tinta, troppo evidente. Gli occhiali riflettono il bagliore del mezzogiorno. Mi chiedo come possa resistere al caldo con noncuranza. Il trucco non si scioglie, ma l’espressione è impenetrabile solo in apparenza. È costretta ad un piccolo sforzo per mantenere la staticità delle labbra; talvolta sembra segnata da un rimpianto profondissimo. Mi ripeto che non conviene ricadere negli stessi errori, e comunque so d’essere ormai protetto, abituato alla sua particolare bellezza. L’ho assimilata, come succede sempre: la pietà per me esiste solo quando è associata al fascino. Resta il desiderio vago di accarezzarla, di chiudere gli occhi e pensarla diversa. Ma queste sono semplici illusioni; nessuna tregua riuscirà mai a trasformare Anna, che continua a rivolgermi domande polemiche.

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‘‘Chi è la tua nuova compagna? Potresti avere la gentilezza di aggiornarmi sulle conquiste di agosto. È la figlia dell’industriale? Quella che porta sempre tre anelli d’oro al dito e un orecchino grande come il suo naso?’’

‘‘Anna, ti prego... Sei fuori strada. Mi tratti come un avventuriero.’’

‘‘Scusa, forse sei tu ad avermi abituato così. E poi, non è un momento buono. Yannis mi dà dei problemi. Sì, non sono più felice con lui.’’

‘‘Mi spiace. Eppure impazziva per te. Quando eravamo ancora amici, mi ha tormentato con la sua gelosia.’’

‘‘Le buone abitudini si perdono alla svelta. Adesso si limita a ricompensarmi. Gli organizzo le feste e lui paga, lo bacio e lui stacca un assegno. Ma non spendo molto.’’

‘‘Questa è buona.’’

‘‘Sì. I miei vizi sono sempre gli stessi. E tu sei l’unico uomo che ho amato.’’

‘‘Scherzi. E Yannis?’’

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Finalmente ride, una bella risata aperta. Come al solito, mi sento in imbarazzo. Non mi garba essere corteggiato, e tanto meno voglio ascoltare dichiarazioni gratuite che mi convincano d’essere l’unico, il migliore. Semplicemente, non è vero. Sopra di noi, nel cielo azzurro, transitano due aerei assolutamente impassibili; la striscia bianca che disegnano nel loro volo rettilineo è perfetta, e molto più dolce di me. Penso di trovarmi in una posizione intermedia, tra le comete di fumo bianco che riflettono lo splendore del sole e quella buccia di pesca distesa sul porfido sotto un tavolo di plastica, vicino a noi. Se qualcuno mi fa un complimento, la mia attenzione si rivolge all’esterno, in un innocente tentativo di svanire. Per riprendere quota devo cambiare argomento, e la pausa indispettisce l’interlocutore. La conversazione si spezza, le frasi sembrano frammentarie, l’altro incomincia a odiarmi. Dimostro sicurezza e mi scuso; questa altalena quasi insopportabile lascia un vasto spazio libero, dove qualcosa ritorna e mi colpisce.

La musica in sottofondo viene da un juke-box. È un apparecchio degli anni settanta, certamente uno scarto della riviera italiana; lo vedo attraverso la tenda semichiusa che protegge dalla luce il bancone del locale. La canzone è molto nota, scritta dai Pink Floyd, disperata. È uscita all’improvviso dalla sua epoca per restare intatta, immortale, quasi un incantesimo l’avesse salvata dalla decadenza. Ogni volta che mi capita di ascoltare le sue parole e inizio a ripeterle, così stonato come sono, mi verrebbe da piangere, se ancora potessi.

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‘‘Non mi vuoi proprio raccontare nulla.’’

‘‘Sono i Pink Floyd, Anna.’’

‘‘Sì. Tutte le scuse vanno bene. Non hai nostalgia, fai semplicemente finta.’’

‘‘Non so. Mi piace sempre. La prima volta che ho comprato questo disco avevo diciott’anni. Ogni tanto lo compravo di nuovo.’’

‘‘È un modo di vivere tipico del tuo carattere. Appena ti accorgi di un’emozione cerchi di riprodurla, e fai terra bruciata intorno.’’

