Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo decimo

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Le onde... Il motoscafo alzava molte onde, mentre correva verso l’attracco di Atene. Il pilota ubbidiva alla mia rabbia, ascoltando con pazienza i comandi: ‘‘Veloce. Più veloce.’’ Le paure e il rimpianto avevano lasciato il campo a una determinazione quasi feroce, come se avessi deciso bruscamente di mettere in ordine il tavolo su cui erano mescolati alla rinfusa gli elementi della mia vita. Paola, prima di tutto, aveva portato con sé la confusione; e l’assassinio era solo la conseguenza logica del sovvertimento dei confini stabiliti. Riportare ogni cosa al suo posto poteva facilitare il ritorno di Anna, annullando gli errori precedenti.

Seduto all’interno di un ristorante del Pireo, che addolcisce con il suo lusso l’ansia dell’attesa, mi sorprendo a ripetere questi pensieri così vicini e così distanti, già esausti dopo poche ore. Non me ne pento, però, e continuo ad avere la certezza che si tratta di omicidio, oppure di rapimento. Ma proprio da un’alternativa tanto netta nascono due sentieri opposti, quello del caos e quello della ricomposizione. Se davvero si è gettata dalla finestra, io non potrò più dimenticare. Anna, del cui amore facevo volentieri a meno, diventerà la stella perduta del mio cielo. Sarà inevitabile vendicarla, rivolgersi a lei nelle preghiere, ricordare gli ultimi baci e l’ultimo litigio, la sua pelle, le labbra.

Ritrovarla, invece, significa salvarla dai nemici, conquistare la tranquillità. Allora, mi allontanerò dagli affari e riprenderò con grande fatica ad esaminare i miei conti, lievemente invecchiato, sicuramente stanco. Sull’isola, raddoppierò le precauzioni, vigilando che una simile avventura non si ripresenti mai più. Sul tavolo di cui parlavo ci saranno fogli bianchi in bella mostra, matite colorate dal tratto piacevole, gomme e inchiostro. Talvolta, da un libro aperto a caso leggerò la frase saggia di un filosofo antico, il consigliere spirituale e gratuito di un tiranno dalla mano leggera.

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Aspettando l’arrivo di Petros, per iniziare insieme a lui la caccia, addento la bistecca che il cameriere, insistendo, mi ha fatto preparare. L’ho ricoperta di salsa rossa, in modo che la lingua sia costretta a toccare qualcosa di piccante, di stimolante, di saporito. Il mondo, se devo dire la verità, mi sembra disgustoso. Certo, lo sapevo anche due, tre, dieci anni fa, anche da bambino. Non ho mai creduto a chi affidava al futuro una speranza astratta, dipingendo paradisi improbabili e mete ambiziose. Quando l’insegnante mi premiava con un nove o con un dieci, il suo sorriso era in realtà costruito sui fallimenti in cui erano precipitati altri amici, dal cuore più libero del mio, aperti con maggior forza alla primavera, alle distrazioni dell’età. Se una ragazza mi guardava, chiedendomi in silenzio di seguirla, io vedevo nella ricerca del piacere solo una guida momentanea che avrebbe districato provvisoriamente l’ambiguità dei sentimenti, dividendo le cose per riunirle dopo, ordinate in modo diverso. Del trionfo non c’era la minima traccia.

Dalla mia poltrona in prima fila sul traffico della città in cui presto mi dovrò tuffare, vedo semplicemente disgregazione. Se esploro dall’alto la capitale, diventa difficile individuare un movimento coerente, che giustifichi le azioni degli abitanti. Occorre scendere e imbattersi nell’avidità, nei delitti che punteggiano la giornata. Avvicinarsi al fiato delle bocche, sentire la pesantezza delle mani, subire gli urti che i passanti frettolosi si scambiano, persi nel loro miraggio di difesa a oltranza. Forse la felicità, che pure esiste, si annida a un livello più basso, microscopico. Alcuni gesti talvolta compongono un saluto, una danza aggraziata. Movimenti irriflessi del corpo ubbidiscono a richiami che la volontà non riesce a interrompere. Nella resistenza degli affetti rimane sospeso un desiderio abbastanza puro, continuamente negato, sempre in pericolo. Lo stesso che mi capitava di incontrare quando, in Italia, fendevo la folla nel mercato e riconoscevo, oltre la frenesia, un brivido comune. Avrebbero aiutato il prossimo, quelle braccia, se fosse arrivata d’improvviso la guerra, i bombardamenti? Perché adesso mi importa di Anna, se l’ho rifiutata fin dal nostro primo incontro?

