Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo dodicesimo

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Riemergo con una bracciata incerta, sorpreso per la bellezza dell’acqua, che prima immaginavo sporca e ora diventa pura, scorrendo tra le dita. Mi sento meglio, dopo aver superato la prova; una gettata di cemento che si immerge lentamente a pochi metri da me mi aiuterà a risalire, a guadagnare la strada di casa, anche se una casa forse non esiste più.

Appoggio i piedi sulla pendenza scivolosa, resa ancor più sdrucciolevole da un sottile strato di alghe, e subito capisco che è impossibile camminare. Sto tremando. Appena ho toccato qualcosa di solido, la tensione nascosta si è rivelata, quasi attendesse per mostrarsi un punto di riferimento sicuro. L’acqua era ospitale, come una morte soffice, un sonno che trascina il corpo verso il mare dei nostri antenati. Per uscire da lei devo strisciare, percorrendo con le mani le asperità che resistono alla vegetazione, minimi scogli a cui mi aggrappo cercando intanto di neutralizzare il tremito. Stendo la pancia contro il cemento, anche se nemmeno questa operazione è agevole, perché la mia spinta viene bilanciata da una forza opposta che mi obbliga a galleggiare.

Così, in bilico, vedo spuntare dalla riva le figure dei tre banditi. Uno ride, infatti, con una voce stridula che risuona in modo sgradevole nella notte placida. Evidentemente ho perso tempo tra il tuffo e la nuotata: mi sono compiaciuto del coraggio dimostrato e, senza accorgermene, ho fatto una piroetta di troppo. Mi sono rilassato, beandomi del nuovo patto che avevo stretto con la natura. Ora non posso ritornare indietro, saltare con un balzo prodigioso sulla trave da cui sono partito, infrangere le regole del cosmo. Se non approdo alla svelta mi spareranno; mi sembra già di intuire che il più alto dei tre stringe una pistola in tasca e si chiede se è il momento opportuno per usarla. Nessuno ascolterà lo sparo, nessun informatore oserà riferire alla polizia l’accaduto, sfidando la legge della montagna.

Agito le gambe per raggiungere la posizione eretta. Un cerchio, un’increspatura leggera si allarga con grazia creando una specie di bersaglio ideale. Al centro rimango io, destinato a morire con dignità. Per cogliermi dovranno mirare alla fronte, scegliere il mezzo più rapido, quello che tronca i pensieri, i sogni, il ricordo. Ho deciso di guardare in faccia il mio carnefice. Gli vorrei sorridere, mentre un brivido causato dal freddo sfiora la pelle e mi costringe a battere i denti. Le scarpe sono cadute sul fondo durante il volo. Non ho più legami.

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Invece del buio, il minuto seguente porta con sé un grido e una corsa. Qualcuno urla, avvicinandosi in fretta, e questo basta per allontanare la minaccia immediata. Gli uomini spariscono dalla banchina, o meglio si ritirano là dove io non riesco più a riconoscere nulla. Allora, spinto da una grande curiosità per la mia sorte, mi muovo in modo imprudente ed esco dall’acqua come un serpente di fiume, ferendomi leggermente il petto. Resto per un attimo a gocciolare, asciugato dal vento fresco e leggero. Le luci al neon piantate sulla parete di un capannone mi disorientano, ma quando al mio fianco appare Glaukos le cose ritornano chiare.

Se al momento del nostro primo incontro la sua mole mi aveva stupito, ora mi trovo accanto a un gigante. Io sono debole, sperduto; la stanchezza mi appesantisce, come se ogni fatica, non solo dell’ultima avventura ma anche di tutta la mia vita, si fosse cristallizzata nelle fibre dei muscoli. Lui è altissimo, arriva quasi al cielo. Assomiglia a una colonna scolpita nel marmo delle isole, e la testa è il capitello che sorregge un architrave. La sua barba a macchie diventa il segno caratteristico di un eroe che inizia la scalata verso il monte Olimpo, staccando le rocce gettate a impedire il cammino, separando con la semplice potenza delle braccia i fronti opposti di una gola in cui probabilmente si annidano molti draghi velenosi. Sedotto dal suo vigore, quasi lui fosse il lottatore che io non sono mai stato, mi avvicino ancora, in attesa d’essere strangolato come un bambino inerme e impaurito. Una volta di più mi spaventano i suoi occhi, talmente chiari da scomparire quando guardano a destra o a sinistra, mentre le iridi si confondono nel bianco.

‘‘Via.’’

Ha detto semplicemente così, rivolto alla banda di assassini schierata davanti a noi. Sono lupi affamati, animali del bosco che osservano il fuoco, pronti ad attaccare, affascinati dalla fiamma. Glaukos non sembra armato, eppure...

