Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo tredicesimo

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Come in un telefilm di qualità scadente, Glaukos chiama e mi ordina di seguirlo, lontano dalla cantina, sui tetti piatti delle case bianche. Questo rapido spostamento dal basso verso l’alto mi disorienta completamente. Ho indossato una tuta da ginnastica, scura e pesante, offerta dal gentile carceriere. Sul petto spicca la faccia di un personaggio dei fumetti, una specie di tiramolla sempre infuriato. Sono un punto nero nel delirio solare del pomeriggio. Mi affanno a percorrere il cammino a salti che ci porta là dove stanno i nemici. Trascino con me una scatola di cartone legata con un filo annodato più volte; penso che contenga le nostre munizioni.

La temperatura supera certamente i quaranta gradi, l’aria è immobile, sospesa a illustrare lo scontro, simile ad un fondale di cartapesta. Gli occhi vacillano di fronte allo splendore del giorno, che sembra ricoprire con uno strato uniforme di pittura gli angoli e le piccole ombre che i muretti fanno, dividendo la spianata in cui ci troviamo dalla prossima, e così all’infinito.

‘‘Sbrigati. Siamo in ritardo.’’

‘‘In ritardo per cosa?’’ domando ingenuamente.

‘‘Per liquidare la questione. L’avevo detto, che prima o poi si doveva concludere.’’

Ormai ho la tendenza ad approvare con entusiasmo i ragionamenti del mio amico guerrigliero, forse poliziotto, forse agente segreto. D’altra parte, riesco a distinguere solo lui, tre passi avanti a me; ha sulle spalle la sua grande arma, che gli dona l’aspetto di un cavaliere, parafulmine viaggiante con la sua lancia.

‘‘Laggiù. Ecco i nostri.’’

‘‘Dove?’’

‘‘Sono sparsi sul terrazzo. Nasconditi dietro l’antenna parabolica.’’

Ubbidisco senza fiatare. Sudando, angosciato per la separazione improvvisa, corro a occupare la posizione che mi è stata affidata. Sotto il piatto di plastica puntato verso il cielo, ansimo e mi sfrego le palpebre tentando di recuperare un poco di coraggio.

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Sono ormai sicuro d’essere schierato nella squadra vincente, quella che può risolvere a suo favore la partita e ristabilire la pace infranta. Usando la mano come una visiera, mi sporgo e cerco nella luce i compagni che il caso ha scelto per me, i partigiani di una guerra non dichiarata a cui affido la mia vita.

Individuo subito il primo, perché è il più vicino. È sdraiato sul cemento, incurante del calore che lo avvolge. Ha i capelli rossastri, di una tinta arancio innaturale. Ricorda il cantante di un complesso rock, famoso per le sue intemperanze. Ha persino un anello all’orecchio, che brillando riflette ogni raggio e sparge bagliori pericolosi lungo le superfici meno esposte. Con il braccio alzato sta segnalando qualcosa a una donna, venti metri alla sua sinistra, addossata a una specie di canna fumaria, probabilmente lo scarico di un condizionatore. Lei è bionda, una fisionomia da ragazza nordica, una maglietta a righe verdi e blu, calzoni azzurri. Sopra la sua testa, un vento bollente scompiglia l’atmosfera sollevando una nebbia trasparente che piega le linee del paesaggio, come lo specchio ondulato di un luna-park.

Poi... Sì, altri due, insieme, uomini dalla pelle abbronzata, di statura bassa, probabilmente greci. Lavorano intorno ad un congegno appoggiato al suolo. A giudicare dalla sua forma, e da alcune immagini di vecchi documentari che mi ritornano alla memoria, si tratta di un mortaio, capace di lanciare proiettili a grande distanza. Forse le bombe sono proprio le casse ovali che stanno ai loro piedi, ancora disinnescate, inoffensive. Oppure mi sbaglio, e invento una battaglia campale che non ha ragione di esistere... Stiamo giocando a guardie e ladri, anche se in palio c’è un premio importante.

