Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo undicesimo

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Il problema è che non so dove andare. Per svoltare a destra o a sinistra dovrei essere sicuro di trovare una strada migliore, perché il semplice fatto di piegare la mia corsa corrisponde a una perdita di terreno. Dietro, stanno arrivando, e io non potrò mantenere a lungo un ritmo così intenso. L’aria, che respiro con avidità per ossigenare i muscoli, si è trasformata in un soffio bruciante; accarezza la gola, arrossa le tonsille, affonda nel naso come un nastro di metallo. I tendini sopportano a stento il colpo del piede; la milza si ingrossa, lo stomaco è dolorante. Se a cena avessi mangiato qualcosa, avrei già vomitato.

Per aggiungere altra fatica, il percorso è in leggera salita. Purtroppo vedo una specie di tornante davanti a me, e un bivio che si avvicina a grande velocità. Non posso articolare un ragionamento compiuto, esaminando i rapporti di forza che attraversano la mappa del quartiere. Tutto si svolge quasi in un sogno, quando i nemici reali spariscono e l’angoscia diventa un animale feroce che ti assale, senza che la sua bocca riesca a mangiarti subito, annullando per sempre la sofferenza. Allora, non c’è un tribunale da consultare, un vigile urbano che presidia l’incrocio più pericoloso, un passante che spiega come sfuggire al traffico. Non è il fantastico a dare ordine ai sogni; la novità consiste nell’assenza delle informazioni normali, sostituite da segnali di tipo diverso. Un corrispondente straniero si è infilato nella nostra posta e ci tempesta di cartoline esotiche, lettere d’amore, oscure minacce.

Non farò quella curva. Mi piglierebbero, tagliando per qualche scorciatoia, mi picchierebbero selvaggiamente, mi ferirebbero con un coltello. Pochi istanti dopo sarei sdraiato al suolo, boccheggiante in una pozzanghera scarlatta, piena di olio e di catrame. Guarderei il mio corpo dall’alto, pronto ad abbracciare Anna in paradiso. Ma anche questa sarebbe un’illusione.

No, vado dritto; se le luci non fossero spente... Mi sembra di entrare in un palazzo in costruzione: scendo in un garage scavato a due metri di profondità. Una traccia di splendore diurno penetra dai finestrini aperti accanto al soffitto, battendo sul calcestruzzo dei piloni grigi. Scopro d’essermi abituato perfettamente alla notte e di avere amplificato ogni sensazione, come se stessi viaggiando in due universi concentrici, il primo abituale e violento, il secondo mediato e nascosto. Ora rispondo alle parole enigmatiche del mio interlocutore fantasma, accetto i consigli nati dal cuore dell’incubo, mi piego alle pretese del caso. Analizzo tutti i suoni, mentre i gradini indicano una possibilità di scampo. Mi arrampico a perdifiato, con le gambe rigide, per due, tre piani.--

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Sono in cima alla rampa e mi pare di avere ingannato i miei persecutori. Forse si sono smarriti in questo dedalo di stanze mai terminate, nella successione di porte senza fine. Una delle quattro pareti è solo abbozzata, tre listelli sospesi, una trave di ferro che si allunga nel vuoto. Il cielo della Grecia, di nuovo sereno dopo il temporale, mi circonda e mi inebria. Le stelle risplendono in numero molto maggiore, liberate dall’afa che di solito sporca l’atmosfera. C’è fresco, e sono stupito dalla quiete che l’avventura mi offre, un intervallo ideale per ricordarsi dell’esistenza della natura.

Non so se anche le stelle sono natura. Il firmamento è sublime, ma freddo; non assomiglia alla vastità dei campi di frumento, dove ogni dettaglio si fa toccare, si può cogliere, cresce. Quella è l’unione infinita di punti familiari, l’insieme di parti simili a noi, una potenza amica, una donna sorridente che ci fa un cenno con la mano. Nel buio, capisco perché qualcuno ha pensato che in alto ci fossero semplicemente fori, buchi rivolti verso la fiamma immensa dell’assoluto. Mi sento fragile, se penso al viaggio che una nave dovrebbe iniziare per raggiungere altri mondi e affacciarsi oltre la tenda dell’apparenza. Morendo, forse un dio ci rapirà usando una rete di ricordi sottili che ci accompagneranno nella traversata, oltre Giove, Nettuno, Plutone.