‘‘Anche Yannis usa i soldi così.’’

‘‘No. Lui non è abbastanza sensibile. Si comporta normalmente; prende quello che può, combina affari. Guadagna denaro.’’

‘‘Anch’io.’’

‘‘Ma tu dimentichi davvero quell’emozione, e io non lo sopporto. La cosa terribile è che i tuoi metodi funzionano. Sei come una spugna, che succhia il mare per nutrirsi e butta fuori solo acqua...’’

‘‘Sporca? Lurida?’’

‘‘L’hai detto tu.’’

‘‘Adesso basta. Andiamo a casa tua.’’

‘‘Aspetta. Voglio sentire tutta la canzone.’’

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Così è. Anna somiglia a una porta che si apre lentamente e alla fine resta spalancata, lasciando passare aria, polvere, luce. Di solito sono abbastanza paziente e assecondo il suo desiderio di inerzia, la stessa lentezza da cui vuole liberarsi annusando cocaina. Ora però, non c’è davvero tempo. La spingo quasi a forza lontano dal bar, mentre la melodia si mescola ad altri suoni più fastidiosi. Lei mi guarda con disprezzo, e sceglie di rimanere zitta; la trascino per un braccio, cercando di ricordare la strada che porta al suo appartamento.

Dietro il Pireo si estende un enorme quartiere tra il residenziale e l’operaio, un pezzo di città completamente privo di logica urbanistica. Le facciate dei palazzi, che sembrano grattacieli non ultimati, o grandi magazzini abbandonati dai clienti, hanno tutte le tonalità della carta sporca. Macchie di umidità o di inchiostro segnano i fogli accatastati, intersecati, allineati forse dalle mani di un bambino gigantesco che gioca con le poche cose rimaste dopo le pulizie quotidiane.

Anna indica stancamente un portone, e subito riconosco il luogo; lo associo a qualche episodio confuso, una fuga in macchina per evitare una rissa annunciata. Vedo la faccia di Yannis, occhi neri e una barba brizzolata, che spunta per un attimo dal finestrino. Anna era ubriaca, e frugava nella borsetta per raccogliere le ultime briciole di droga. Io guidavo, stringendo il volante e paragonando la mia tensione alla sventatezza della donna, tanto casuale da risultare attraente.

‘‘Il quinto piano. Siamo già stati qui.’’

‘‘Sì. Forse due anni fa.’’

‘‘Che importa? Vedi, schiacciando il bottone l’ascensore si ferma.’’

‘‘Anna, sono stufo di idiozie.’’

‘‘Leggi le scritte sul muro. Parlano di amore.’’

‘‘Non le capisco.’’

‘‘Certo. Tu hai una formazione classica. Pindaro, Alceo, Anacreonte...’’

‘‘Smettila.’’

‘‘E Parmenide. Cosa mi insegnavi, di Parmenide? L’essere, il non essere, l’essere stanchi, svuotati, distrutti?’’

‘‘Andiamo, dai.’’

‘‘No, invece è proprio questo il momento di ascoltare. Non riesco più a ubbidirti.’’

‘‘Non è mai stata la tua specialità.’’

‘‘Ho bisogno di un poco di vita, Luca. Vent’anni fa i ragazzini disegnavano per me i cuori rossi e le parolacce. Io non ho mai avuto un figlio: per sentirmi viva devo ritornare giovane. Voglio un piccolo innamorato, che prima mi prende a schiaffi e poi si mette a piangere. Disperatamente.’’

‘‘Ti prego, stai calma. Non risolveremo nulla se rimaniamo qui, a metà strada.’’

‘‘C’è un caldo opprimente, nessuno bada a noi. Gli ateniesi sono in spiaggia a prendere un poco di vento. Oppure lavorano, respirano sabbia bianca. Promettimi che manderai via Yannis.’’

‘‘Io... Non ti posso garantire che riuscirò.’’

‘‘Invece puoi. Lui dipende da te per la sua merce. Non ti ho mai visto sbagliare.’’

‘‘Non mi hai visto sempre.’’

‘‘È sufficiente provare.’’

