Intervista a Carlo Alberto Sitta

È possibile dare uno sguardo d'insieme sulla poesia che oggi si scrive?

Il colpo d'occhio riesce sempre, ma è il guizzo di un lampo fra le nubi. Noto la difficoltà, che non è solo editoriale, a produrre l'antologia o lo studio complessivo della poesia italiana. Mi pare che le ultime, e non sempre meritorie, antologie d'insieme siano di una quindicina d'anni fa.

Nel frattempo molti (anch'io fra questi) hanno costruito raccolte parziali, spesso tematiche, non prive di interesse. Non so poi se lo sguardo d'insieme spetti alla critica o appartenga anche al senso del presente che abita in ogni poeta. Mi sembra che l'idea stessa di "sistemazione'' susciti una speciale diffidenza.

Esiste un tono prevalente che caratterizzi la poesia nella fine del millennio?

L'argomento della "fine del secolo'' (o del millennio) era più avvertito, e trattato, negli Anni Sessanta. Oggi il Duemila è già trascorso per noi. Non so fino a che punto i poeti siano consci della mutazione silenziosa avvenuta nel frattempo. Siamo di fronte a qualcosa che appartiene all'ordine degli accadimenti, a qualcosa di una natura così traumatica e irreversibile che devasta la nostra saggezza, la fiducia retorica e psicologica nella poesia che scriviamo. La nostra diffidenza innalza muri contro i fatti, ma si consola con l'adorazione delle parole.

È lecito riproporre oggi una strategia poetica?

Non credo sia utile parlare di finalità, in senso generale, né di una finalità particolare... Qualcosa ci trattiene dal nominare il fondamento, che sarebbe la strategia somma. Forse un pudore nuovo ha distratto la nostra attenzione dai grandi temi. Mancando una visione politica, anche le strategie puramente testuali stanno tessendo cornici senza tela.

La tua rivista di poesia, STEVE, ha compiuto quindici anni. Vale sempre per te l'impegno assunto al momento della sua fondazione?

Sì, anche se proprio questi quindici anni contraddicono ogni idea di opera o iniziativa di gruppo. Se avessi voluto semplicemente una rivista-


vetrina, una esposizione di materiali poetici, non avrei avuto che l'imbarazzo della scelta. Il fatto è che la sequenza di "buone poesie'' è oggi lunghissima, e per ciò stesso illeggibile. Nella mutazione storica presente stiamo verificando l'anonimato dell'autore, all'interno di tutte le infinite varianti della "buona testualità''.

Può esserci una scena speciale per la poesia che oggi si scrive?

Il teatro è una delle vie più affini e praticabili per la poesia. Comporta una diversa idea di scrittura, e logicamente anche un'idea della sua possibile rappresentazione. Non penso ad un teatro in versi, ma ad una capacità di lettura linguistica che recuperi, applicandola, tutta la sapienza "gestuale'' di certe poetiche d'avanguardia. Anche STEVE dovrebbe potersi leggere come un copione o come uno spartito. L'idea è quella di una poesia che sia in grado di farsi ascoltare. Anche a costo di contaminarsi, rompendo il suo isolamento dagli altri linguaggi.


Davide Stimilli

*

T'amo

temo

te a male

estremo

rimedio

estremo

chiamo

e tremo

*

Mio padre

impotente

come creasti

il cielo e la terra?

Mayagüez

Idillio

Dalle ventane

senza vetri

o persiane

grate

o veneziane

trae

un aliento

senza mutamento

un alito di vento

Fuori

all'aliseo

sventola

la banderuola

*

Exile / Permutazione

Né mai più toccherò

le sacre sponde

Ugo Foscolo

No more to touch

what we once touched

and nothing else to touch

nor to be touched again

once we have been touched


Ida Travi

Fra i vivi

Quando gli uccelli in schiera, in schiera gli uccelli tornarono, il cranio battendo, tutto il mondo ne frantumò. È una questione di pane, non è per questo, dunque per questo vive.

Se il fiore azzurro abitava, l'inverno nasceva così. Novanta e nove, le sere nevicate, si alzavano di notte con il lume, entrava lì in quel tratto, di fiume la sua spada.

Prima toccava poi zitto ne moriva. Chiede se qualcuno può fare qualcosa. Non sanno concepire, neppure si può dire, se fingono o dentro nell'acqua dormono, mentre riversi mostrano, l'oscura pancia di rana.