Questo è lo scenario. Ma tutto si svolge con rapidità, senza discorsi, nel silenzio assoluto. Glaukos è la guida, che spiega con cenni secchi i compiti essenziali e conferma con la sua autorità la determinazione del gruppo. Così, il tempo trascorre. Cerco di non pensare a nulla, mentre la città tace, quasi avessimo costruito un luogo in cui le voci profane non riescono a penetrare.

Il Partenone è un dettaglio trascurabile nel mosaico di case alle nostre spalle, eppure lascia una debole traccia. È tarlato, smangiato, ridotto a una cartolina opaca. Gli dèi, appollaiati sul frontone, commenteranno in modo sarcastico la curva buffa della mia schiena. Mi giudicheranno un vigliacco.

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‘‘Ci siamo.’’

Ascolto l’allarme e poi, all’improvviso, gli spari. Niente in comune con le Colt scoppiettanti dei western, sempre pronte ad essere impugnate dallo sceriffo, il cui unico problema è premere il grilletto a velocità fulminea.

Qui, la mitraglia è una macchina da scrivere elettrica che non sta mai ferma. Nessuno è in grado di guidarla, e le sue bordate si tramutano in raffiche di segnali morse che scandiscono frasi intricate. Partono, si interrompono, riprendono. All’inizio suonano come richiami innocui, ritmi sincopati di un jazz tecnologico. Purtroppo, è facile accorgersi dei segni che restano impressi nelle cose, strisce di calcinacci infranti, fili di ferro tranciati, canne dell’acqua divelte.

Faccio comunque fatica a comprendere il rapporto tra il rumore e la catastrofe seguente. Al centro del terrazzo un rivolo di liquido nero si allunga, sfiorando la gamba del giovane dalla capigliatura punk. Lui rimane rigido, con le mani distese a proteggere la nuca. Rispetto agli altri è in pericolo, perché la sorte ha voluto che le traiettorie convergessero nel mezzo, tagliandolo fuori dagli angoli più riparati. È un miracolo se non è già morto.

L’avversario è sfuggente. Deve trovarsi al nostro stesso livello, a meno che non sia ancora più in alto. Quella lamiera piegata, messa di traverso sul palazzo di fianco, potrebbe nascondere una batteria di fuoco. Guardo il cielo, nel timore di scoprire un elicottero che si prepara a distruggerci.

‘‘Ah!’’

È un lamento soffocato, pronunciato quasi con timidezza, per non disturbare. Hanno colpito al polpaccio il ragazzo, che perde vistosamente sangue. La tela stracciata si macchia di rosso e le sue dita stringono con affanno i lembi della ferita, nella speranza di contenere l’emorragia. Si inarca, ben sapendo che non può spostarsi molto, se non vuole correre il rischio di offrire al nemico un ottimo bersaglio.

Tre buchi si stampano a intervallo regolare contro una porta metallica che gli sta accanto. Le pallottole escono da un’arma diversa, un fucile di precisione imbracciato da un cecchino. Sta perfezionando la mira; il prossimo tiro sarà fatale.

La frenesia sopita nella freddezza apparente dei primi minuti di combattimento si risveglia dentro di me. È necessario fare qualcosa, spezzare la geometria di questo agguato che ci sta trascinando rapidamente verso il disastro. Bisogna entrare nel film, sfondare lo schermo. Devo telefonare, contattare l’isola, radunare i miei soldati. Certa gente sarà obbligata a sdebitarsi.

‘‘Sei pazzo. Sta fermo!’’

Qualcuno ha indovinato la mossa. Non importa, la plastica dell’antenna è troppo sottile per salvarmi. Corro, sfiorando in diagonale il cemento assolato. La mia meta è un lucernario ormai distrutto, che sicuramente si spalanca sopra una soffitta; ho la netta sensazione d’essere nudo, osservato con avidità da occhi che tuttavia non si aspettavano una preda tanto in luce. Sento un sibilo smorzato e ripetuto, mentre l’uomo rimasto a terra viene abbandonato al suo destino. Cado con una capriola dentro una camera vuota, come avevo intuito per caso.

