Giovanni Sias

Lo specchio opaco

Sono uno psicanalista e non un critico letterario. La mia lettura delle Vite di Giuseppe Pontiggia non può dunque essere una valutazione dell'opera né del suo autore. Apprezzo molto Pontiggia: la mia stima per lui supera forse l'amicizia o, meglio, l'amicizia che sento è data prima di tutto dalla stima che provo. Non solo; mi lega a lui anche una sorta di reverenza, di timore. Il suo testo e la sua scrittura sono sempre capace di portarmi grandi emozioni e, soprattutto, riescono a fermare il mio pensiero. Non è mai una lettura d'un fiato, ma è puntinata da battute d'arresto in cui si inseriscono continue riflessioni. Mi fermano il tono, lo stile, il tratto leggero della frase, e anche il piacere che provo, mi ferma una qualche verità che mi riguarda e che si abbandona al pensiero. Mi ferma l'acutezza dell'interpretazione, che spesso mi consente di inserire nel testo di Pontiggia alcune riflessioni.

Non ho però nessuna pretesa interpretativa. Ho sempre sopportato a stento i Kris e i Gombrich: sono stati un pessimo esempio di psicanalisi e di critica. Tutti gli psicanalisti che si sono lanciati a interpretare gli artisti e le loro opere, a cui tanti critici e storici dell'arte hanno fatto da controcanto, hanno prodotto un guasto spaventoso alla psicanalisi, l'hanno volgarizzata e banalizzata, ridotta a chiacchiera vuota per la vacuità delle interpretazioni simboliche. Caro Giuseppe, come avevi ragione: chi ci salverà dai minareti nel deserto? Falli di un immaginario tanto stupido quanto utile a coltivare l'imbecillità personale e collettiva. E gli psicanalisti che si sono gettati nelle famose interpretazioni simboliche hanno solo allontanato la psicanalisi dall'arte, cioè dal suo elemento costitutivo. Perché non avremmo nessuna psicanalisi se non ci fosse l'arte. Temo che questo concetto così straordinariamente semplice sia rifuggito con orrore dai più, perché obbligherebbe ad abbandonare il comodo concetto farmacologico in favore del molto più impegnativo lavoro, che comporta l'assunzione di responsabilità anziché della pozione (compresa quella quotidiana di chiacchiere). Gli dèi immortali hanno posto il sudore davanti al successo.

Una volta abbandonata l'idea di poter interpretare un simbolo, abbandonata la banalizzazione della interpretazione simbolica, non ci resta che l'interpretazione della lettera. Qui ci accorgiamo che non è possibile


alcuna interpretazione della lettera, che non sia immediatamente la sua produzione in uno dei modi che l'arte ci offre. Questo è l'insegnamento ricevuto da Giuseppe Pontiggia, anche se lui non sa (forse) di avermelo dato. Il che lo assolve da ogni uso che ne faccio. Questo insegnamento mi ha permesso di cercare e trovare un'interpretazione psicanalitica che nulla ha a che vedere con i simbolismi o con le simboliche, strutturate oppure no (e non ho mai capito né so cosa voglia indicare questo termine, "strutturate''). Così, nella mia ricerca sono tornato all'arte con il compito che per lo psicanalista è originario, come Freud aveva inteso insegnarci: non è possibile alcuna interpretazione psicanalitica dell'arte, se non si vuole essere ridicoli, ma l'arte e l'artista ci indicano la via da seguire. Il cammino in cui noi psicanalisti ci avventuriamo ci induce a interrogare l'arte e l'artista, per coglierne la lezione e l'insegnamento nel percorrere la strada di una salvezza che non ci sarà e di una solitudine che nessuno potrà alleviare. Questa è la sola cosa che, con tremenda responsabilità, possiamo offrire a coloro che a noi si rivolgono per la loro esperienza d'analisi.