‘‘Sei un ladro?’’

La voce mi spaventa, è un brusco richiamo alla realtà. Dall’ombra è spuntato un bambino, con una maglietta bianca e rossa a righe orizzontali e un paio di pantaloncini da scout. Avrà sì e no otto anni. È nel periodo sfortunato in cui non si appartiene più all’infanzia, perché una certa forma adulta comincia ad apparire. Ma questa figura d’uomo non diventerà mai attuale; alcuni lineamenti verranno dimenticati in fretta, e i capelli si ribelleranno presto alla pettinatura da prima comunione. Però, nell’età di passaggio capita di accorgersi di molte verità a cui nessuno vuole prestare fede. Allora si tace, cedendo a una timidezza ingiustificata. Solo talvolta si parla, stupiti per il comportamento degli adulti, che sembrano deviati da qualche desiderio incomprensibile.

‘‘Sei un ladro? Dimmelo pure, la polizia non c’è.’’

‘‘Senti, come ti chiami?’’

‘‘Ferdinando.’’

Mi viene da ridere. ‘‘È un nome molto impegnativo. Sei italiano?’’

‘‘No, tu sei italiano.’’

‘‘Bravo. Come hai fatto a indovinare?’’

‘‘L’accento.’’

Gli sto accarezzando la testa come se fosse un gatto alla ricerca del padrone. Lui si innervosisce, e smetto. Non vuole smancerie, solo risposte.

‘‘Come mai sei qui?’’

‘‘Scappavo.’’

‘‘Ah, giocavi a rimpiattino.’’

‘‘No. Purtroppo scappavo sul serio.’’

‘‘Sì? E i tuoi amici?’’

‘‘Non ho amici. Mi cercano. Hanno intenzione di uccidermi.’’

‘‘Davvero?’’ Spalanca gli occhi, sedotto da questa favola. Crede d’essere impegnato in una battuta di caccia, a tu per tu con la tigre, che ormai è circondata e sta per arrendersi. Il ciuffo gli arriva fino alla punta del naso. Ha lo sguardo mobile, intelligente.

‘‘Sì, davvero. Per questo mi sono nascosto. Non devi fare rumore.’’

Apre la bocca e poi la richiude. Si è irrigidito, temendo di provocare ingenuamente uno spostamento d’aria dalle conseguenze catastrofiche. Ci fissiamo, come se fossimo padre e figlio; mi piacerebbe parlargli, camminare con lui senza fretta.

‘‘Io vengo qui per stare tranquillo. Scappo da casa quando la mamma è alla televisione.’’

‘‘Come sarebbe?’’

‘‘Sì, quando ci sono i quiz. Non si accorge mai che vado via. A letto mi annoio.’’

‘‘Ma questo non è un posto per i bambini.’’

Alza le spalle. ‘‘I ladri non mi fanno del male. Mio fratello grande lavora con loro. Scarica le sigarette.’’

Sto per ribattere, ma un fruscio mi blocca. Qualcuno sta salendo, e infatti il raggio giallo di una pila si sposta lungo il soffitto. Stanno perlustrando il palazzo.

Istintivamente mi getto verso il lato opposto, là dove il cielo continua a stendersi imperturbabile, come il fondale di una scena da teatro romantico. Ferdinando, ritto in mezzo alla stanza, solleva lentamente il braccio indicando una direzione dietro di me.

Ubbidisco a questo consiglio silenzioso, senza badare ai suoi rapporti di parentela, confidando nell’aiuto del destino. Scopro subito di camminare sul margine del nulla, con le scarpe in bilico sopra una trave che dovrebbe collegarsi ad un altro reticolo metallico, e invece è l’ultima della struttura. I muratori hanno finito il loro lavoro e l’hanno lasciata lì, a sbalzo sull’acqua.