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Ora ho una missione precisa da svolgere. L’ho affidata a me stesso, spezzando l’universo di deleghe e di contraccolpi da cui ero circondato. Ho capito l’errore, il mio grave errore: non ho organizzato la sfida, non ho reclutato le persone adatte a reggere l’assalto. L’unico ad accompagnarmi era Petros, il traditore.

Parlavo alla gente nell’orecchio, bisbigliando confidenze di cui presto mi pentivo; non ho mai usato il megafono che invece possiedo, urlando ordini, mobilitando gli amici. Rifiutavo d’essere quel che sono, trascuravo l’importanza del ruolo. Al contrario, Paola ha colto esattamente la centralità del mio compito e si è insospettita proprio per questo. Mi sono comportato come il protagonista dilettante di un dramma, che vuole sottrarsi allo sguardo degli spettatori e durante la rappresentazione si copre con un lenzuolo, rimanendo fermo così, in mezzo alla scena, fantasma evidente e stupido, luogo dove si incrociano tutte le storie tranne la sua. Sono arretrato, sempre, fino a scomparire nei dubbi alimentati dal ricordo, dimenticando la forza naturale, la tenacia, l’agilità dei muscoli. Credevo d’essere invisibile.

Dò un calcio alla parete di legno e scendo in fretta lungo i corridoi di quella che appare come la sede commerciale di un’azienda. Mi viene in mente che è domenica. Nessuno lavora dopo la notte del sabato, le stanze sono deserte.

Sono fortunato: al terzo piano, scopro di avere l’imbarazzo della scelta. Sui tavoli degli uffici, separati da sottili cortine di compensato, molti apparecchi telefonici, lucidi e neri, attendono semplicemente che qualcuno sollevi il ricevitore e chiami, svegliando il resto del mondo con un sincero appello d’aiuto.

Con questa intenzione, batto il numero della mia villa. È la via più diretta. Voglio ripristinare in fretta un contatto da cui ripartire.

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‘‘Massimo. Ho bisogno di te.’’

‘‘Sì, subito. Subito... Mi scusi, prendo il quaderno degli appunti e una penna.’’

‘‘Massimo, non ho tempo. Non è la lista della spesa.’’

‘‘Scusi, solo un attimo. Ho paura di dimenticare.’’

Massimo ha settant’anni. È una specie di maggiordomo che ho assunto perché mi aveva incuriosito. L’ho visto lavare il pavimento del salone delle feste di uno Sheraton, in Turchia, e mi sono chiesto per quale motivo un signore anziano, dai modi gentilissimi, doveva essere costretto a una fatica così umiliante. Lui mi ha risposto che gli serviva denaro; l’espressione del viso era compunta, come se gli avessi domandato l’esatta posizione di un libro antico nascosto negli scaffali della biblioteca d’Alessandria. È italiano, un vecchio, alto, calvo italiano.

‘‘Ecco qui. Mi detti, la prego.’’

‘‘Trova Filio. Sono in pericolo. Manda Filio qui, con una ventina di uomini del porto, pronti a tutto. Sono prigioniero.’’

‘‘Mio Dio. Cosa è accaduto?’’

‘‘Esegui alla svelta. Le spiegazioni verranno dopo.’’

‘‘Ma... Qui... Cosa significa, qui?’’

Ovviamente ha ragione. La sua lentezza ha la meglio sulla mia precipitazione. Massimo possiede una qualità straordinaria: è abituato a fare un passo dopo l’altro, controllando se l’appoggio è sicuro. Allo stesso modo, dispone secondo uno schema immutabile le forchette sulla tovaglia, impiegando ore per scacciare ad una ad una le mosche che disturberebbero il pranzo.

‘‘Qui... Non so. Sono chiuso dentro un ufficio. Ci sono ventilatori dovunque.’’