In questa solitudine non simboli interpretiamo, ma incontriamo la possibilità di produrre segni, lettere per noi; questo lavoro richiede uno sforzo di elaborazione, ricordando che tale antico termine indicava appunto lo sforzo del lavoro, la costruzione, l'applicazione con metodo e con rigore. Quel che l'artista fa ogni volta è di mostrarci le infinite possibilità di elaborare segni e la loro qualità.

Incontrando Pontiggia e la sua scrittura, credo di aver ritrovato il sentiero della psicanalisi, un sentiero non nuovo e rarissimamente battuto, ma ormai nascosto nell'intrico medico-filosofico coltivato dagli psicanalisti. Ecco la fonte della mia ammirazione: in una inattesa meraviglia Pontiggia mi ha indicato quella via che l'attuale teorizzazione psicanalitica non mostra e non indica.

Le Vite di uomini non illustri che Giuseppe Pontiggia ha pubblicato nel 1993 sono un testo prezioso per lo psicanalista. In primo luogo per la sua struttura. Racconti brevi accostati uno all'altro senza alcuna apparente relazione: piccole biografie racchiuse tra la nascita e la morte. Ma non tutte le nascite sono uguali, e così neppure le morti. Anzi, vi è un filo sottile, invisibile e indistruttibile che lega la nascita alla morte e che il personaggio del racconto, al pari di ogni persona, non può vedere e non può spezzare. Agli uomini è possibile solo avvedersene, vivendo così la propria esistenza lungo quel filo, in modo non solo accidentale e involontario,


ma al contrario operando con intelligenza, seguendo dunque una via più responsabile, più importante e forse anche più libera e felice.

Il dettaglio che regolerà la vita di ogni personaggio è legato al racconto della nascita. È come se in una ipotetica analisi il personaggio della biografia incominciasse il suo racconto dal ricordo della nascita; anzi, in quanto questa nascita non può esistere nel suo ricordo, se non per quanto gli è stato a sua volta raccontato, egli non può che aver attestato, e così avvalorare, qualcosa che lo ha colpito in modo particolare, facendolo entrare in un romanzo individuale (il che qualifica e definisce quel che Freud chiamava la nevrosi, che non ha niente a che vedere con la malattia nervosa o psicologica o dell'anima). In pari tempo, l'attenzione al particolare che lo ha colpito denuncia che egli già si trova in un racconto.

Ecco il primo dettaglio di grande importanza: ciascun umano esiste solo e soltanto in un racconto. Al di fuori, non c'è nessuna vita e nessuna esistenza. L'altro dettaglio, che potrebbe costituire una novità per gli psicanalisti, è che ogni morte è congrua alla nascita e non alle modalità in cui la vita è trascorsa.

Mi sembra abbastanza irrilevante che non ogni nascita dei personaggi delle Vite contenga il dettaglio del modo in cui si nasce (perché, sottolineo ancora, non è il fatto in sé a costituire l'importante dell'esistenza). A volte è una frase a restare memorabile, o un evento di particolare emozione. Questo la rende, al pari di ciò che si attesta nella memoria come racconto ed evento della nascita, elemento costitutivo dell'organizzazione materiale (della logica, se si preferisce) della propria esistenza.

Lo scrittore, ancora una volta, ha anticipato lo psicanalista, gli ha mostrato come si svolgono le vicende dell'esistenza. Le cose banalmente ritenute vere, reali, connotate da quella banale concretezza che la sociologia e la psicologia pensano di assegnare alle cose materiali della vita (il lavoro come dovere economico, la carriera come dovere impiegatizio, la famiglia come dovere sociale, le vacanze come dovere del riposo, lo sport come dovere sanitario, l'amore come dovere psicologico, scopare perché fa bene alla pelle...) attraverso doverose circostanze enunciate nella serie innumerevole dei luoghi comuni, trovano la loro inconsistenza, poste di fronte alla potente (e prepotente) immagine di come si è giunti alla vita, e al riconoscersi vivi che ne costituisce il corollario immaginario e perciò stesso indistruttibile, vera realtà, concreta e materiale essa sì, di un'esistenza che può essere votata soltanto al suo destino. La sola cosa che possiamo scegliere è come esserci dentro questa esistenza, visto che non possiamo esserne estranei, e neppure rifuggirla, nemmeno per via di


scienza. È del concetto freudiano di inconscio che sto parlando, un pozzo sotterraneo e profondo solo per coloro che vi cadono dentro.