‘‘Via.’’

Dentro di me, sorrido. Da ragazzo leggevo i racconti degli esploratori lanciati a conquistare il Canada e l’Alaska, le slitte che procedevano a strappi nella neve, i sentieri tracciati nel ghiaccio, al limite della sopravvivenza. C’era sempre, proprio nel cuore della narrazione, un momento in cui il protagonista dimostrava qualcosa di importante, resistendo alla tormenta o ingaggiando una battaglia definitiva contro il male. Sudando per l’eccitazione, vedevo scorrere nitidamente la scena in una specie di film allucinato. Non mi illudevo di recitare la parte del personaggio principale. Sapevo di non avere abbastanza carne su di me, e mi riservavo piuttosto un ruolo secondario, in cui giocare la mia intelligenza, la furbizia di chi cerca l’occasione migliore per vincere, la strada meno difficile. Se l’eroe non avesse combattuto, colpendo con un bastone il muso dell’orso che lo voleva divorare, anch’io sarei sprofondato nel nulla.

Così avviene ora. Glaukos è arrivato per difendermi, scendendo dal suo rifugio misterioso. Non so per quale ragione questo accade, se l’ha mandato Paola, oppure se lui ha tradito la consegna. Mi accorgo comunque che si sta preparando alla rissa, e lo fa a suo modo, mantenendo un’immobilità carica di forza.

‘‘Vuoi morire? Vattene.’’

‘‘Vado. Ma l’italiano viene con me.’’

‘‘No. L’italiano ci serve.’’

‘‘Non ve lo darò mai.’’

Sono una merce di scambio, sballottata fra due partiti opposti. Purtroppo, il motivo della contesa è assolutamente incomprensibile e l’incertezza mi respinge tanto da vietarmi un gesto autonomo, una nuova corsa.

‘‘Andiamo via.’’

Il capo del terzetto reagisce subito ad una frase così perentoria. Come avevo immaginato, estrae dalla tasca la pistola e la punta contro la gola di Glaukos. Le distanze si sono assottigliate all’improvviso. Deduco che mi vogliono vivo, perché in caso contrario avrei già esaurito la misura di tempo che ho avuto in regalo nascendo. Osservo il comportamento del mio colossale protettore e mi chiedo con una lucidità tipica dei passaggi più arditi di un incubo quale mossa gli è rimasta. Non ha un coltello, e la minaccia è troppo vicina per rispondere con un calcio o con un pugno.

‘‘Non farlo.’’

‘‘Allora consegna l’italiano. L’italiano, presto.’’

‘‘Non farlo.’’

‘‘Stupido montanaro.’’

Glaukos disegna una curva con la mano, come un pittore che inventa un cerchio e lascia libero l’impulso primitivo, il desiderio che porta alla costruzione della forma. Parallelamente, il corpo dell’altro finisce a terra, quasi fosse rapito da un incantesimo. Chino un poco la testa e scopro che dalla base del cranio parte una fenditura rossa da cui zampilla leggero il sangue. È sicuramente morto, un cadavere vuoto di pensieri e di volontà. Glaukos lo ha ucciso, utilizzando un ferro o qualche frammento di vetro che custodiva in segreto.

‘‘Adesso dobbiamo tornare a casa.’’

Mi tratta come un fratello minore, a cui si perdona una certa demenza. Ubbidisco, cercando di imitare il suo passo. I due compagni della vittima sono impietriti.

‘‘Non ci inseguono. La moto è qui.’’

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C’è stato un viaggio in cui non potevo orizzontarmi. Ero frastornato dall’aria e dal susseguirsi di quartieri deserti, dall’aspetto desolato e compatto. C’era già una traccia di sole, come se prima dell’alba un messaggio luminoso avesse avvertito le regioni del cielo, partendo velocemente e poi cadendo estenuato là dove l’oscurità ancora si accampava.

Il mio salvatore, anche se non è giusto chiamarlo così, alla fine ha fermato la moto e ha aperto il catenaccio di una specie di cantina. In realtà, è una caverna umida, in una zona pianeggiante della capitale. L’arredamento è scarso: un tavolo, due materassi, un armadio. In mezzo, oggetto assurdo, un televisore di almeno trenta pollici, dell’ultima generazione, con lo schermo piatto, il videoregistratore annesso e tutte le funzioni digitali.

Mi volto, ridendo in modo isterico. Gli dico, cercando di stabilire un rapporto qualsiasi, ‘‘E di questo cosa te ne fai?’’

‘‘Lo guardo.’’

