Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo secondo

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‘‘Odio il pensiero che esistano confini. Ma siamo qui, schierati a proteggere il nostro territorio. Aspettiamo il nemico.’’

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Questa è la mia voce, registrata. Non posso eliminare la mia unica mania; mi vengono in mente molte cose, e cerco di non dimenticarle. Voglio ascoltare di nuovo quello che dico; avvicino alla bocca un microfono e lascio che i suoni scorrano in libertà.

È un’altra abitudine nata nel periodo del lutto. C’erano momenti in cui non mi sembrava possibile sopravvivere; desideravo una persona che rimanesse ad ascoltarmi dolcemente, mentre raccontavo le ossessioni che la paura del nulla continuava ad alimentare. Purtroppo non conoscevo amici abbastanza affettuosi e le donne scappavano, imbarazzate. Allora ho deciso di entrare nel magazzino di elettrodomestici a pochi passi dalla stazione, e ho comprato questo rettangolo di metallo freddo e nero. Le sue piccole cassette mi hanno accompagnato nella fuga. Oggi non riesco più a separarmi da loro; quando mi sembra di svenire e il corpo rimbomba come una casa deserta, divisa in stanze dal soffitto altissimo, premo un tasto e la luce rossa si accende.

Non dò grande importanza al contenuto delle frasi; scandisco semplicemente i vocaboli, in modo da ritrovarli, dopo, comprensibili e rassicuranti. Ogni nome pronunciato e ripetuto è la prova che qualcosa resiste, che il tempo si muove ancora e percorre la mia vita.

Ora sono sul traghetto, in viaggio verso Atene. Dopo l’imbarco, ho scelto di sdraiarmi sull’angolo del ponte, in modo da prendere il sole senza essere troppo disturbato dal vento. Alla partenza mi sono sentito rapire; due ragazze salutavano rumorosamente qualcuno, rimasto sull’isola. Rispondendo alla mia smorfia di disappunto, una di loro mi ha guardato, infastidita. Portava un paio di pantaloncini corti a righe gialle e bianche; la sua camicia era rossa, come la pelle bruciata dal mare. Credo fosse danese; una treccia lunghissima e bionda le cadeva sulla schiena.

Scosso dall’ansia, ho inciso questo tratto di nastro.

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‘‘Mille anni fa, la gente era pronta a giurare che un cataclisma avrebbe distrutto il mondo. La differenza stava nel tipo di catastrofe prevista dagli astrologi; il cielo doveva precipitare sulla terra, le nuvole infiammarsi, la tempesta infuriare e battere sui campi. Gli uomini erano ancora uniti, però, e il loro testamento aveva forma collettiva. L’erede dei poveri, dei preti e dei nobili era Gesù Cristo, che avrebbe amministrato nel modo migliore i possedimenti lasciati dalle anime disperse.

Vorrei regalare i miei soldi a Paola, e andarmene di notte, libero dalle preoccupazioni.’’

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Non commetto mai l’errore di interpretare la voce che ritorna. Certamente, in lei può nascondersi una profezia: chi è abituato a parlare nel vuoto, senza destinatario, intercetta molti messaggi perduti nell’etere. Questo, ad esempio: ‘‘Quando hai l’impressione d’essere minacciato, stai attento alle tue mani. Sono loro che ti difenderanno.’’

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Ora basta. È un gioco innocuo solo se dura poco. Il registratore tende a ipnotizzarmi, e invece mi occorre una lucidità estrema. Appena arrivato, affitterò una camera in un albergo del porto. La zona è abbastanza sordida, e nessuno ha il coraggio di chiedere i documenti. Gli operai si confondono con i contrabbandieri, i ladri si mescolano ai turisti che cercano un letto prima della partenza.

Se le mie informazioni sono corrette, Paola alloggia da quelle parti. È incerta se spingersi oltre o se aspettare, e non prevede affatto una mia visita.