Alza la testa, ah questa luce. La grazia non ha un attimo di posa. Basta guardare. Prende ad arretrare, nel gelido inverno mostra le mani d'oro, le mani d'oro rinserrano, i fiocchi sfuggiti al fuoco.

..

Chiunque baciò una terra vedrà sulla mano sorgere un respiro, o giudica tu, se il mese venturo l'upupa disse, se il muto serpente tornando disse - batti la via d'un terzo, non pronunciare il termine io.

Scioglie i capelli al sole, di cera lo scritto sigillò col cuore, ogni viandante giungerà smarrito al limite estremo della sua provincia, getta così il mantello, o meraviglia, i cento uccelli in preda allo stupore.

Viene il secondo dei due. Il volto del papavero porge, la buia medicina, raccoglie lì nel vaso la polvere dei suoi piedi.

Svettano intoccabili le torri oppure le terribili, radici. Se vede che il mortale porta la sua tazza, solleva il lembo della guancia rosa, fa entrare di diritto l'altro mondo. È una dimora immensa la punta del suo dito, quasi gemma.


Rumore di tosse, canneto. Avanzano zitti fendendo nell'acqua il viso, così che s'affaccia il muto, il gemello, guarda - s'affaccia, con le ferite rosa.

Dorme, non sogna, col fiato in gola, lui mangia e dorme, si leva e dorme. Ha il suo lenzuolo, il suo manto, e suda.

Lontano nel mare pesci bambini, tutto l'azzurro s'incensa, il peso dell'acqua brucia: la madre venne, così com'era, era furiosa la salvatrice, aprendo la casa, muta.

Piena di grazia la gonna. Così se qualcuno ti prega avrà le ginocchia nuove. Tu porta il sacchetto del pane. Sono la fascia che avvolge il petto, sono dimora. Se una tovaglia si sfalda, giungi le mani dure.

..

Dato il secondo, chiama i suoi figli a sé. Così li protegge dalla radura. Copre d'un soffio la sacca, il cappello, - muoio di sete, ho fame - sotto il deserto guarda la solitaria, via.

Quando fa udire il suo là là là punta col dito il sasso più chiaro, i piedi ne tremano ancora, l'hai visto in faccia, è roccia, e se il fazzoletto è rosso, il luogo è davvero natale.

Voi padre, voi madre restate. Dov'è il mio lenzuolo, la mia pettinina, dov'è? Voi piccoli andate, voi fate, come vi dice il tamburo.

Cuoce il suo riso, siede, se bussi alla porta invita. Così si ravviva l'addormentato, se tocca il piatto sogna, se tocca il piatto arrossano le mani, le giunture.


Paolo Valesio

Romantiche allusioni

Non so se vi sia ancora posto, nel mondo della rispettabilità intellettuale, per coloro che osino pensare il cinema come, essenzialmente, un veicolo di corruzione. Non primariamente corruzione sessuale (a parte il problema, tutt'altro che indifferente, del voyeurismo); ma profonda corruzione culturale: una pervasiva diseducazione a vedere il mondo, una degradazione dello sguardo. Certo non vi è luogo per tale pensiero alternativo nell'ambiente di quelli che negli Stati Uniti si chiamano "Film Studies'' - uno dei settori più ideologizzati nel mondo della cultura universitaria. Ma, prima di essere accusato di oscurantismo (che forse non è poi un'accusa così infamante, viste le magnifiche sorti e progressive delle scienze umanistiche oggi), mi affretto a sottolineare la frase usata sopra: pensare il cinema. Sto parlando, cioè, di una maniera diversa di studiare l'opera cinematografica - non di ignorarla o di dirne male.

Il cinema infatti dà vita, nei suoi esempi migliori, a una forma di corruzione raffinata, sistematica, rigorosa. Insomma la settima arte è, se non diabolica, almeno sulfurea - ma sempre arte è; come tale, meritevole di attento studio. Non mi pare, francamente, un paradosso, se non rispetto a una visione moralistica dell'arte. Lo studio che io propongo, invece, è estetico / etico - all'insegna di quella che alcuni definiscono un'etica della contingenza. E forse sarebbe meglio parlare di corrompimento invece che di corruzione, poiché quest'ultima parola è troppo evocativa di quell'aura moralistica che qui si vuole evitare.