‘‘Si concentri, la prego. Osservi bene. Cerchi una traccia, l’indirizzo.’’

‘‘Niente, niente. Non c’è nemmeno la carta intestata. I fogli sono bianchi, vuoti.’’

‘‘Sul telefono non c’è scritto nulla?’’

‘‘No, purtroppo no.’’

‘‘Dalle finestre...’’

‘‘È meglio non aprire. Sparano. Dietro i vetri hanno steso delle tende verdi, opache. Per sollevarle dovrei espormi troppo.’’

‘‘Per carità, signor Luca, non si muova. Ma non so come aiutarla. Se avessi un indizio...’’

La sua devozione mi commuove. Mi sembra di vederlo, fermo nella sala, in piedi sopra i marmi che oggi ha lucidato per l’ennesima volta preparando il mio ritorno, impartendo le disposizioni per la cena. Indossa certamente una giacca scura, una delle dieci che ha fatto confezionare usando una stoffa di lana leggera, scelta per ragioni di risparmio in un magazzino all’ingrosso di Corfù. Così, uguale a se stesso, giorno dopo giorno, nella certezza assoluta che occorre compiere le azioni imparate a memoria, quelle che si possono eseguire alla perfezione. Resta nel punto stabilito, fiducioso che sarà il mondo ad arrivare là dove l’uomo è già in attesa.

‘‘Dal tetto si scorgeva il Partenone, il lato nord. A tre chilometri da qui, credo.’’

‘‘Sì. Mi lasci consultare una mappa. Un attimo di pazienza, prego.’’

Mi viene da ridere. Sento il sibilo dei proiettili che si stampano sul muro esterno dell’edificio, e insieme ascolto il rumore della carta spiegazzata nelle mani di Massimo, tremanti per un leggero Parkinson che gli vieta di svolgere qualsiasi attività ad un ritmo accettabile. La tazzina tintinna quando mi porta il caffè, annunciando regolarmente: ‘‘È italiano. Espresso. Non quello greco, tanto cattivo.’’ La sua è una meravigliosa gentilezza, costruita intrecciando centinaia di frasi convenzionali cucite con amore, come se ad ogni situazione corrispondesse un detto proverbiale, un sigillo della voce del popolo, resa frusta dal trascorrere dei secoli.

‘‘Dunque, c’è una zona che potrebbe corrispondere... Ma... Come mai la gente non si accorge degli spari? Sono quartieri abitati, questi.’’

Sto per innervosirmi. ‘‘Non ne ho idea, Massimo. Forse qui ci sono semplicemente ditte di appalti, sedi di rappresentanza. Oppure hanno spaventato tutti.’’

‘‘E chi...’’

‘‘Non chiedermelo. È una storia complicata. Avverti Filio e ordinagli di battere tutte le strade a nord dell’Acropoli. Mi troverà.’’

‘‘Signor Luca, c’è un’altra difficoltà.’’

‘‘Difficoltà? E quale?’’

‘‘Ora mi rammento che Filio è partito per un viaggio. Doveva visitare un collega in Egitto.’’

Sono perduto. Sul tavolo scendono gocce di sudore, cadute dalla mia fronte arrossata, impegnata invano a cercare una risposta che non esiste. Se lo scontro non si risolverà a favore di Glaukos... Hanno scelto il periodo giusto per colpirmi. Dal ricevitore arriva una nenia lamentosa, in dialetto arabo. Sicuramente c’è un’interferenza nelle linee.

‘‘Massimo...’’

Una raffica di mitra buca le tende e infrange con fragore la vetrata. Mi butto a terra, mentre tutto intorno è un diluvio di schegge che sfiorano la mia pelle, ancora intatta. La cornetta dondola a mezz’aria, come un pendolo disinteressato agli spostamenti delle cose. Mi ha salvato la prontezza dei riflessi, e un attaccapanni carico di grembiuli che stava tra me e la finestra.