Due bambine vestite di verde ridono e scherzano giocherellando con un’altalena, che dondola nel giardino dell’albergo a pochi metri da me. Bisbigliano favole misteriose l’una nelle orecchie dell’altra.

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‘‘Signor Luca, sono qui.’’

‘‘Ah, Petros, bene. È ora di partire.’’

‘‘Dove andiamo?’’

‘‘La dobbiamo ritrovare, viva o morta. Hai controllato gli ospedali?’’

‘‘Sì. Nessuna donna corrisponde alla nostra descrizione.’’

‘‘Nemmeno nelle cliniche?’’

‘‘No. Ma questo non conta. Basta una mancia per cambiare le cartelle e cancellare una firma. Anche le fotografie saltano. Spariscono.’’

‘‘Petros...’’

‘‘Sì?’’

‘‘Secondo te, Anna è ancora viva?’’

Petros mi fissa sbalordito. C’è in lui qualcosa che fugge continuamente, una specie di timidezza furba mescolata all’attenzione per i dettagli. Sa di essere un debole, destinato a soccombere se lo scontro sale di intensità. Così, cerca gli angoli in cui rifugiarsi, le fenditure che collegano tra loro certi percorsi alternativi, raramente battuti. Ma la mia domanda lo mette in imbarazzo, costringendolo a schierarsi in favore di un’ipotesi, un’idea che ai suoi occhi è troppo vaga. Ha i capelli neri tagliati a spazzola e una faccia intelligente che gli serve per esprimere un dolore continuo, una fragilità capace di guadagnare minuti preziosi.

Nello specchio delle sue iridi scure appare una preoccupazione sincera.

‘‘Non ho elementi. Tutto quello che so l’ho sentito da..’’

‘‘Da me. Sì, hai ragione. Sono io il responsabile di questa avventura assurda. È un inganno che nasconde troppi pericoli, e io continuo a nuotarci dentro, come un pesce che va sempre più verso il fondo, nella stessa direzione del vortice. Eppure non mi stanco. Mi lascio trasportare dalla corrente.’’

Petros mi tocca la spalla, agitando un dito davanti al mio naso. Deve essere proprio impaurito per comportarsi così. ‘‘È un guaio serio, signore. Io l’ho capito: vogliono incastrarci, e hanno usato la ragazza come esca. Non lavora per nessun giornale italiano. Non è... non è...’’

‘‘Accreditata.’’

‘‘Sì, accreditata. Signor Luca, sarò onesto. Secondo me, Anna è scomparsa per sempre. Forse non l’hanno uccisa, forse è chiusa in una casa di periferia, ma per noi non c’è differenza. Atene ha milioni di abitanti, porte senza targa e senza campanello, falsi recapiti, vie senza nome. Ci colpiranno all’improvviso, mentre cerchiamo i suoi vestiti, il suo... il suo corpo.’’

Sono assolutamente d’accordo. Ma questo non c’entra, e la mia replica è severa. ‘‘Alziamoci. Prima andremo nel quartiere dei marinai, poi, se non avremo nessun indizio, faremo notte nel bar che le guardie mi hanno segnalato. Se qualcuno ha intenzione di attaccare, verrà allo scoperto.’’

Petros ubbidisce con un mugolio caratteristico. Elenca alcuni indirizzi che possono ospitare giri di donne, e altre sorprese. Gli ordino di guidare la macchina, mentre io rimango disteso con il cappello calato sul volto. Entrambi siamo nervosi, quasi fossimo sicuri di udire presto il rumore di uno sparo.