Il film come arte del corrompimento della visione ha una sua etica - più o meno professionalizzata (cioè tecnicizzata), molto relativa, molto legata alla contingenza (come dice proverbialmente l'inglese: "There's honor among thieves''). Ma è tempo di affrontare la pratica, banco di prova di ogni teoria. Una teoria del cinema come corrompimento della visione, e più in generale della lettura di segni, potrà nascere soltanto da una serie di analisi specifiche dedicate a film particolari. Questo discorso generale, dunque, potrà articolarsi seriamente solo nella modestia di una serie di recensioni (d'altro canto, nessuna recensione si pone come atto veramente critico, se essa non sottende una teoria).

Il film più recente di Anthony Minghella, "The English Patient'',


basato sul romanzo omonimo dello scrittore di origine olandese-singalese Michael Ondaatje (pubblicato originalmente da Random House nel 1993), è uno di quei casi sempre più rari nella cinematografia hollywoodiana che sposano il successo di critica con quello di pubblico.

Ed è un successo essenzialmente meritato, perché il regista è riuscito a combinare abilmente il linguaggio verbale (la sceneggiatura compilata da lui stesso mantiene l'eleganza linguistica della narrativa di Ondaatje) con quello visuale (lo splendido lavoro della macchina da presa sotto la direzione di John Seale), senza dimenticare il linguaggio musicale (la colonna sonora di Gabriel Yared mescola l'elemento wagneriano, che è la lingua franca delle colonne sonore, con lamentanti tocchi mediorientali). Soprattutto, Minghella è riuscito a rendere plausibile una narrazione di tipo melodrammatico con radici ottocentesche. Infine, questo regista ha ottenuto l'armoniosa collaborazione di un gruppo di attori di alto livello, anche se nessuno di loro - e meno degli altri la coppia dei due tragici amanti - ha quella presenza tra l'incantevole e l'ossessionante che la logica (o meglio, il cuore) di una simile storia essenzialmente richiede; forse tale presenza non è più possibile nel cinema contemporaneo mentre, ironicamente, essa aveva raggiunto il culmine proprio in quegli anni trenta che il film tenta di evocare.

La storia - che lo spettatore lentamente ricostruisce dai continui stacchi o movimenti di andata e ritorno da un filo all'altro della trama - è quella del conte ungherese Almásy (Ralph Fiennes) che realizza verso la fine degli anni trenta un'importante scoperta archeologica: una caverna nel deserto sahariano le cui pareti sono ricoperte di arcaici dipinti di nuotatori. Fra gli archeologi e geografi suoi collaboratori vi sono i coniugi Geoffrey e Katharina Clifton (interpretati da Colin Firth e Kristin Scott Thomas). Presto il conte Almásy e Katharina divengono amanti. Il marito compie un disperato tentativo di suicidio / omicidio in aeroplano, intendendo cancellare dalla faccia della terra se stesso insieme con gli amanti. Ma è lui solo a morire; Almásy, d'altra parte, deve temporaneamente abbandonare Katharina ferita dentro la caverna dei dipinti misteriosi, ma le promette che tornerà a riprenderla.

Intanto però anche nel deserto egiziano si è scatenato il conflitto mondiale. Almásy è arrestato dagli inglesi come spia, cosa che egli non è - o almeno, non è ancora; perché, subito dopo e per amore, si compromette. Evaso dalla prigionia, infatti, il conte cede ai tedeschi la preziosa raccolta di mappe del deserto preparate da lui insieme ai


colleghi, in cambio di un biplano con il quale ritorna alla caverna dove però nel frattempo Katharina è morta. Riparte dunque con il piccolo aereo, che questa volta trasporta (è la scena più poetica del film, dalla genealogia chiaramente dannunziana, con echi per esempio del romanzo Forse che sì forse che no) un vivo e una morta - una morta che sembra una dormente, reclina sul bordo della carlinga con una lunga sciarpa bianca (nello stile degli aviatori della Prima Guerra Mondiale) che le fluttua intorno al collo.

