Giovanni Pasetti

Un Tuffo nel Mare Blu

capitolo quattordicesimo

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Paola parla, parla e parla mentre io, intontito dalle pillole tranquillanti che continuo a inghiottire meccanicamente, sono diventato sordo e quasi cieco. Capisco d’essere una volta ancora in viaggio, sdraiato sui sedili di una vecchia spider. Siamo soli. Abbiamo abbandonato le avventure poliziesche e lei guida a strappi, con improvvise scalate di marcia, sulla strada che porta a Capo Sounion, a sessanta chilometri da Atene.

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Vedo una realtà divisa in zone frastagliate, ciascuna dominata da un centro vertiginoso che ci attira, come avviene nello spazio quando un grande pianeta afferra un’astronave e la costringe a modificare l’orbita per inventarsi una via di fuga. Ritmicamente, appare un paracarro al confine tra la ghiaia e il nulla, mentre uno scoglio affonda le sue radici nel mare calmo. Ci affrettiamo con sicurezza verso l’abisso, poi svoltiamo decisamente lungo la montagna. La luce si attenua, mancano poche ore al tramonto. Tutto avviene nello stesso giorno in cui la mia vita è stata messa a repentaglio e salvata a ripetizione, smentendo ogni ragionevole calcolo delle probabilità. Sono nell’occhio della tromba d’aria, attorniato dai relitti di naufragi precedenti di cui non conosco la storia né i particolari. Ignoro se fossero pirati alla ricerca di un forziere perduto, oppure una comitiva di studenti in gita di istruzione, o una stupida compagnia di turisti arricchiti. Le caramelle azzurrine che sto succhiando servono appunto a facilitare il volo, eliminando le domande inutili.

Nel blu del golfo naviga un canotto arancione, spinto dai remi di un signore anziano, con la testa bianca. Le onde, per quanto leggere, lo fanno oscillare a destra e a sinistra, allontanandolo dalla riva. Vorrei gridargli di approdare in fretta, in modo da stendere sulle pietre della spiaggia il suo corpo certamente stanco. Ma vengo sbilanciato dal colpo di volante della mia autista, che mi porta verso un magnifico crepaccio conficcato nel cuore delle rocce. Un torrente scende a cascata, irrigando d’acqua i bordi della valle, fertile come raramente accade in questa terra divisa tra l’aridità e il sogno di un diluvio primordiale.

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Lei spalanca la bocca, e la lingua batte contro i denti imperfetti, affilati, lievemente storti. La guardo da vicino e non sento la sua voce. Forse è un vantaggio non comprendere il senso delle parole: grazie a questa pausa riesco ad evitare la fatica. Ragionando, sarei costretto a separare il vero dal falso, a conciliare l’istinto e l’intuizione. Invece, è bello osservare in silenzio le donne, nell’istante che precede il bacio. Vorrei rimanere a due metri di distanza, come una lucertola appagata che si accontenta del paesaggio verticale, e non rinuncia affatto al muro a cui le sue zampe si attaccano.

Non c’è soluzione di continuità tra la pelle di Paola, il foulard rosso che si agita nel vento e le macchie di colore che di tanto in tanto si trasformano nei dettagli di un albero, di una casa di contadini, di un gregge di pecore e capre impegnate a brucare i cespugli. Con un gesto pigro getto alle mie spalle la scatola del calmante a basso dosaggio di cui mi sono riempito. Questo significa che ho raggiunto un certo equilibrio chimico: gli impulsi nervosi, distribuiti a caso tra la nuca, le gambe e la pianta del piede, si attenuano fino a scomparire, ammorbiditi nel letto dolce della diazepina, o di chissà quale altro medicamento preparato nei laboratori svizzeri.