Il funzionamento dell'inconscio è naturale per lo scrittore; egli non ha bisogno di indagarlo come fa lo psicanalista. Questa naturalità consente allo scrittore (all'artista in generale) di anticipare lo psicanalista. Lo scrittore sa già come funzionano le cose e può costruire il suo racconto; il racconto ha un'incidenza sul lettore perché vi sono contenute, e per ciascun lettore sono reperibili, verità che altrimenti non avrebbero valore. Se tali verità acquistano valore è in quanto sono effettuali. Anche lo psicanalista può arrivare al racconto, ma la differenza è che egli può scriverlo solo dopo averlo ascoltato: lo scrittore non ha bisogno di questo, può semplicemente immaginarlo, così come immagina lo svolgimento e l'epilogo della storia. Occorre dire che anche lo psicanalista, se non fosse scrittore, e dunque se non avesse appreso l'arte, non potrebbe scrivere alcuna storia. Egli, non potendo derivare tutti i dettagli dal racconto di colui che fa esperienza di analisi, copre le sue lacune mediante congetture. Queste congetture gli derivano pur sempre da una storia raccontata. Occorre però che tali congetture siano sistemate nel racconto attraverso le regole del racconto, le regole interne alla scrittura; in caso contrario il racconto clinico dello psicanalista non avrà alcuna efficacia. Allora, la clinica è quel che separa lo scrittore dallo psicanalista, ma la congettura (che è un risvolto, una parte della clinica, senza cui la clinica stessa non potrebbe esistere) li riunisce e fa sì che ogni storia clinica sia anche un romanzo o una novella.

Lo scrittore attraverso il suo sapere naturale, la sua psicologia intuitiva, non ha alcun bisogno di un'indagine psicanalitica (a meno che non ne sia personalmente interessato). Gli è sufficiente far agire il suo sapere, elaborando le proprie esperienze e quel che incontra, per unire con rigore logico e con scienza (nel senso di costruire attraverso quel che si è inteso) gli elementi di un romanzo in cui svolgimento ed epilogo rispondono a una costruzione in merito alla vita degli umani, in tutte le loro infinite possibilità. Il lettore, tratto nel giro di un racconto che non lo vede personalmente coinvolto, lungo quel godimento che Freud definisce estetico, si interroga, prova emozioni, ride o si commuove. Partecipa, con il proprio sentimento e il proprio intendimento, allo svolgimento e alla costruzione del romanzo. In qualche modo, nella diversa dimensione della lettura, entra egli stesso nella costruzione, partecipando a sua volta al gioco dell'intreccio letterario.

Se il primo elemento di interesse sta nello svolgimento del racconto


breve, il successivo risiede nello stile. Qui Pontiggia ritrova i modi del discorso che, oltre ad essere i più consoni ai personaggi, li definiscono. Più che la sua descrizione è infatti il linguaggio a presentarci il personaggio. Pontiggia ha potuto stendere dei racconti brevi solo perché ha evitato le descrizioni, limitandole al minimo indispensabile. Ma l'immagine che si ricava dalla lettura è data solo dal linguaggio. Pontiggia ad esempio descrive, lungo una biografica datazione (quasi diaristica), la caduta di Jolanda dalle braccia della sorella: "Il problema, dice la psicologa, è di capire che cosa voleva inconsciamente, tenendo conto che si trovava in cima a una scala di dodici gradini''. Ora, questo linguaggio non appartiene allo scrittore, cioè a Pontiggia, ma neppure appartiene alla psicologa citata nella frase; può essere solo dei genitori, e in particolare della madre, di cui si parla nel racconto intitolato Bertelli Claudia. Le descrizioni dunque sono svolte attraverso modalità linguistiche che appartengono al personaggio; non sono presenti come intrusione del narratore ma come dettaglio della storia, come se essa si svolgesse realmente. Il libro dunque non ricalca in nulla, se non in uno stratagemma, le biografie. Ogni racconto è l'evoluzione di una esistenza a partire da un particolare dettaglio. Il narratore però non la racconta; essa si svolge, ed è riconoscibile, attraverso il linguaggio dei personaggi.