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Così, non è accaduto nulla, come previsto. Il sole cade sul mare, regalando alle nuvole strette di questa stagione senz’acqua un poco di polvere rossa, che movimenta il quadro azzurro in cui ci muoviamo. Il Mediterraneo è a due passi, e ci sbarra il cammino. Osservo la luce morente come se fosse l’ultima volta che mi capita di sfiorarla. Anna aveva una forte passione per le ultime ore della sera, quando il calore raccolto durante il giorno incomincia a infiammare la pelle, e l’aria sembra un lenzuolo fresco che ti protegge dalla durezza della vita. Faceva parte della sua natura malinconica massaggiarsi i muscoli guardando il tramonto, appena uscita dalla doccia, prima di scendere nelle discoteche notturne. ‘‘È bello qui...’’ ripeteva. Lei ondeggiava sulla pista, con le gambe scure e nude, uno scialle nero che la copriva appena, un costume da bagno indossato come reggiseno e la schiena dipinta dai faretti lampeggianti, la copia volgare dei raggi dell’estate.

‘‘È un trucco, e lei ha pagato.’’

‘‘Come?’’

‘‘Era al confine, e l’hanno travolta. Mi ha protetto. Forse in questo momento la stanno picchiando.’’

‘‘No, è impossibile. La tengono come ostaggio.’’

‘‘E a che servirebbe? Non ho materiale di scambio, non sono in condizione di trattare. Se fosse un ricatto, avrebbero agito diversamente.’’

Petros tace, perché il mio discorso lo ha convinto. Ci troviamo davanti all’entrata di un locale che in altri tempi avrei definito equivoco. Mi ha sempre incuriosito questa parola, ‘locale’, quasi non ci fosse altro modo per indicare un posto assolutamente vuoto, costruito solo per ospitare i convegni di gente sbandata, sbattuta a caso sulla riva. Ogni luogo è certamente locale, ma qui c’è qualcosa di più. Quando si varca la soglia, l’esterno scompare e tutto si svolge dentro, dentro i bicchieri, le chiacchiere, i corpi. Tanto meglio se un odore losco pervade l’arredamento e provoca un piccolo brivido. Senza l’anima siamo più leggeri, quel tanto che occorre.

Volto le spalle al sole e passo sotto un’insegna al neon di colore blu elettrico, fredda come l’ago di una fleboclisi. È il New York, e il nome è tanto più stupido in quanto nessun cliente arriva qui attirato dal sogno di un’avventura nell’America del Nord. Anche la tenda che attraverso, fatta di strisce di plastica dalla consistenza gelatinosa, si distingue per la sua banalità inquietante. C’è una specie di patio con tavolini abbelliti da fiori finti, e una guida luminosa che porta nel cuore del ritrovo, una stanza completamente buia, scossa a tratti dal bagliore di un faretto stroboscopico.

La gente è poca, è ancora presto. Riconosco alcuni turisti smarriti che forse intuiscono d’essere approdati, seguendo un consiglio sbagliato, in una zona di passaggio, di commercio. Qui non si vende direttamente, ma basta un cenno al cameriere alto, quello con i baffi da ufficiale dell’esercito sovietico, per scivolare nel parcheggio della baia, dove si contano con rapidità i soldi ed è meglio controllare con attenzione le mosse dell’interlocutore. Poi, si può scegliere: consumare in fretta la roba, rischiando un collasso se è troppo buona o troppo cattiva, o andarsene, abbandonando il New York. Il padrone, un tipo pericoloso, preferisce che i ballerini non abbiano in tasca una sostanza illecita. Allora, è facile cogliere uno strano contrasto fra alcuni candidi occidentali dall’aspetto turbato e molti uomini e donne che ancheggiano soffocati dalla droga. Angeli e demoni, ho pensato una notte. Ma non sono abituato a esprimere giudizi morali sulle persone; solo il mondo intero può essere soppesato per un attimo, quando ne ho voglia. Con Anna ho mantenuto sempre la stessa linea di condotta. Lei andava molte volte al parcheggio, e ritornava ridendo.