I motori tremano sotto di me, trascinando la vecchia motonave. Ormai è quasi in disuso, anche se l’hanno ripulita e restaurata molte volte. Dovrei investire qualche miliardo e regalare ai naviganti una flotta degna del mio nome; temo però l’ondata di europei che si abbatterebbe sulla costa, disturbando la quiete dei pesci e delle meduse. Inoltre, non spendo mai denaro nel tentativo di cambiare la realtà; so bene che nessuno è in grado di deviare il corso degli eventi, né tanto meno posso sperare di migliorarlo. Il fumo delle macchine ha annerito il lato superiore del ponte; la vernice è sfiorita, lasciando spazio alla ruggine che decompone lentamente il tessuto delle pareti. Il legno del parapetto è smangiato, grazie all’opera silenziosa delle dita e delle unghie dei passeggeri; tamburellando, si sono aggrappate qua e là, a caso.

È divertente pensare al grande lavoro che gli uomini non si accorgono di portare a termine, giorno dopo giorno. La mia scarpa da tennis, bianca e sporca, batte contro le travi incatramate, e la gomma si smangia. Anche il travetto si piega, affonda.

Invece, tutto accade in modo assoluto, come se lo spreco non esistesse. Il marinaio che vedo piegare una cima, là in fondo, è stanco degli obblighi che il suo mestiere gli impone; sogna un sorso di ouzo, prima del riposo, un sapore estremo che spezzi la catena della fatica. Ieri, ho incontrato tre camionisti che si sfiancavano per avviare il loro automezzo: si era fermato proprio all’inizio di una piccola salita, prima del porto. Chiunque avrebbe detto che era inutile spingerlo, perché la leggera pendenza impediva alle ruote di girare abbastanza in fretta. Loro hanno provato, sudando e bestemmiando; dovevano consegnare entro mezzogiorno un carico di verdura che stava appassendo sotto i raggi della tarda mattinata.

Io pedalavo con calma; mi sono avvicinato per offrire un aiuto, e ho incrociato subito lo sguardo di Gheorghios, un bravo ragazzo che spesso trasporta cose di mia proprietà. Gli ho fatto cenno di riposare, di allentare lo sforzo. Lui ha riso, con i suoi denti bianchi aperti da un incisivo mancante; sembrava perso in un miraggio stupendo. Il suo cervello stava producendo grandi dosi di una droga naturale, mentre la voce ripeteva le note di un ritornello roco. Tutto, pur di non prestare attenzione alla maniglia di ferro che si opponeva ai muscoli del braccio, alla forza d’inerzia che impediva il movimento.

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‘‘Luca. Non avrei mai immaginato di trovarla qui.’’

‘‘Lei... Ci siamo già presentati?’’

‘‘Proprio a casa sua. La festa nella villa. Una conversazione appassionante.’’

‘‘Sì. Lei è il mercante indiano, vero?’’

‘‘Esattamente. Sono di Benares.’’

‘‘Sì, ora ricordo. Cercavo di convincerla che la reincarnazione in occidente non funziona. Lei ha giurato di raccontarmi le mie vite precedenti, prima o poi.’’

‘‘Manterrò la promessa. Devo solo avere l’occasione di lanciare una corda là dove si nasconde la sua vera anima.’’

‘‘Spero non sia doloroso.’’

‘‘Invidio il suo umorismo. Tra una settimana ritornerò a Benares, dove ho una piccola stanza accanto al Gange. Mi piace riposare sopra un tappeto di lana, osservando dalla finestra la folla che scende verso l’acqua per bagnarsi. Penserò a lei, e qualcosa arriverà.’’

‘‘È una stanza stretta, dipinta di rosa?’’

‘‘Sì. Sul muro c’è un calendario decorato da una scritta verde. Una poesia in onore di Ganesha, composta da mio nonno. Era un celebre letterato.’’

‘‘Ne sono felice. E questo mare, come le sembra?’’

‘‘In apparenza è immobile. Somiglia al suo cuore.’’

‘‘Perché?’’