Ma allora, che differenza c'è tra una storia di Pontiggia e quella di un caso clinico? Viene da pensare che non ve ne sia nessuna, tranne il tratto (rilevante solo perché fa di Pontiggia uno scrittore e non uno psicanalista) che quelle storie non le ha mai ascoltate, solo inventate. Le Vite di Pontiggia sono senza dubbio inventate, tranne almeno un particolare, che appartiene invece ad una persona che Pontiggia ha avuto modo di conoscere: sul dettaglio viene costruito il personaggio e la sua storia. Rispetto alla storia clinica le parti si invertono mostrando la loro complementarità. Perché il dettaglio dello scrittore prende il posto della storia che lo psicanalista racconta (e che noi presumiamo vera, al pari del dettaglio dello scrittore, solo lungo un equivoco), mentre la storia dello scrittore (che sempre lungo un equivoco presumiamo immaginaria) prende il posto della congettura attraverso cui lo psicanalista copre le lacune della storia che ha ascoltato. A questo punto le cose si ingarbugliano un poco. La storia che lo psicanalista racconta, infatti, non è affatto vera. Ogni psicanalista che si rispetti non usa registratore e non prende appunti: seguendo l'esempio di Freud, dedica tutto il suo tempo ad ascoltare e a lasciarsi trasportare dai pensieri che l'ascolto trascina con sé. Dopo, in un altro tempo, quando non c'è più un parlante da ascoltare,


lo psicanalista traccia i suoi appunti oppure scrive direttamente la storia, allo scrittoio, nel silenzio, dove un'altra voce chiede ascolto. Qui nasce la "storia clinica''. Prima di questa scrittura non esiste, né può esistere, nessuna storia e nessuna clinica. Non è per nulla sufficiente (anche se allo psicanalista è necessario) ascoltare il racconto di una persona che fa esperienza d'analisi per dire che c'è storia. Essa esiste solo nel momento della scrittura, quando lo psicanalista si trova in quel tempo in cui ascolta quell'altra voce che lo induce a raccontare a sua volta ciò che ha ascoltato nel tempo della seduta. A questo punto, e solo ora, lo psicanalista può interpretare; la chiamiamo interpretazione perché elabora i segni che scrivono quella storia che prima non esisteva.

Allora il racconto di colui che fa esperienza d'analisi diventa storia. Ma nella scrittura capita che si debba rispettare la regola di una "falsa'' coerenza, obbligata da quella funzione intellettuale che richiede unità, coerenza e comprensibilità, regola che impone il suo dominio su tutto il racconto. La sola "vera'' coerenza possibile, dunque, è quella del testo. Accade invece che gli psicanalisti, nella stesura di un caso clinico, usino il racconto in modo servile, come se dovesse comunicare alcuni dettagli che hanno l'onere di supportare le conclusioni. In tal modo molti pensano di costruire un testo che abbia valore "scientifico'', in cui il racconto si presenta per "vero'' semplicemente escludendo le regole del romanzo e introducendo una sorta di cronaca quasi giornalistica, in cui bisogna presentare i "dati'' e i "fatti''. Vi è, in tutto ciò, la sciocca convinzione che la presunta verità sia garante della bontà delle conclusioni e anche della loro oggettività. Si tenta di far passare per "scientifico'' tutto ciò che invece appartiene all'immaginario dello psicanalista in merito ad un caso clinico divenuto ormai un malinteso: infatti, non è più la storia ad essere diventata clinica, ma clinica è diventata la conclusione che sarebbe tratta dalla storia, ovvero l'interpretazione simbolica, formulata per di più con pessima lingua. Nel testo psicanalitico postfreudiano è rara la "storia clinica'', e la clinica si è trasformata nella parvenza di scientificità di cui si ammanta la conclusione dello psicanalista. (Mi accorgo ora di ciò che ho scritto, ma credo sia proprio cosi: conclusione dello psicanalista, nel duplice senso di conclusioni che egli trae dalla storia che racconta, e di conclusione del suo essere psicanalista). La storia clinica, al pari della novella o del romanzo, non ha bisogno di essere verosimile né ulteriormente interpretata in chiave simbolica. Ha bisogno solo di essere raccontata, attraverso le regole della scrittura e con lo stesso rigore logico del romanziere. E l'effetto sarà lo stesso prodotto dal grande