Petros sta cercando un indizio, mentre l’ambiente si anima. Rimango incantato di fronte a uno schermo di tre metri su cui viene proiettato il video di una famosa gara di calcio. Non c’è rumore di pubblico: il commento è affidato alla musica degli U2, che scorre in parallelo negli altoparlanti inchiodati agli angoli della prima pista. I tamburi battono più forte nella parte oscura, e un gioco di risonanze mette in evidenza, qui, la voce del cantante irlandese e il suo racconto di rivolte impossibili. Una bella ragazza sta ballando nel sangue e non se accorge affatto, mimando con la bocca gli accordi. È felice; probabilmente crede che la canzone sia un inno alla gioia, alla giovinezza, al movimento. La sua camicia a fiori si riempie di un affanno allegro, mentre i tacchi delle scarpe sfiorano il pavimento, accarezzandolo ad ogni percussione. Sembra che faccia l’amore con uno spiritello divertito, anche se nulla viene lasciato alla sorte e un progetto di seduzione collettiva parte dal suo ombelico, che oscilla oltre la cintura di seta, in basso, in alto.

Vado verso lo schermo, fino a quando la distanza è così breve da volatilizzare i lineamenti delle figure. La partita scompare in un delirio di piccoli rettangoli senza patria né bandiera. Il bianco invade il tessuto elettronico, ammorbidendo il verde, stingendo il rosso, seppellendo il nero. Ricordo di aver letto che una pratica divinatoria moderna consiste nell’osservare, in una specie di rapimento mistico, le immagini catodiche nelle ore in cui nessun programma viene trasmesso dalle emittenti. Qualcuno spera di intercettare nella polvere un’ombra, come se nell’etere viaggiassero i nuovi messaggeri degli dèi, un Mercurio indaffarato a vistare comunicazioni della massima importanza.

Ma l’etere non esiste più, e i miei genitori, se ancora si aggirano nelle pieghe dell’universo, hanno di meglio da fare che presentarsi al figlio per consigliare la giusta linea di condotta. Mi colpisce piuttosto che il pallone sia scomparso, anche se un centro di forza deve sopravvivere in questa ridda di segnali.

Petros mi chiama con insistenza. Forse ha individuato una traccia, e per verificare questa eventualità sono obbligato a spostarmi con decisione. Supero la ragazza dalla camicia a fiori, toccandola inavvertitamente con un braccio. Lei si gira e, con uno sguardo curioso, mi dice in italiano ‘‘Parli la mia lingua? Sei greco?’’ Non ho tempo di rispondere: indico l’orecchio, fingendo di non aver capito, poi mi allontano per ricevere notizie dal mio informatore. Temo che mi deluderà.

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‘‘Dunque, la situazione è questa. Dobbiamo incontrare un contrabbandiere. È sicuro di aver trasportato Anna, domenica.’’

‘‘È attendibile?’’

‘‘Non scommetterei molto sulla sua sincerità. Può essere la famosa trappola.’’

‘‘Che elementi abbiamo per fidarci?’’

‘‘È il secondo cugino di un mio amico. E sua sorella ha sposato...’’

‘‘Tu sei parente di tutta Atene, ma non basta. Dov’è l’appuntamento?’’

‘‘Sotto la montagna.’’

Sospiro. La montagna è un quartiere malfamato che sorge sulle pendici di una piccola collina. L’hanno chiamato così perché le case sono storte, con le fondamenta mal progettate e il cemento che si screpola sotto il peso delle abitazioni. Capita che un muro crolli, o che si apra una voragine tanto profonda da inghiottire una macchina in sosta, una famiglia di vecchietti addormentati, un bambino imprudente. Chi sceglie di restare tra le macerie ha bisogno di un nascondiglio per la sua attività, una base protetta dalle incursioni della polizia. Per la gente comune è il punto peggiore in cui fermarsi.