Purtroppo non è finita. Le scariche si ripetono periodicamente, devastando l’arredamento. Hanno proprio deciso di stanarmi. Con gli occhi chiusi e le labbra strette, ho gettato via la tuta che mi impediva di respirare. Vorrei ricordare qualche preghiera dei tempi del catechismo, quando una vigna ospitava i miei giochi, sul retro della chiesa di un paese in collina.

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Invece, ecco un momento dell’ultima primavera. Passeggiavo sull’isola, nella parte esposta al vento orientale, quello che di mattina si trasforma in una brezza fresca che nutre l’erba e le piante. Gli alberi verdeggiavano e gli oleandri si aprivano in larghi cesti di colore rosa. Avevo trascurato gli appuntamenti di lavoro, forse perché le numerose scadenze erano state esaminate a fondo, in modo soddisfacente. Sì, gli affari procedevano molto bene: anticipavo i problemi e li risolvevo prima che diventassero pericolosi.

Tuttavia, non mi spiegavo completamente il senso di pienezza e di appagamento che mi aveva condotto a camminare con calma lungo la via rettilinea e asfaltata, che io stesso avevo contribuito a finanziare pur sapendo che non arrivava in nessun posto. Era inutile, insomma; ma mi piaceva il suo tranquillo tracciato a metà tra la boscaglia e il mare. Era semplice e diritta, in una regione in cui i tornanti sono obbligatori e il cammino si attorciglia per valicare le colline, senza lasciare spazio ad un panorama continuo.

Poi mi sono seduto sopra un sasso, all’ombra, e mi sono domandato se era quella la Grecia classica, amata dai filosofi e dai vasai dell’Attica. Le rovine ci raccontano poco, sono segni slavati di costruzioni commerciali, banchi in muratura del mercato, templi in cui estorcere al dio una profezia per il raccolto. Era il nulla naturale, al contrario, le normali corolle percorse dalle api, la schiuma banale della lumaca smarrita nel letto del torrente, a evocare il versante mistico della vita.

Ricordo anche di avere detto: ‘‘Allora, cosa distingue questo paesaggio dalle pianure d’Europa, divise dai campi di grano e dalle fattorie, sotto un cielo uguale, appena più chiaro?’’ La conclusione era semplice: qui l’uomo aveva incontrato il vuoto nell’attimo giusto, dopo i fuochi della preistoria, prima della famosa civiltà. Ingenuo, ma non tanto, aveva posato lo sguardo sulla dolcezza della stagione, incominciando a riflettere e ad accumulare errori. Non un paradiso terrestre, ma un attimo di pace, una scampagnata in cui la testa gira e non si ferma. La farfalla davanti al nostro naso sceglie se inclinare verso destra o verso sinistra, con indifferenza sublime. Ecco il miracolo. Hanno alzato le colonne per celebrarlo.

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Il soffitto precipita su di me. Per fortuna è fatto di materiale molto leggero, che si sfarina immediatamente. L’emozione è quasi insostenibile, e se non ci fosse il crepitio delle armi sverrei, crollando nel sonno. Temo che abbiano ucciso Glaukos. Lo immagino disteso ai bordi della battaglia, un gigante abbattuto mentre proteggeva la sua imperatrice. Sono privo di difese, se il mio unico amico riposa con un buco in fronte, pronto a raggiungere la dimora degli eroi, progettata sopra uno scoglio che si affaccia sul vortice dei millenni.

Deliro: tengo con ostinazione le mani sopra le palpebre, dimenticando anche l’ultimo frammento di felicità. Sul vortice, immagino che siano sospesi Rajiv di qua e di là Massimo, indaffarati come angeli guardiani devoti al loro compito. Il primo indica in basso, con un sorriso, esortandomi a partire in fretta e a non scordare le litanie che impediscono la reincarnazione. Il secondo, il maggiordomo, è al contrario fiero del mio comportamento e, pur non muovendo nemmeno un muscolo, pare che alluda ad un giudizio prossimo e supremo dall’esito estremamente favorevole. Ha una salvietta sul braccio, come il secondo nell’angolo del ring; è pulita, candida, con il monogramma del mio nome. Ora vorrebbe che la mettessi al collo, con un gesto tra la rinuncia e la vittoria, un abbandono per scorrettezze che l’arbitro potrebbe sovvertire nell’ora del verdetto. Se fosse onesto.