scrittore, in cui il lettore può trovarsi coinvolto nel movimento (l'emozione) dell'eroe; il contratto che si stabilisce tra lettore e testo è un gioco in cui nulla ti può accadere. Il grande romanzo non è dato dalla storia raccontata, ma dalla qualità del racconto. È vero, lo psicanalista ha a disposizione anche il saggio, ma la questione della qualità dello scritto resta. Riguarda l'attenzione e l'amore per la lingua, al di fuori dei quali è difficile avvertire che c'è scrittura e che c'è psicanalista, allo stesso modo in cui si avvertirebbe che non c'è scrittore. Non creda lo psicanalista d'essere più efficace nel suo testo regalando gratuite interpretazioni derivanti da brandelli di racconto, pensando che la verosimiglianza del racconto sia garante della verità dell'interpretazione. La verità giunge da altri luoghi, ed è sempre inaspettata. Sta nell'emozione, ovvero in quel movimento che porta il lettore verso il personaggio, nel momento in cui avverte che ciò che legge lo riguarda in un qualcosa. Ricordiamoci della forma di scrittura che Freud trova nella stesura del Mosè e la religione monoteistica, quando avverte la fusione tra storia e libera invenzione, il cui prodotto più alto è l'inverosimilità della verità.

La "storia'' è clinica non perché contiene spiegazioni, giustificazioni o interpretazioni, ma solo in quanto è presa a prestito da una persona che allo psicanalista si è rivolta per raccontare il proprio romanzo individuale, nel tentativo di dare una torsione differente alla propria esistenza, volendo scrivere un epilogo che ancora non conosce e che non può appartenere a quel che già conosce e le risulta insopportabile. Lo psicanalista scrive il suo romanzo a partire dall'ascolto di questa storia. Egli non ha il dono del romanziere, non può creare, non può immaginare un'esistenza con lo stesso rigore logico, lo stesso sapere naturale del romanziere. Ma non può scrivere alcunché di pregevole e apprezzabile se non opera come lo scrittore, attraverso le regole del romanzo e della scrittura. Non mancano alti esempi nella letteratura psicanalitica, basti qui citare il libro di Wilfred Bion Memoria del futuro. Il sogno, in cui è impossibile tracciare il confine tra interpretazione e romanzo. Il romanzo è interpretazione, perché non ha bisogno di ulteriore spiegazione, esattamente per lo stesso motivo per cui il cattivo testo psicanalitico, come il cattivo romanzo, non è interpretazione. O, se si vuole, è cattiva interpretazione, e il lettore resterà sulla soglia non potendo avventurarsi oltre. Avverrà come nella relazione tra lettore e personaggio di un fotoromanzo o di un modesto romanzo d'appendice, quando il lettore (altrettanto modesto) si appaga di restare dove si trova, nel regno della fantasia.

Il titolo del libro, Vite di uomini non illustri, consente altre riflessioni.