‘‘D’accordo, proverò.’’

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Convinto da questo piccolo sì, l’ascensore è ripartito, usando le vecchie corde oliate da poco. Mi sono buttato sul letto della camera degli ospiti, un rettangolo disadorno il cui unico sfogo è un abbaino incastrato nella rientranza del tetto. Il cuscino odora di donna. Niente a che fare con Anna: qualche sua compagna ha giocato con le lenzuola fino a impregnarle di profumo.

Mi sento immerso in un rifugio che non mi appartiene, protetto solo in parte da un travestimento femminile. Il sudore che scende dal collo fino alla camicia aiuta il mio corpo a mimetizzarsi. Il letto è un’altra barca, che dondola a qualche metro dalla riva. Sulle pareti sono appesi due grandi poster: a sinistra, Beatrice Dalle emerge dal blu e mi fissa, come una sibilla invasata; alle mie spalle, Jimi Hendrix sembra definitivamente rapito dall’assolo della sua chitarra. La banalità delle immagini corrisponde agli atteggiamenti più detestabili di Anna. Eppure, i suoi numi tutelari conservano una forza sufficiente, riempiendo la camera della loro presenza. L’abitudine di frequentare giorno dopo giorno un recinto ben costruito carica di valore anche le cose più ovvie, colora le stoviglie, gli steli del lampadario, quell’attaccapanni orribile accanto all’entrata. Non riuscirei mai a sopportare una serie di contatti tanto prolungati con lo squallore se non fossi obbligato a nascondermi. Sono un soldato che ha smarrito l’esercito e deve adattarsi alla boscaglia, trovando riparo nelle braccia di una giovane strega.

Ora assisto alle avventure di un filo di fumo, dal sapore acre. Il mio piano è semplice: mandare lei in avanscoperta, in modo che Paola inizi a mostrare le sue carte. Tra donne, un minimo di confidenza è naturale. Una frase di troppo può svelare lo scopo dell’inchiesta; offrirò attraverso Anna una buona ricompensa e mi garantirò l’impunità. Voglio allontanare ad ogni costo il rischio di un incontro; la mia vecchia compagna di scuola ha perduto la rotta e cerca ancora una volta l’aiuto del primo della classe, nella speranza di ricevere in regalo un tema stupendo, un componimento da primato.

Sbaglia. Troppi giorni sono passati, e l’innocenza della giovinezza, lo splendore, non abita più in me. Ma è pericoloso negare d’un tratto l’appoggio a chi è ormai sicuro di averlo: non ho alcuna intenzione di subire una vendetta a freddo.

Una delle ragazze che frequentavo, poco prima che la mamma e il papà morissero, si era molto arrabbiata per il mio comportamento sgarbato; flirtavo con altre, spinto da una certa facilità nei rapporti d’amore, un privilegio che in quel periodo mi favoriva misteriosamente. Abituato a rimanere nell’ombra, avevo voglia di esagerare, così, quasi per scherzo; la primavera mi dava una mano, mescolando le coppie in un gioco di dispetti reciproci. Ma lei non era affatto disposta a lasciarmi libero. Si divertì a infilare una lettera anonima nell’ufficio dei miei genitori, raccontando i piccoli segreti di un adolescente ancora immaturo. I cassetti furono perquisiti, e un quantitativo ridicolo di sostanze stupefacenti venne esibito davanti ai miei occhi, quasi fosse la prova di un crimine. Piansi, ma non è questo che ancora mi dispiace. Esistono azioni che ricevono il loro potere dal tempo, dalle coincidenze, come se un diavolo avesse indovinato il momento esatto per farti inciampare, misurando la distanza che corre tra il piede e il gradino, tra il gradino e il vuoto.

Durante i funerali, pochi mesi dopo, non potevo levarmi dalla mente l’espressione attonita di mia madre, incapace persino di rimproverarmi. Di coincidenza in coincidenza, qualsiasi supposizione appariva credibile, e io non trovavo altra strada che macerarmi, coltivando i sensi di colpa più assurdi, nella speranza che infine svanissero insieme al resto.