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Una porta sbatte, e questo mi costringe ad ammettere che la situazione sta cambiando. Gli spari tacciono: l’unico rumore è un brusio di voci difficili da interpretare. Mi alzo con precauzione, ingobbendomi un poco per scongiurare la beffa di una freccia in ritardo, la morte del reduce che corre felice verso casa.

Forse tutto si è risolto per il meglio...

‘‘Luca.’’

Davanti a me c’è Yannis, pallido, la camicia insanguinata, il naso rotto, i pantaloni tagliati. Ansima nel mezzo della stanza, barcollando intorno ad una mattonella rotta. Ha una pistola in mano, con il cane sollevato. Penso sia lui il nostro nemico.

‘‘Yannis.’’

Non ho motivo di avere paura, anche se tutto potrebbe ancora accadere. Il mio vecchio compagno di traffici sembra aver attraversato una parete di carne e di lacrime, il corridoio di un macello, l’aula di un tribunale militare. Non capisco se le macchie di sangue gli appartengono. Ha perso il suo atteggiamento altero; somiglia ad un comandante disarcionato che è fuggito sguainando la sciabola e menando colpi all’impazzata.

‘‘Mi spiace di averti coinvolto. Non dovevi chiamare la tua amica.’’

‘‘Lei.... Lei è arrivata da sola.’’

‘‘Non credo. Tu le hai rivelato un segreto.’’

‘‘No, no. Io ero all’oscuro, sono all’oscuro.’’

‘‘Sì. Ma hai intuito qualcosa. Peccato.’’

Arretra e si appoggia alla gamba del tavolo, che si piega sotto il suo peso come se fosse di gomma. Non ha intenzione di usare l’arma. La tiene stretta per un ultimo automatismo.

‘‘Salvami, Luca.’’

‘‘E come?’’

‘‘Non mi uccideranno mai se c’è un testimone. Resta accanto a me.’’

Mi affretto precipitosamente ad annuire, e non gli chiedo nulla di Anna. Se ammettesse di averla ammazzata non riuscirei a rimanere neutrale, sulla linea che separa i due campi opposti di cui ignoro, come sempre, il disegno. Mi ripeto che Anna è svanita per una disattenzione collettiva. È evaporata sotto il sole dell’estate, scontando le sue colpe e le mie.

‘‘Finalmente. Insieme, almeno per una volta.’’

Giro lo sguardo con una lieve smorfia, come se ormai fossi abituato a sopportare il dolore, e le vicende future non incidessero più di tanto sul cuore del problema. Paola è entrata, precedendo Glaukos e un altro soldato. Siamo tutti vivi.

‘‘Dammi la pistola, Yannis.’’

È più graziosa del solito; il viso è leggermente sporco e una calzamaglia blu le trattiene i fianchi. Mi viene in mente Modesty Blaise, un’eroina dei fumetti che aveva turbato i miei studi di adolescente, molto, molto prima che questa tempesta mitologica mi investisse. Ogni brivido corrisponde a una premonizione, che può realizzarsi oppure no.

‘‘Sì, Yannis.’’

Ho fatto un gesto per annunciare che la partita è terminata. Lui, fidandosi della mia garanzia, obbedisce e viene catturato dolcemente dalle braccia di Glaukos.

‘‘Per fortuna. Voi uomini decidete spesso in coppia.’’

‘‘Non ho voglia di discutere. Sono distrutto.’’

‘‘Accompagnami. Faremo una gita.’’

La seguo, calpestando i cocci e la calce, mentre Yannis viene trascinato via. All’esterno ci accoglie il calore dell’asfalto, che si unisce benefico all’aria marina.

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