È bello il suo orecchio, perché termina con un lobo rotondo bucato da tre brillanti microscopici. Una ciocca di capelli bruni si attorciglia accanto, a testimoniare una vivacità inesauribile. Al contrario, le pieghe del collo, profonde e attraversate da segni sottili che si diramano verso il mento, mi suggeriscono idee negative, un’impressione di durezza, la traccia di uno sforzo prolungato che ha impresso il suo marchio anche nell’anima. Ma è una conclusione ingiusta. Sicuramente temo l’arrivo della vecchiaia, e chiudo gli occhi quando scopro l’inizio della decadenza, l’attenuarsi dell’elasticità originaria. Da ragazzo non mi capitava mai: ero convinto d’essere in anticipo sugli anni e di rubare il passo all’avversario che mi marcava. Segnavo i successi scolastici sulle pagine di un registro immaginario, in vantaggio di un rigo sul romanzo che Dio o chi per lui stava scrivendo, usando una penna appuntita. Ero pronto a tutte le domande.

‘‘Insomma, sei tu il responsabile della mia scelta.’’

‘‘Cosa?’’

‘‘Sì, non fingere d’essere sorpreso. È troppo comodo. Non offendermi ancora.’’

Le frasi ormai arrivano e catturano la mia attenzione, come se lo stato di apatia in cui riposavo fosse solo un trucco per proteggere me stesso, nel tentativo di non finire la storia, di lasciarla in bilico tra speranze deluse, questioni non chiarite, ombre che nascondono sotterfugi malinconici. Invece, Paola ha superato il confine che separa il pudore dalla verità. Vuole raccontare le cose dal suo punto di vista, perché la disonestà è impossibile. Non credo che gli uomini siano capaci di spogliarsi così, mostrando le ferite, le cicatrici, le storture accumulate nelle battaglie quotidiane.

‘‘Luca, ti ripeto... Dal giorno che mi hai lasciato...’’

‘‘No, no, aspetta. Non siamo mai stati insieme.’’

‘‘Sì, non eravamo una coppia regolare, ma questo non toglie che mi hai lasciato. Il tuo silenzio mi ha fatto male. Non meritavo nulla, evidentemente. Ero la tua piccola, povera compagna di scuola. Incapace di studiare, distratta, cattiva.’’

‘‘Ti riferisci a quando ti ho baciato? Ma è passata un’eternità.’’

Non sono in grado di sostenere il confronto. Mi rifiuto di ammettere che tutti i guai accaduti nell’ultimo mese dipendano dalla ripicca di un’adolescente tradita. È assurdo. Forse questa vendetta si mescola ad altre circostanze, è un maremoto in ritardo, causato dal sovrapporsi di minuscole stranezze.

‘‘Io cercavo almeno un rifiuto. Quando mi hai abbracciato, ho pensato che finalmente eri vicino. La tua aria di superiorità, lo sguardo svagato, che sorrideva per un attimo agli amici e poi ripartiva, come se tu avessi le chiavi di un paradiso personale...’’

‘‘Paola, smettila. Stai farneticando.’’

‘‘Davvero? Vuoi un esempio? Eravamo in terza, e mancava poco al compito in classe, una prova difficile. Ti ho chiesto come mai sembravi così tranquillo. Hai risposto che le tue preoccupazioni erano di un ordine diverso. Sì, ricordo perfettamente. Un ordine diverso. Non sai quanta impressione mi hanno fatto queste parole. In aula, non avevo la forza di iniziare. Dovevo inventare un mondo che somigliasse al tuo. Più in alto delle nuvole, là dove i pensieri si rincorrono senza fatica e i problemi hanno bella e pronta la loro soluzione. Per la rabbia, ho spezzato una matita.’’

‘‘No. No, mi sono completamente dimenticato. Ma era una sciocchezza, un modo per vantarmi. Succede, quando si è ragazzi.’’

‘‘Eppure, io sono come te. Ero infuriata proprio per questo. Quando mi hai lasciato, senza neanche avere il coraggio di spiegare, non sono stata capace di odiarti, anche se non ho dormito per una settimana intera. Poi, ho pensato che avevi ragione. Se il tuo comportamento era giusto, bisognava copiarti. Entrare in un ordine diverso, appunto.’’

Comincio a collegare gli episodi. Ma lei non è affatto impazzita, anzi. Nell’ansia di emularmi, ha bruciato velocemente i passaggi intermedi.