Sì, sotto di me c’è l’acqua, racchiusa da una darsena e alimentata da un canale. Non so valutare la sua profondità, ma la distanza che mi separa da quella superficie calma, non increspata dalle onde, come un piccolo lago di petrolio, è straordinaria, superiore alle mie forze. Sono in bilico tra la vertigine e la paura: la trave è un trampolino precario costruito apposta per un tuffo, un suicidio programmato. Forse è alta quanto la piattaforma olimpionica di una piscina. Mi viene in mente che uno dei grandi campioni di questo sport era un greco, o meglio un americano di origine greca. Era omosessuale... L’erotismo del salto, psicologia applicata di infimo ordine... E quell’italiano, altoatesino, chi era?

Guardo Ferdinando, mentre i miei inseguitori si avvicinano, e lo spazio è ormai una cosa che si annoda al tempo, una cintura che stringe il corpo, soffocando il battito del cuore. Devo svenire nelle spire di questo serpente che mi strangola, o tentare una soluzione disperata. Mi pare che il bambino approvi scuotendo la testa. È certamente felice d’essere lo spettatore d’eccezione di un record degno del libro dei primati. Anch’io, in piscina, disteso sul mio asciugamani morbido, assistevo allo scatto dell’atleta con un sorriso di benevolenza, tanto bella appariva l’impresa.

Prendo fiato, decidendo di saltare in piedi per ovvia incapacità acrobatica. Scarto con rabbia i calcoli di impatto che mi si affollano accanto. Quegli uomini vogliono uccidermi. Mi butto.

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Scendo a precipizio, ad occhi chiusi, con i pugni stretti vicino alle cosce e i muscoli della schiena curiosamente rilassati. So, per intuizione, che ogni difesa si tramuterebbe in una torsione mortale. Se volessi bilanciare il mio peso, usando una tecnica che non possiedo, la rotazione diventerebbe imprevedibile, come accade al cosmonauta che ha smarrito la navicella e rotola nel vuoto, come un’elica impazzita. La gravità è la mia unica alleata.

Come in giostra, sull’ottovolante, mi arrendo ad un viaggio di cui non sono padrone. Sento che una strana leggerezza mi sostiene, e l’ultima precauzione è distendere al massimo i miei grossi alluci in modo che l’acqua scivoli e mi avvolga, senza incontrare resistenza. Resistenza... Le paure scompaiono, sono veli soffiati dall’aria, residui del passato. L’ultimo dubbio... Se Ferdinando fosse un diavolo, scelto ad arte per organizzare la catastrofe definitiva? C’era qualcosa di infernale nel suo atteggiamento, quel braccio allungato gli dava l’aspetto di un pupazzo di stoffa.

No. Mi devo concentrare sulla caduta, tanto più che presto sarò salvo o perderò conoscenza, risalendo in entrambi i casi verso la superficie. Sono libero, non sono mai stato così libero. Sono una sonda che esplora il mondo e non ha una coscienza a cui appellarsi. Se Anna fosse in basso, al limite della darsena, il suo petto si gonfierebbe per l’ansia e un’emozione vera la costringerebbe a piangere. Anche Paola dovrebbe decidersi, capire se è innamorata di me, oltre la trappola. Io forse l’amo. Questo pensiero ora è tutt’uno con la mia velocità. Sento di aver corso per anni al solo scopo di toccare la soglia contro cui mi infrangerò, tra un istante.

Dov’è l’acqua? Mi sembra di rimbalzare sul cemento, ma nessun dolore riesce a tramortirmi. Un lenzuolo mi avvolge, un mantello gelido conservato a stagionare in frigorifero, una bottiglia di champagne di cui io sono il tappo. Apro gli occhi e vedo un cancello blu, un’ala rapidissima che mi sorpassa, un aereo che parte senza di me, inebetito sulla pista. Evito di respirare e nuoto, finché non vedo di nuovo le stelle.

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