‘‘Sei appassionato di elettronica?’’

‘‘Elettronica?’’

‘‘Perché è così grande, insomma?’’

Si siede sul materasso, stappando con le dita una birra. Sembra felice della mia osservazione e risponde con tranquillità, muovendo allegramente gli occhi celesti. ‘‘Devo stare qui in attesa degli ordini. Ero stanco, e Paola mi ha regalato...’’

Indica l’armadio. Io ripeto il suo gesto, e lui approva scuotendo il capo. Le ante si spalancano: all’interno c’è una pila di cassette, tutte segnate da un numero progressivo. Nessuna scritta.

‘‘Sono film?’’

‘‘No.’’

‘‘E allora?’’

‘‘È pubblicità.’’

‘‘Scherzi?’’

‘‘No.’’

Vorrei replicare, sfruttando la nostra improvvisa confidenza. Mi accorgo però che l’energia è terminata. Ho resistito anche troppo alle vicende della notte, vasta quanto un oceano che le navi non hanno mai solcato. Per la prima volta ho dimenticato la logica degli eventi, ho rifiutato ogni meccanismo razionale. Ora sto pagando la mia fuga senza pensieri, a cui ero aggrappato come ad una corda, una lunga corda sospesa. Mi viene in mente l’infarto di mio padre. Sono altrettanto sperduto ma, rispetto a quel dolore, l’impressione di vuoto dura di più. Crollo sul materasso e mi addormento all’istante, mentre Glaukos maneggia il telecomando.

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Al risveglio vengo accolto da una fila di ballerine con le gonne corte, modello anni venti, che danzano intorno alla bottiglia di una bibita dissetante. Il senso della scena è chiaro, anche se non riesco a cogliere le parole. La mia guardia del corpo sta osservando placidamente lo spezzone e si accorge di me solo quando mi alzo, sudato e ubriaco per la vertigine.

‘‘Stai meglio?’’

‘‘Sì. Mi sono riposato.’’

‘‘Bene.’’

‘‘Cosa dicono? Non capisco.’’

‘‘Non so. È russo.’’

‘‘Chi ti ha portato una cassetta in russo?’’

‘‘Paola.’’

Sempre Paola. Forse i due sono amanti. Forse lei l’ha sedotto per compensare una fragilità insopportabile e rischiosa. Forse gli chiede di eliminare un avversario con la stessa determinazione che usava per ottenere il mio aiuto durante l’ultima interrogazione del trimestre.

‘‘Paola è bella, vero?’’

Non risponde a questo sfoggio di amicizia. Le sue spalle sono più grandi del televisore, o almeno così mi appaiono nello stupore della mia strana prigionia. Intanto, le immagini si susseguono senza un ordine coerente; certi stacchi bruschi rivelano che qualcuno ha ricostruito il nastro, scegliendo nella programmazione internazionale gli episodi più vistosi, colorati, allegri.

‘‘Glaukos, devi spiegare.’’

‘‘Cosa?’’

‘‘Non ti rendi conto? Non so ancora perché hanno cercato di annegarmi, perché mi hai rapito. Forse credi di avere di fronte un uomo importante, un mafioso. È falso. Se avessi informazioni avrei già parlato. Guarda in che stato sono ridotto.’’

Sono sincero. La maglietta è a brandelli, i pantaloni asciugandosi hanno disegnato strane pieghe, sono scalzo e ho la barba lunga. Zoppico, per un colpo alla gamba di cui non mi ero nemmeno accorto.

‘‘Se hai freddo, là c’è un cappotto.’’

Una ragazza in bicicletta pedala lungo il sentiero di un boschetto alpino. Il suo compagno la segue, rilanciando con gioia la sfida. Quindi, entrambi si smarriscono in un diluvio di docce e deodoranti, riemergendo in trionfo puliti e morbidi, pronti per una festa, un anniversario. I grattacieli addobbati di una metropoli fanno da sfondo alla loro serata, che si risolve in un brindisi e in ammiccamenti al corteggiatore di turno. Palle di neve vengono scagliate da un gruppo di adolescenti coperti da sciarpe rosse. Uno sciatore spericolato si getta a perdifiato giù dal pendio, mentre la telecamera allarga la prospettiva fino a svelare un paesaggio invernale austero e maestoso. Glaukos non vuole tralasciare nulla, quasi che il mondo intero venisse riassunto a suo vantaggio nelle sequenze pubblicitarie.

Lo sconforto ha il sopravvento. Sono costretto a rimanere in balia di un individuo che ha certamente un compito da svolgere, all’interno di una vicenda dai confini oscuri. Costui passa il tempo in preda a una specie di quieto delirio visivo. È un carceriere perfetto, pronto a difendere l’ostaggio, deciso, silenzioso. Non riuscirò mai a commuoverlo.