‘‘Dopo la maturità, ho superato l’esame di ammissione alla scuola del ministero. Lì, per vie interne, sono stata promossa... La tessera di giornalista è una semplice copertura, come avrai già capito.’’

Sorrido a malincuore. ‘‘Bene, significa che ti ho costretto a fare carriera. E ci sei riuscita. Comandare un gruppo di terroristi è un lavoro di grande responsabilità.’’

Sta rallentando. Prende le curve dolcemente, perché siamo quasi arrivati al Capo. Il golfo si allarga, sciogliendosi nell’Egeo punteggiato di isole. Vorrei spiccare un salto, come un Icaro reso prudente dagli anni, mezzo uomo e mezzo angelo, abituato a sfiorare il pelo dell’acqua, a restare lontano dal sole.

‘‘Non siamo terroristi. Tu, piuttosto, sei molto imprudente nella scelta delle amicizie. Se non fossimo intervenuti, prima o poi ti avrebbero ucciso.’’

‘‘Non credo. C’era pace tra me e Yannis.’’

‘‘Sei libero di illuderti.’’

La spider imbocca un viottolo sterrato. I sassi battono con fragore contro lo chassis, mentre i rami degli arbusti mediterranei vengono spostati dal parabrezza. Scendiamo in fretta, e questa accelerazione mi spaventa un poco. Mi aggrappo alla maniglia della portiera, cercando di scherzare. ‘‘È un rapimento? Devo telefonare al mio avvocato?’’

Frena con un colpo secco di pedale. Tutto nasce in riunioni misteriose, dove mani febbrili consultano le mappe militari nella speranza di prevenire ogni contrattempo. L’automobile si adagia con uno sbandamento languido, fermandosi all’estremità di una piazzola da cui si ammira uno splendido panorama. La boscaglia ci nasconde completamente.

‘‘Bello. Non sapevo fossi anche una guida turistica.’’

Lei si toglie il foulard e si spazzola i capelli con le mani. La polvere bianca sollevata dalla manovra si allarga intorno a noi senza toccarci, come la nebbia che precede l’apparizione di un dio. Le cicale intonano un canto assordante, battendo ciascuna con ostinazione sul proprio tamburo, nella certezza che occorre un suono definito e corale per testimoniare la realtà dell’esistenza. Tanta fatica, e sono invisibili.

‘‘Così, ti ho spiegato come stanno le cose. Come stavano, anzi. Il passato è passato.’’

‘‘Dunque? Soddisfatta?’’

Scuote la testa. ‘‘Non è il termine giusto. Tu non sei cambiato. Forse sognavo di trovarti diverso, in modo che la tua vita smentisse la mia, o viceversa. Invece...’’

‘‘Invece?’’

‘‘Uguale. Sei uguale. Hai fatto parte di una compagnia pericolosa senza neppure accorgerti dei rischi che correvi. All’inizio ti credevo responsabile dei loro traffici. Poi ho concluso che l’avidità non è un tuo difetto. Quando quella poveretta è morta, dopo averti scagionato cento volte, la tua posizione si è chiarita. Come al solito, non guardavi fuori. Io, per raggiungerti, mi sono specchiata in te. Sai, quando si provano i gesti davanti allo specchio, quando si controlla a tavolino un’azione che sarà vincente solo se verrà eseguita al meglio... Ho seguito il tuo modello, ma l’ho rovesciato. Mi sono rivolta sempre all’esterno. La stessa lucidità che tu usi per affrontare un mondo fantastico mi è servita per combattere i nemici, disarmarli, bloccarli. Non ho più nulla di privato, di mio. Ma almeno sono cosciente delle cose che accadono.’’

‘‘Perché? Secondo te, io sono confuso? Sciocco?’’

Apre il cassetto e indossa con grazia un paio di occhiali posati sopra un registratore, accanto ad un nastro. Il cassetto rimane aperto, gli occhiali coprono il suo sguardo. Scandisce puntualmente la risposta.