Così è accaduto. Ho trasformato in pallidi fantasmi i parenti, gli amici più cari. Lo stesso edificio della scuola, un monastero restaurato volgarmente, mi ritorna nella memoria leggero come una tenda sottile. Le figure del bidello, della preside, dei professori sono deboli come scheletri, e non per un difetto di memoria. Sono stato io a cancellare la loro esistenza, gettando sull’affresco liceale litri di acido muriatico, lavando le linee fino a renderle simili a nebbia, Paola compresa.

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Ora è notte. Ho appena finito di abbracciare e baciare Anna, che ha preteso questo momento di dolcezza prima di uscire alla ricerca della rivale immaginaria. Si è gettata su di me con tutto il suo peso, e la sua bocca si è aperta come un’arancia tagliata da un coltello. Dopo la cena abbiamo continuato a bere, rovesciando una caraffa piena di acqua, vino, frutta e zucchero. Il vento salito dal mare rinfrescava la stanza; il suo corpo non si distingueva dal vestito, il collo scivolava sulla mia guancia.

‘‘Finalmente qualcuno sa come prendermi’’ diceva, cercando di sciogliersi, di annullare l’infelicità in un breve intervallo di passione. A me sembrava che le nostre azioni fossero false, che nessuno dei due, in fondo, avesse davvero bisogno dell’altro. La ricordavo più bella, più viva, negli anni in cui vedere i suoi capelli, sciolti o raccolti, mi emozionava. A letto, ho pensato che ogni mossa era necessaria, ormai; credevo di proteggere il mio cuore usando una donna come scudo. Ne sono ancora convinto, mentre sposto le briciole di pane nascoste sulla tovaglia e ammiro le stelle offuscate dal caldo. L’Egeo è lontano, il Partenone non esiste affatto; il quartiere in cui mi riposo è separato dall’Acropoli da una muraglia di torri mozzate.

D’altra parte, evito per quanto posso di incrociare la collina sacra, e se qualche affare mi costringe a percorrere in taxi le vie della capitale il mio sguardo dimentica di imitare i turisti che alzano il dito e indicano il tempio della dea. So per certo che è bianco, e il suo colore mi fa paura. Forse mi sembra una prova del tempo che passa, cancellando come una spugna abrasiva i dipinti troppo vivaci; forse lo associo alle ossa di un cimitero sotterraneo che ho visitato l’anno scorso, esplorando una penisola vicino alla Turchia. La guida parlava del miracoloso stato di conservazione dei resti; ma non una traccia di carne era rimasta, neppure il velo che sporca di terra le spoglie, l’ultimo indizio dell’affetto dei fratelli, delle lacrime di un amico fedele. Da ragazzo, mi sono arrampicato anch’io sulle rovine di Pericle; il sole mi ha ferito, sorgendo improvvisamente dalle colonne, stingendo il paesaggio, bruciando la testa. Mi sono rifugiato nel museo, superando una folla di tedeschi; ma la mia agitazione era così forte da creare dal nulla una febbre che mi ha costretto a ritornare in albergo. C’era qualcosa di ostile nei frammenti del sogno attico; mia madre mi ha pulito amorevolmente con una benda bagnata di acqua fredda, senza sapere che il destino la stava già chiamando, con una leggera insistenza. Il dolore alle tempie era uno spazio bianco che ritornava ritmicamente tra le parole, le gonfiava, allargava le pause, le rendeva mostruose. Nel dormiveglia, ho capito: il vuoto esiste da sempre e cerca ogni giorno di guadagnare terreno, spianando la strada che porta alla completa inutilità dei gesti, degli incontri, dell’amore.

Una donna, invece, è fatta dagli occhi, dal sorriso e dalla pelle. Era evidente, mentre accarezzavo Anna e mi divertivo a misurare i suoi fianchi. Rapita, finalmente persuasa, non resisteva alla tentazione di fissarmi, mordendosi un labbro, ammicando.