‘‘Mi salverò? Glaukos, dimmi almeno se mi salverò.’’

Lui si gira, abbandonando un cartone animato che si tinge periodicamente di bagliori psichedelici. Ha un’espressione soddisfatta, come se accarezzasse un cane sfinito che ha rinunciato a liberarsi dal suo guinzaglio.

‘‘Vuoi questo? Salvarti?’’

‘‘Sì. Nessuno mi ha offerto un’altra possibilità. Paola non ha...’’

‘‘Preferivi combattere? Se vuoi combattere, ci saranno molte occasioni.’’

‘‘Contro chi?’’

‘‘Arriveranno presto. Da Patrasso, Corinto, Creta, Salonicco. Abbiamo spezzato i loro collegamenti. Si vendicheranno.’’

Esamino mentalmente le località che ha nominato, per scoprire se qualche indizio affiora nella memoria. Davanti a me si stende la mappa del commercio, divisa in una parte lecita e in una parte...

‘‘Patrasso?’’

È un trucco, per controllare se sono al corrente di... Di qualcosa accaduto a mia insaputa. No, rinuncio. Ho cancellato con metodo dalla mia vita le tracce che mi avrebbero portato a condividere azioni illegali. È buffo. Proprio per un istinto di conservazione, esercitato negli anni in modo automatico, ho smarrito i dettagli che ora diventano fondamentali. Credevo d’essere leggero, di volare indisturbato sopra gli inganni e il denaro sporco, le contrattazioni a rischio, i pirati della costa.

Così, anche in amore ho cancellato i movimenti bruschi. Fingevo di non badare allo slancio altrui. Ma era un’illusione. Le cose resistevano, fuori e dentro di me.

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Glaukos si piega in avanti, indicando con il dito una nuova scena. ‘‘Non c’entra con il resto. È triste.’’

Osservo la figura in bilico sullo schermo, e tutto è cambiato. Dalla continuità dei colori pastosi siamo caduti in un bianco e nero severo e antico, inciso sui fotogrammi di una pellicola segnata dal tempo, quasi rovinata. In mezzo a una strada di città c’è una donna dall’aspetto androgino. Ha i capelli tagliati alla maschietto, come una suffragetta o una puttana esangue, di quelle che per compiacere un vizio del cliente si travestono malvolentieri, sciattamente. Guardo meglio, dimenticando la stanchezza. Lei è in realtà molto più stanca di me, davvero prostrata, e si abbandona ad una malinconia crescente, un rimpianto di forza straordinaria. Si aggrappa a...

Si aggrappa ad un bastone da passeggio che le serve per toccare e spostare una mano mozzata di fresco, insanguinata a terra. Un poliziotto, con atteggiamento di rimprovero, accorre e chiude questa mano in una scatola a righe trasversali che consegna alla fanciulla. Lei, rapita, la stringe come se contenesse la reliquia di un amore eterno. Il suo petto non lascia trasparire il minimo indizio dei seni, di un particolare materno o femminile. Tutto è nascosto in una redingote grigia e stretta.

Cerco di indovinare il film da cui viene questo brano, stupendo nel suo squallore incantato. Mi pare di averlo già visto, forse negli anni in cui frequentavo i cineclub, nei pomeriggi che trascorrevo da studente ozioso.

La solitudine della donna è aggravata dal comportamento di alcuni curiosi, vestiti come i bravi borghesi di inizio secolo, corvi neri e barbuti che si affollano intorno a lei, attirati dal macabro gesto.

‘‘Secondo te, cosa farà?’’

Glaukos, con un soprassalto bizzarro, ha messo in pausa il videoregistratore, bloccando l’azione.

Rispondo: ‘‘Non so. Non c’è una logica.’’

‘‘Come sarebbe a dire? Una logica c’è sempre.’’

Spazientito, fa ripartire l’immagine; la protagonista, animandosi, viene subito sfiorata da una macchina in corsa. Si capisce chiaramente che non intende affatto evitare il suo destino. Anzi, per lei il destino è già presente; dorme nella scatola a righe, sepolto nel ricordo di un incontro. Ma non c’è nulla di naturalistico in questa storia, ed è perfettamente inutile chiedersi cosa è avvenuto nel passato. Il passato non esiste, così come il futuro.