‘‘Tu appartieni a un ordine diverso, no? Prendi nota dei minimi dettagli, ti prepari per l’interrogazione decisiva e ovviamente dimentichi di osservare le altre persone. Un’altra prova? Al funerale di tuo padre hai ignorato la mia presenza.’’

Sento un leggero brivido, che sale dalla schiena e finisce sulla nuca. Il mare riflette i bagliori della luce pomeridiana, dividendo i raggi in macchie rotonde che galleggiano come olio brillante perduto da una baleniera. ‘‘Ma... Non sei venuta a salutarmi.’’

Esita, osserva l’orologio, si volta come se aspettasse l’arrivo di qualcuno. Sembra ancora dispiaciuta. Le sue dita sono lunghe e sottili, quasi fossero allenate a regalare accordi ai tasti più lontani.

‘‘Ero vestita di nero e volevo evitare la gente che non conoscevo. Tuoi parenti, suppongo. Mi sono appoggiata al marmo di una grande tomba. Era ridicola, squallida, antiquata, qualcosa di gotico e di barocco, statue di bambini velati, un teschio con la falce. Leggevo le scritte sopra le lapidi per ingannare il tempo e nascondere l’imbarazzo. Una diceva, più o meno: - Per Antonio, che ci ha sollevato dalla fatica. - Mi è venuto da ridere, e ho finto di starnutire. Ma tu non mi vedevi. Eri distratto da una ragazza, una biondina con la giacca verde che continuava a stringerti. Non piangevi, anzi, non soffrivi affatto. Secondo me, non hai mai sofferto.’’

‘‘Adesso sei ingiusta. Ero totalmente sconvolto. Una morte dopo l’altra...’’

‘‘Sì, mi rendo conto. A quell’epoca non immaginavo che avrei incontrato tanti cadaveri.’’

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Quest’ultima frase cade come un macigno a interrompere il nostro discorso. Siamo entrambi esausti, e il silenzio è un pretesto per tamponare le ferite e lavare i graffi, alla ricerca di un riposo provvisorio.

Gli insetti si sono calmati, forse distratti dal vento che prima era debole e ora cala sulla costa con una certa forza, senza rinfrescare l’aria. Vorrei afferrare una bacca rossa appesa al ramo. Ho sete, e l’eventualità di scoprire una sorgente o un ruscello d’acqua pura è molto remota, tanto più che il torpore mi inchioda all’interno della spider.

I minuti trascorrono così, mentre il tramonto incombe sulla Grecia. Imprigionato nella sosta, ripeto silenziosamente che mi sbarazzerò dell’isola, fuggirò in Asia, venderò tutte le proprietà. Ogni soluzione è preferibile al ritorno. Visiterò l’India, salirò a piedi sulle montagne del Nepal, visiterò i sapienti di cui Rajiv mi ha parlato, uomini che digiunano, meditano e levitano dopo aver rinnegato le miserie occidentali.

Purtroppo, il consiglio viene da una voce debole, una delle tante che oggi si disputano i miei pensieri. Quanto a Paola... Lei ha compiuto la missione. Non dò troppo peso alle sue critiche, ma la bottiglia si è rotta e niente potrà più tenerla unita. Anche l’amore è un miraggio, se davvero non mi sono accorto dei sentimenti più semplici, se nella mia vita c’è posto solo per le superfici o per la massima profondità, e nulla in mezzo. Infatti, la villa in cui abito è una serie di luoghi estremi, le antenne e il terrazzo, il computer e l’abisso. La statua di Atena sembra una decorazione banale, ma allude anche al mistero più alto, irraggiungibile.

La dea non apre bocca, però, e si limita a intervenire di notte. Prima che questa storia iniziasse, ricordo di aver sognato un convoglio che sfilava accanto a me, seduto sulla panchina di una stazione sotterranea. Tranne una donna, la metropolitana era deserta. La stessa donna stava in ogni vagone, e ritmicamente mi passava accanto. Io avevo un ombrello e lo agitavo, per indicarle che poteva usarlo, riparandosi dalla burrasca. Lei, tranquilla, mimando una specie di alfabeto muto, rispondeva che sul treno non pioveva. Nemmeno una goccia di pioggia.