Ricordo che Pontiggia me lo sottopose insieme ad altre due o tre proposte. Lui era già propenso alle Vite, ma io consigliai un altro titolo, che mi sembrava più adatto. A mia discolpa posso dire che non avevo letto il manoscritto perché, dopo averlo letto, è difficile pensare ad un titolo più appropriato. È ricalcato sul modello delle Vite di uomini illustri, e la semplice aggiunta della negazione ci introduce in una grassa terra generosa. Chi sono gli uomini illustri? Coloro che hanno compiuto cose importanti, per cui hanno meritato fama, onore, rispetto. Ma è sufficiente questo? No, occorre che qualcuno illustri una vita ad altri: una vita diventa illustre solo se qualcuno ne fa argomento del proprio interesse e se ne appropria, la racconta, la consegna. Si dirà che a rendere illustre la vita di un uomo sono le sue opere. Ciò non toglie tuttavia che esse vengano raccontate; diventa anzi un dovere il raccontarle, affinché le opere confondano la vita con il mito, e il racconto passi da una bocca a un'altra, introducendo sempre novità, nuove illustrazioni.

Il titolo Vite di uomini non illustri diviene così comico e lirico insieme. Di una comicità straordinaria e assai sottile, che traspare dalla fotografia in quarta di copertina, dove la faccia ridente di Pontiggia, dagli occhi divertiti di un Belfagor che sembra materializzarsi da uno specchio opaco, spicca sopra la frase di Santayana: "Tutto, in natura, ha un'essenza lirica, un destino tragico, un'esistenza comica''. Forse Pontiggia ride perché si è appropriato di questa frase trasformandola nelle esistenze immaginarie che egli non rende illustri, proprio perché prive di opere e, sempre nell'immaginazione, prive di realtà storica. Ma è una realtà assai più concreta e materiale che Pontiggia esplora e che rende ragione del lirico, del tragico e del comico. Parlo della realtà del linguaggio, in cui ogni uomo è, e attraverso cui illustra a se stesso e ad altri la propria esistenza. Anzi, possiamo esserne certi, non v'è altra esistenza che non sia quella nel linguaggio, involucro formale di un sintomo intorno al quale si snoda un'esistenza, con le sue emozioni, gli amori, gli odi e i tradimenti, i sogni, le angoscie, le avventure, l'anelito di libertà. E il ricordo rende memorabile un gesto o una frase che restano impressi come marca dell'esistenza.

Stiamo parlando di un sintomo che non ha alcuna necessità di abbandonarsi alle sintomatologie e alla loro descrizione, evidente volgarità di fronte alla creazione del romanziere. Volgarità, perché i sintomi non sono più individuabili come intrusi rilevati (o rivelati?) dalla sistematica di una patologia, ma sono realtà, uniche e singolari. Qui sta il comico: Pontiggia avrebbe infatti potuto scrivere infinite Vite, così come infinita


è la varietà dei sintomi, senza aver bisogno di personaggi illustri di cui parlare. Qui non si parla di uomini. Si parla di sintomi, del loro involucro formale che è il linguaggio, traccia di cui gli psicanalisti dovrebbero ritrovare il gusto e il piacere. E il sintomo ne sa sempre una più del diavolo. Al diavolo non resta che ritornare di là dallo specchio opaco, da dove è venuto, cosciente di poter compiere a suo piacere nuove incursioni nelle vite degli umani, al fine di carpirne il segreto. Illustre è diventato il sintomo (e ci voleva il romanziere perché questo accadesse), e non l'uomo che altro non è se non il risultato del lavoro del sintomo, come Freud ha cercato di raccontarci in modo schietto e inusuale nella Introduzione allo studio psicologico su Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti.

Gli uomini vivono sostenuti dal loro sintomo, che organizza la loro esistenza rendendola più o meno degna d'essere vissuta, con i suoi slanci lirici, la comicità delle azioni importanti e delle credenze più radicate, il suo destino sempre tragico. Una vita che persegue una meta già scritta nella sua origine, e che la consapevolezza non può cambiare. Può però renderla più intelligente, introdurvi il riso, portarvi libertà e felicità. Soprattutto può scriverla, nel tentativo di avvicinarsi alla sua essenza lirica, ritrovando nell'involucro del sintomo la traccia che forse potrà sopravvivergli.


Sesta parte

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