Al terzo passaggio, l’innamorata viene investita da un’automobile. Giace a sua volta al suolo, per sempre. Una dissolvenza ardita, che non appartiene al ritmo del film, copre in pochi istanti il delitto, evocando di nuovo l’universo chiassoso della pubblicità. Da un lavandino giallo escono alcuni ometti di sapone, cantando una filastrocca di cui non si afferra il senso.

‘‘È finita.’’

È vero. Sento un peso insopportabile nel cuore. Alla donna riversa sull’asfalto ho associato Anna, e il suo tuffo disperato. Se avessi la prova della sua morte potrei seppellirla con un fiore, onorarla in qualche modo. Un fantasma si nutre dei miei nervi, dell’antica rapidità che adesso manca completamente. Si infila nel sonno, scende nei polmoni, mi costringe a tossire. Nuota nelle vene, gioca con il sangue, rende anemica la pelle.

‘‘Anna...’’

‘‘Anna?’’

‘‘L’hai buttata tu dalla finestra?’’

Ho pronunciato la frase con rabbia. Sarei felice di riconoscere in lui il mostro, il bruto che una divinità terribile ha scelto per distruggere metro dopo metro la pace precaria dei miei giorni. Quando riposavo sulla terrazza di casa, compiacendomi dell’azzurro intenso, grato comunque alla sorte per avermi costretto ad approdare sull’isola dell’Egeo, lontano dall’Italia, dai colpi proibiti, dalle chiacchiere... Ero invulnerabile, ero sfuggito al lutto, alle preghiere ridicole dei parenti. Non mi sarei più laureato, eppure potevo ancora diventare saggio.

‘‘Io non ho ucciso nessuno.’’

Replica con calma, come si fa davanti a un’accusa ingiusta. Dalla manica arrotolata della camicia esce un piccolo tatuaggio, una fiamma rossa che sembra bruciare un anello blu, su cui sono scritti alcuni caratteri illeggibili. Forse il mio sequestro è opera di una setta di folli; forse, al contrario, questo è l’esercito dei buoni, mandato a debellare l’arroganza del male. Sto delirando, ormai. Ma sono giunto allo stremo.

‘‘Io non ho ucciso nessuno.’’

‘‘E allora chi è stato?’’

Sorride dolcemente. Adesso somiglia a un gigante benefico, che aiuta due bambini smarriti nel bosco e li protegge dagli artigli del mago. Qualcuno, nascosto nel fumo di una nuvola nera, continua a infierire su di loro, dalla nascita.

‘‘Paola non ti ha spiegato. Non voleva farti del male. La tua ragazza...’’

‘‘Non era la mia ragazza. I nostri rapporti sono finiti.’’

‘‘Perché soffri, allora?’’

‘‘Io...’’

Sto zitto. Come spiegargli che l’amavo, anche se certamente l’avevo smarrita, molti anni prima? Troppe cose erano avvenute tra noi, il tradimento, la droga, Yannis. Eppure Glaukos ha perfettamente ragione. Anzi, questo è il vero nodo. Io l’amavo, e Paola si è scontrata con il sentimento antico, come un sasso precipita nel pozzo e manda un suono appena tocca l’acqua. Sasso e acqua non esistevano da soli, è l’incontro che li ha rivelati. Il pozzo non era secco.

‘‘È morta di droga. L’abbiamo trovata appoggiata al muro, con la siringa piantata nel braccio. Credevamo fosse colpa tua.’’

‘‘Mia?’’

‘‘Non ci sono le prove del delitto. Non ci saranno mai. È facile avvelenare una tossica.’’

‘‘Mio Dio.’’

A mia volta scendo sul pavimento, come se rannicchiarmi significasse una minore esposizione alla pioggia, al dolore, alla passione.

‘‘L’abbiamo sepolta nel cimitero di Eleusi, come chiedeva il suo testamento. Dorme a un chilometro dalle rovine. Veniva dai sobborghi, da una famiglia di operai. Atene non le ha portato fortuna.’’

Non riesco a piangere. Questo racconto è molto più convincente e completo del primo.

‘‘Perché Paola mi ha mentito?’’

‘‘Te l’ho detto. Se eri il mandante, era meglio tacere. Se invece...’’

‘‘Sono innocente. Non vuoi ascoltarmi? Sono innocente. Sono la persona sbagliata.’’

Glaukos scuote le spalle, come a sottolineare che il punto è un altro. Spegne il televisore e, muovendosi con indolenza, sposta l’armadio. Trascina un quintale di legno e di cassette senza il minimo sforzo.

‘‘Lì dietro cosa c’è?’’

Estrae da una nicchia un sacco di tela verde. Lentamente, appoggia sul tavolo sette blocchi di metallo brunito.

‘‘Una mitragliatrice. Servirà, se arrivano.’’

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