‘‘Paola, sei in partenza?’’

L’ho detto in un tono... Mi squadra, stupita, come se per un attimo le sue idee non fossero più tanto chiare. Ma si riprende subito e sussurra ‘‘Sì. Dobbiamo abbandonare il teatro dell’operazione. Non sottovalutiamo mai la minaccia di rappresaglie.’’

‘‘Quindi...’’

‘‘Glaukos ha organizzato la traversata. C’è un pontile, sotto. Vado a casa.’’

‘‘Hai anche una casa.’’

Sorride. ‘‘È un modo di dire. Vado in Italia.’’

‘‘Addio.’’

Sono diventato serio, quasi cupo. Mi viene in mente una canzone di qualche anno fa, un grande successo delle balere estive. La cantante era nera, statuaria, due gambe lunghissime e il desiderio di assomigliare ad una pantera. Le note seguivano il ritmo di un ballo sudamericano cadenzato da un suono di nacchere, poi, all’improvviso, lasciavano spazio alla melodia di un violino. Era un tango a metà, una coppia che danza e si ferma, un’esitazione struggente, un passo falso. Era l’ansia che ci ferisce quando gli indizi sparsi lungo le vie della città annunciano l’arrivo dell’inevitabile. Vorremmo fuggire, ma non possiamo.

‘‘Luca...’’

‘‘Sì?’’

‘‘Se ti interessa... Ascolta questo nastro. È la tua voce.’’

Obbedisco docilmente. Schiaccio un tasto e la mia pronuncia odiosa si diffonde nel bosco, disturbando gli animali e le piante. È un monologo inciso in un’epoca che non mi appartiene più, è fatto di pause, di entusiasmi vani, di farneticazioni. Sì, fino alla settimana scorsa questo era uno dei miei vizi abituali. Le registrazioni mi hanno portato alla rovina.

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‘‘Oggi, 10 settembre, è il compleanno di mia madre. Ho fatto celebrare dalle suore una messa di suffragio. All’uscita ho donato mille dracme a un mendicante che si era trascinato in chiesa a bella posta. Eravamo in quattro, Arianna, Marta, lui e io...

Dalla cima, l’isola si stendeva nel mare e le spiagge sparivano tra il verde e l’azzurro. Mi sono smarrito. A quasi due millenni da quell’istante, in cui mi sforzavo inutilmente di capire, un uomo santo delirava, immaginando che l’universo fosse sul punto di esplodere. Credo che la sua visione nascesse dallo spettacolo dell’ingiustizia. Una società in disfacimento collezionava i miti più strani, racconti di ninfe che si ostinavano a proclamare l’assoluto, azioni crudeli di truppe rimaste senza guida, sortilegi contrabbandati per verità nel rito della guarigione di zoppi, paralitici, lebbrosi.

Il sant’uomo si inginocchiava nella grotta, posando la bocca sulla roccia. Nessuno era in grado di assolvere la folla pagana alla ricerca affannosa di un nome e di una sicurezza. La natura era divelta, il patto antico si frantumava. I satiri e i centauri che infestavano le colline si erano trasformati in demoni, e le madri gridavano di terrore nel momento del parto...

Anch’io, qui, sono impaurito. Eppure non devo trascurare le scadenze. Devo ricordarmi di telefonare a Yannis, che pretende a ogni costo due navi. Mi ha annunciato il percorso: Genova, l’Algeria, poi Creta e il Golfo Saronico. Il carico sbarcherà a Brindisi, il 20 o il 21 ottobre. È la terza spedizione che fa scalo negli stessi porti. È sempre più difficile convincere gli equipaggi a lavorare per Yannis. Anche se paga bene...

Il sant’uomo era un sapiente. Aveva visto molto e aveva letto tutto. Iniziò a confondere il passato e il futuro. Il suo cervello esplose come un frutto maturato in una sola notte. Lui aveva quasi cent’anni, ma divenne giovane e incosciente. Urlava nella grotta, elencando le schiere di angeli che volavano a stormo sopra la Grecia per allestire il tribunale del giudizio. Rifiutò d’essere curato dalle schiave che gli porgevano stracci imbevuti d’acqua fredda, e cominciò a dettare.