La tovaglia macchiata di sugo somiglia al lenzuolo, e il sesso è parente del cibo che abbiamo da poco consumato. Né l’uno né l’altro mi riempiono; non riesco a liberarmi del tutto dalle mie abitudini e continuo a confrontare i dettagli, le impressioni, gli accenni. Per fortuna, la stanchezza mi prende e costringe la schiena ad appoggiarsi al muro; le stelle si uniscono, seguendo qualche associazione quasi libera; le voci degli uomini fermi a parlare al fresco, in questa estate eterna, si impadroniscono lentamente della mia consapevolezza. Le membra si stendono, fingendo di appartenere ad un eroe omerico, soddisfatto dell’esito della battaglia.

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‘‘Non l’ho trovata. Non l’ho assolutamente trovata.’’

‘‘Hai provato, almeno?’’

‘‘Sì. Nell’albergo non c’è nessuna Paola, e il portiere non ha presente una donna di quel tipo. Mi guardava storto. Ho deciso di andarmene alla svelta e ho camminato verso il mare. Ho pagato due puttane perché si occupino del caso, ma è presto per avere una risposta da loro. Al porto c’è un’aria strana.’’

‘‘Cosa intendi?’’

‘‘Gli amici stavano zitti, come se avessero bisogno di altre informazioni. Qualcosa li spaventa. Sembra che la polizia abbia perquisito un appartamento.’’

‘‘E allora? Capita spesso.’’

‘‘Tu non sei più abituato a scendere così in basso, ti sei dimenticato del modo in cui vive il popolo. Sono come animali, e sentono il pericolo arrivare. Avevi ragione, questa Paola porta guai.’’

‘‘Guai che interessano solo me.’’

‘‘No, ce n’è per tutti. C’era una ragazza, seduta sui gradini della chiesa nuova, che somigliava molto alla nostra amica. Meglio, somigliava ai tuoi racconti. Mi sono avvicinata e per un attimo mi è mancato il respiro: era esile, bruna, un foulard le copriva quasi completamente i capelli. Stringeva un fazzoletto, come se avesse appena finito di piangere. Le ho chiesto il nome di un locale.’’

‘‘Allora?’’

‘‘Niente. Si esprimeva con un accento del nord, troppo difficile da imparare per uno straniero. E conosceva perfettamente la zona.’’

‘‘Forse si è addestrata. Devo farmi spedire un suo ritratto.’’

‘‘Sì, magari una fotografia dei tempi della scuola. No, non essere sciocco, quella non c’entrava affatto. Era fredda, però. Aveva un dolore da nascondere, ne sono sicura. Muoveva continuamente le mani.’’

‘‘È lei. Sì, tutto coincide. Se è venuta fin qui non è solo per ottenere un’intervista e risollevare le sue quotazioni di inviata speciale. Pensavo volesse ancora un regalo, ma non è così. Ha subito un torto, una grande ingiustizia, e l’ha associata a me. Le nostre sono storie parallele; si è ricordata del mio lutto e l’ha collegato al suo. Oppure, peggio ancora...’’

‘‘Continua.’’

‘‘Crede che io sia responsabile in qualche misura della disgrazia che l’ha colpita.’’

‘‘Questo è pazzesco.’’

‘‘Infatti. Dobbiamo ritornare sull’isola, là dove possiamo difenderci. Mi farò aiutare dai miei agenti.’’

‘‘No, aspetta, lasciami uscire ancora. Domani ne saprò di più.’’

‘‘È inutile correre altri rischi.’’

‘‘Non preoccuparti. Lei mi incuriosisce troppo. Tu resta tranquillamente a dormire, domani, mentre Anna fa il lavoro sporco.’’

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L’ho baciata, forse per riconoscenza. Poi, durante la notte, ho tentato molte volte di parlarle, di spiegarle una situazione che io per primo riesco solo a immaginare. Ma non ho mai avuto il coraggio di svegliarla; avevo troppo rispetto per il suo affetto ingenuo, e mi sembrava scorretto fermarla.

È una delle poche persone che mi vogliono ancora bene, che sopportano il mio orgoglio, i difetti della mia intelligenza tanto celebrata. La guardavo riposare, cercando di paragonarla al manifesto dell’attrice in penombra. Ma venivo inesorabilmente respinto nel buio. Ero incapace persino di galleggiare, come un bambino sbruffone che l’onda trascina lontano dalla riva.

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