‘‘Sei matto. Andare sulla montagna è come buttarsi in un pozzo. Anche se chiamassi altri uomini non saremmo mai abbastanza difesi.’’

Petros sembra approvare, sottolineando con una smorfia di compiacimento i miei dubbi. Ma, bruscamente, rompe la consueta prudenza e mormora una frase inattesa. ‘‘Però, se non si rischia...’’

Mi stupisce questo tono, che contraddice il suo modo normale di comportarsi. Mi accorgo per un attimo della presenza di un’ombra che risale in superficie e poi affonda ancora, e abbraccio con un’occhiata il perimetro circolare della discoteca. Vorrei dominare una situazione che mi sfugge, controllare meglio gli appoggi del mio piede. Perché i rapporti sono diventati così scivolosi? Petros ha uno stuzzicadenti tra le labbra. Ha mangiato un’oliva e ora sputa il nocciolo, che rotola sulla plastica e muore nella sabbia. Devo reagire.

‘‘Se mi tradisci, ti ammazzo.’’

Non si muove, e l’assenza di ogni tentativo di replica conferma che è avvenuto uno strano cambiamento di prospettiva, chissà quando. Mi conviene pensare con rapidità: consegnarmi al nemico, là, nel quartiere abbandonato dalla legge, o esitare. Se solo conoscessi l’identità esatta di Paola...

Molte volte ho ammirato gli istanti che si fermavano, immobili nel manifestarsi di un’emozione, di un ricordo, di una goccia d’acqua che scende lungo la parete e ti fa rabbrividire, quasi fosse il primo indizio del diluvio universale. Oppure ho assistito alla serie automatica dei gesti di due persone che, per anni, spinte da un sottinteso ignoto, si erano salutate con indifferenza. All’improvviso, voltandosi, scelgono di ubbidire all’eternità nascosta e si abbracciano. In questi casi il tempo va in pezzi, ma il problema di oggi è più grave. Voglio salvare Anna, e la mia determinazione mi costringe a negare che sia accaduto l’irreparabile, dal giorno in cui l’ho perduta. Ecco la vera trappola: abolire i momenti trascorsi significa percorrere un binario che mi condurrà in qualche luogo, ma non arriverà mai dove intendo io. Le parole di Petros sono come lo scatto del trenino fantasma, prima della galleria dei mostri.

‘‘Se non vuoi, non c’è problema. Il contrabbandiere si stancherà e si dimenticherà di me.’’

‘‘Come sei riuscito ad avere il suo nome?’’

‘‘Mio cugino, appunto.’’

‘‘Lascia stare.’’

‘‘E allora, che si fa?’’

‘‘No, non in quel senso... Io...’’

Mi guardo intorno, alla ricerca disperata di un particolare che possa regalarmi un’ispirazione. Ho un leggero mancamento, che colora di rosa il cielo ormai blu. È la tensione.

Di fianco a me, un giovane dal profilo pulito si china a baciare un’amica che gli stava parlando. Il bacio è lungo, appassionato; le mani di lei afferrano la sua nuca, stringendo i capelli appena cresciuti. Forse si tratta di un militare, sbarcato dalla nave per un breve congedo; forse è una conquista casuale, un flirt che morirà nel procedere lento dell’estate. Sicuramente, nessuno dei due cercava il bacio; credo anzi che ognuno sia perplesso di fronte ai difetti dell’altro, un tono di voce troppo acuto, un ragionamento che si ripete senza costrutto. ‘‘È un poco grassa’’ avrà concluso lui, e la ragazza si sarà meravigliata di una piccola scortesia. Per questo c’è tanto ardore. Le guance si toccano, come se non avessero mai sfiorato un corpo umano e si stupissero di una dolcezza insolita.

Vengo soffocato dall’invidia, che mi piega e mi confonde. Senza aspettare, dico a Petros che andremo all’appuntamento. Se mi uccidono, avrò almeno tentato di correggere un errore. Non sopporto l’idea di reagire alle effusioni degli innamorati come se si trattasse di un rimprovero, e soprattutto non tollero di aver smarrito per sempre la giovinezza, questo precario stato mentale.