‘‘Le passioni nate nel suo cuore riescono sempre a bilanciarsi. Piccole increspature le percorrono il viso, come riflessi lampeggianti. La fronte sembra il cielo sereno di una mattina di primavera.’’

‘‘I complimenti mi confondono. Vorrà essere ancora mio ospite?’’

‘‘Assolutamente.’’

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Raj... Rajiva... Ho scordato il suo nome. Ora si allontana, perché non intende disturbarmi ancora. Ammiro la gentilezza innata di questi orientali, che maschera un carattere per nulla malleabile. Indossa un vestito di cotone leggerissimo, ma il vento non sembra infastidirlo. Al contrario, io sono confuso dall’aria che mi scompiglia i capelli; mi getto, anzi, contro il soffio che viene da Atene nella speranza d’essere frastornato e di restare cieco, trascurando il futuro e le sue conseguenze.

Oggi sono debole; mi costa fatica sostenere una semplice conversazione. Non oso nemmeno disturbare un cameriere per ordinargli qualcosa di amaro, una bevanda tanto cattiva da cambiare il ritmo delle mie idee.

L’indiano è appoggiato al parapetto, a dieci metri da me, e la sua tunica azzurra si accorda perfettamente con il colore delle onde. Cerco di dominare il respiro, e ripasso mentalmente le tecniche che ho imparato negli anni, dalla meditazione alla preghiera. Potrei tendermi fino alla stasi, praticando un esercizio di levitazione. Se il corpo continua a pesare, il suo doppio invece si alza, impercettibilmente. Un giorno, sono rimasto a contemplare la mia testa rasata che finalmente vedevo dalla parte della nuca. Ho il collo largo e il cranio un poco ovale; una puntura di zanzara aveva lasciato il suo segno rosso proprio in mezzo alle spalle, dove è più difficile grattarsi. Ero anche macchiato di nero, e ho deciso di lavarmi con cura, in seguito.

Non sono più così abile. Mi basta il Pater Noster, nei momenti di maggiore sconforto. Sull’altro capo dell’isola c’è una piccola chiesa bianca addossata a un edificio tozzo dove vivono due suore, una vecchia e una giovane. Sono cattoliche, in una terra di rito ortodosso. La vecchia è una spagnola, una turista che ha incontrato Dio proprio qui, poco prima di sposarsi. La giovane, invece, è stata mandata in fretta e furia da Roma per rafforzare le basi di una fede troppo vicina alla follia. Vado a salutarle due o tre volte l’anno, lasciando un’elemosina generosa. La ragazza si chiama Marta e ha due mani lunghissime, che in una persona meno devota potrebbero anche apparire sensuali. La sua pelle è rovinata da una spece di inaridimento precoce. Le piace mormorare parole affettuose.

‘‘La benedico, Luca. Con i suoi soldi potremo allargare l’orto e finire l’acquedotto.’’

‘‘Suora, lei dovrebbe salvare anime, non coltivare pomodori e peperoni.’’

‘‘Luca, vuole sempre scherzare. Tutto è utile, mi ascolti, anche il minestrone che cucino ogni sera. Rimane?’’

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No, non rimango mai. Tanta dolcezza mi immalinconisce, e le pietre candide diventano rosse al tramonto provocando puntualmente un pericoloso desiderio di pace. Ho altro a cui pensare, adesso. Ecco Atene, immersa nell’afa. Una caligine la vela, sporcando le case e il tempio.

Non c’è tempo per il Pater Noster. Dio deve avere fiducia in me: io credo al dolore e alla stanchezza degli uomini, credo alla trappola complicata che una donna sta costruendo, e non certo per amore. Saluterò l’indiano in un’occasione più felice. Ora le strade del porto si aprono per abbracciarmi, mentre la nave procede con una lentezza esasperante. Un bambino gioca con un cane, e non si accorge del fischio del traghetto che quasi lo investe, scorrendo al suo fianco. È un cane malato; il pelo gli cade a ciuffi da una gamba. Sì, è certamente una ferita infetta.

Potrei sillabare il primo verso del Pater e registrarlo, come faccio di solito.

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