Vennero riempite pagine su pagine. Nel buio, le esaminava al fuoco di una torcia e ne bruciava molte per il timore d’essersi sbagliato. Una lingua fiammeggiante gli toccava l’orecchio, costringendolo ad una specie di epilessia. Anche i fedeli del suo Dio erano stupiti, confusi: non ricevevano più conforto, né la remissione dei loro peccati. Le pagine diventarono un libro...

Un fax da Yannis. Continua a dare ordini, dimostrando uno strano nervosismo. Non mi fido di lui. Chiederò a Filio di prendere informazioni. Sì, è necessario.

Il santo era solitario, ed era pazzo. Rifiutava l’aiuto, anche se aveva bisogno di un giovane discepolo per terminare l’opera. Quando il libro venne rilegato in un primo, provvisorio codice, fu come se il dramma descritto nell’allucinazione fosse già avvenuto. Lui, esausto, crollò in un sonno profondo, convinto di aver cambiato la storia dell’umanità. Ora, ognuno sapeva quale destino era nascosto dietro il cielo azzurro. Gli dèi erano morti, i boschi erano vuoti.’’

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Vuoti... Il nastro si blocca, è arrivato alla fine.

Così, lei ha raccolto con pazienza gli indizi. Si è servita di me e ha usato le mie fantasie come una chiave. Era pronta ad arrestarmi, al minimo accenno di complicità.

Invece, si tratta di semplici divagazioni letterarie. Sospettavo qualcosa, ma non rinunciavo alla mia linea di condotta abituale: rimanere ai margini, per quanto era consentito.

‘‘Sono innocente, insomma.’’

Sollevo lo sguardo, ma lei non c’è più. Ha disegnato sulla ghiaia una serie di orme leggere che puntano verso un arco intrecciato nei rovi. Scendo dalla macchina, deciso a seguire lo stesso cammino, senza badare alle spine che ostacolano il passaggio.

Oltre l’arco c’è una scala di sassi, disposti con cura per facilitare la fuga. Conducono direttamente al pontile da cui è appena salpato un motoscafo bianco. Le eliche tracciano una scia di spuma che muore a pochi metri dagli scogli. Mi sembra che Glaukos mi stia salutando, con le braccia sollevate. Sì, è lui, il colosso; tiene una corda nelle mani, una fune da traghettatore.

Non ho il coraggio di attendere che la barca sparisca all’orizzonte, dove una nuvola appanna i colori della sera; preferisco risalire fino alla piazzola in cui ho ascoltato i suoi ultimi rimproveri. Qui, scopro l’ultima sorpresa, quella che non lascia scampo: sul cofano, in bella evidenza, c’è un biglietto arrotolato. Quando l’avrà preparato?

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3 marzo 1973 - Dell’amore addolcisce la stretta

il pensiero, dicendo che ogni caso

ritorna infinite volte, nella catena brillante

di Afrodite.

Chi l’ha scritto? E chi l’ha tradotto?

Un bacio, Paola.

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Sono quasi commosso. Tengo il biglietto tra le dita e scivolo nel sedile della spider. Anche se non ho molta voglia di reagire, accendo il motore e faccio retromarcia, ringraziando in cuor mio per il regalo. Controllerò presto il registro degli automezzi, nella speranza di infrangere qualche segreto, trovando la strada.

Forse, io e lei siamo condannati a correre l’uno appresso all’altra per le città e i paesi d’Europa. Scontiamo una colpa precedente, che dorme nella nostra memoria e di tanto in tanto si risveglia. Basta una parola, e siamo di nuovo insieme. Ma, appena l’incontro diventa importante... La luce si spegne, come una stella cometa perde la chioma lontano dal sole.

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Chi l’ha scritto? E chi l’ha tradotto?

Un bacio, Paola.

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Fine

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