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Siamo sulla montagna, e piove. Una grande nuvola è venuta dal nulla e ha offuscato le stelle. Le costellazioni stavano ruotando come al solito, con lentezza disarmante, nella cortina di nebbia sollevata dallo sbalzo termico. Non ero preparato al temporale. Scendo dalla macchina e vengo colpito da un getto leggero ma intenso, che pulisce l’aria dai veleni del traffico. Lo spettacolo naturale mi conforta, anche se mi accorgo che il silenzio presenta delle insidie: nessun contrabbandiere appare accanto ai rifiuti che sommergono una spianata fatta d’erba e di argilla. Le strutture dei palazzi abbandonati danno un’impronta sinistra al crocevia, su cui dondola un fanale giallo appeso a un filo orizzontale, che sparisce nel muro illusorio creato dalle gocce d’acqua. La mia giacca di cotone azzurro è completamente bagnata; penso al filo e immagino d’essere un equilibrista, sospeso a dominare il panorama. Un aeroplano passa, senza curarsi della tormenta, apprestandosi all’atterraggio morbido.

‘‘Dov’è il tuo amico?’’

Petros accenna all’angolo più distante; in effetti mi sembra di scorgere un uomo avvolto in un impermeabile grigio. La luce cade su di lui a intermittenza e mi impedisce di precisare altri dettagli. L’unico particolare evidente è questo vestito, fermo sulla linea di confine tra lo spiazzo e il resto del quartiere. Ho freddo, quindi scelgo di muovermi con disinvoltura, attraversando lo scroscio. Bado solo alla meta, convinto di trovarmi nei pressi di una porta da cui vedrò una prospettiva diversa, legata alla realtà, alla verità, all’amore.

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Sono costretto a frenare presto lo slancio: giunto alla svolta scopro di avere smarrito le coordinate di riferimento. Il fascio di luce è alle mie spalle, e davanti non c’è alcuna figura, rassicurante o nemica. Chiamo, per il vizio antico che dimostra chi è abituato a comandare: ‘‘Petros, sbrigati! Mi serve aiuto.’’

Quando nessuna voce mi risponde, sento un piccolo dolore intorno al collo, come se il nervo di un molare mi avvertisse di una trapanazione imminente. Ora, ogni mia impressione è deformata dalla massa liquida in cui galleggio: sono un naufrago che il vento ha trascinato a molte miglia dalla costa, senza una pistola in grado di sparare messaggi di soccorso, e la radio, la radio in cui riponevo tanta fiducia, si è inceppata dopo un sabotaggio. Mi pulisco la fronte, con un gesto che somiglia alla resa, prima d’essere divorato dallo squalo che certamente naviga sotto di me. Morire così, sciogliersi nel fango, ingannato da tutti. Piangerei, se fosse possibile distinguere le lacrime dall’acqua sporca.

‘‘Sei tu Luca Ferretti?’’

La pioggia forse si attenua. Tre ombre dall’aspetto massiccio sfilano là dove inizia una via. Eroicamente, rispondo ‘‘Sì.’’

‘‘Allora andiamo. Ti portiamo da Anna.’’

All’istante, capisco che lei è morta e che mi attende la stessa fine, se non reagisco. Mi sfuggono ancora gli schieramenti destinati a percorrere il campo di battaglia, e non so in quale esercito milita Paola. Penso d’essere diventato una specie di segnaposto, il disgraziato oste di una locanda costruita in mezzo alla pianura invasa dalle truppe. Frecce, cerchi e altri simboli erano disegnati sopra di me, ottuso e inconsapevole. Devo scappare e poi riflettere, se ne avrò il tempo.

‘‘Fermo. Fermo! Prendiamolo.’’

Sono magro e i muscoli delle gambe sono abbastanza solidi, per mia fortuna. La suola delle scarpe scivola tra l’asfalto e il terriccio, costringendomi ad un’attenzione spasmodica per conservare l’equilibrio. Volo, senza mai voltarmi indietro, verso le case della montagna.

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