Il velivolo viene abbattuto dall'artiglieria antiaerea e Almásy - orribilmente ustionato, tanto da essere ridotto ad una sorta di mummia - viene accudito, in una villa abbandonata della campagna toscana, da una graziosa infermiera franco-canadese, Hana (Juliette Binoche). Ai due si aggiungono poi Kip (Naveen Andrews), un indiano-inglese ufficiale del Genio e disinnescatore professionale di bombe inesplose, che vive un breve idillio con Hana, e uno strano figuro di origine canadese dall'improbabile nome di Caravaggio (Willem Defoe), già collega di Almásy. Quest'ultimo ha (o dice di avere) perduto la memoria, ma Caravaggio lo spinge a ricostruire i brandelli della sua eversiva storia d'amore. "Scoppia'' la fine della guerra, e Hana cede alla tacita supplica di Almásy: aumentando la dose quotidiana della morfina antidolorifica, gli consente di morire dolcemente; per gli altri la vita, cicatrizzata, continua (questa fine senza lieto fine non è l'ultimo fra gli elementi che costituiscono l'intelligenza del film). Insoma, un - come si borbotta uscendo a notte alta (la pellicola dura quasi tre ore) - buon film. E allora, il cinema come corrompimento dove sta?

Ma appunto: io avevo parlato di qualche cosa di contingente, di relativo, costituito da piccoli tocchi e sfumature. Se i problemi non fossero così sottili, l'analisi di un film non sarebbe un'operazione etico-estetica, ma un'aneddotica mondana accoppiata a una glossa ideologica (accoppiamento che in effetti è la normale forma di ricezione delle pellicole cinematografiche).

Dal punto di vista del mercato cinematografico un film basato su di un romanzo serio e che si mantiene essenzialmente fedele a esso, appartiene ad una categoria di aristocrazia intellettuale. Ma che accade se guardiamo all'oggetto in sé - che non è il film, ma piuttosto la fonte da cui esso scorre e fluisce? The English Patient è un romanzo cauteloso e derivativo, un romanzo costruito per così dire a tavolino; a ridosso dell'opera di vari narratori che hanno esplorato l'incontro fra la cultura anglofona e l'intrico politico-sociale della parte meridionale d'Europa, e lo hanno


fatto in entrambi i sensi appassionatamente: voglio dire, correndo francamente i rischi delle loro scelte di idee, e al tempo stesso seguendo con franchezza i modi in cui le immemoriali passioni dell'individuo si mescolano ai vortici della storia. Se dovessi esemplificare con un solo titolo, al di là dei casi più patenti (Hemingway) segnalerei quel romanzo vibrante di energia che è The Revenge for Love di Wyndham Lewis (scritto fra il 1934 e il 1936), ambientato tra l'Inghilterra e la Spagna subito prima della Guerra Civile; e si dovrebbero aggiungere (almeno) alcuni testi dell'americano Paul Bowles, con la sua concentrazione tipicamente nordamericana verso esperienze solipsistiche come quella della droga, ma con antenne sensibili verso il contesto politico-sociale. (Il suo The Sheltering Sky è un romanzo notevole, e il film "Tè nel deserto'' che a suo tempo Bertolucci ne trasse ha certo offerto molti spunti a Minghella). Ma vi è soprattutto un romanzo, o meglio un ciclo romanzesco, di cui Ondaatje è direttamente e pesantemente debitore, per tutti gli elementi essenziali della sua opera (passionalità inglese su sfondo egiziano, intrighi politico-diplomatici mescolati a erotismo): mi riferisco a quell'Alexandria Quartet dell'inglese Lawrence Durrelì che segna una data nella narrativa contemporanea, e che già una trentina d'anni or sono era molto diffuso tra i lettori statunitensi.

Ma ciò che è in giuoco non è una pedantesca lista di precedenti; è piuttosto l'osservazione di un successivo allontanamento dall'intensità, un opacamento per cui il film si pone come il riflesso di un riflesso, trascrivendo un oggetto letterario giunto al punto estremo di maturazione, tanto da mostrare qualche ammaccatura. Per designare questo non so che di sfatto e di raffermo, il termine "corrompimento'' rischia forse d'essere troppo pesante; eppure non è fuor di luogo. E, una volta che si cominci a prestare attenzione all'insinuazione di questa vena, si nota che essa ha conseguenze propriamente cinematografiche: per cui ciò che ad un primo sguardo appare come vivo e marcante si rivela poi al secondo sguardo (l'occhio della memoria e della riflessione) come qualcosa di vago e di sfuocato; un impoverimento, appunto, della visione.

Esempio: la scena in cui Almásy e Katharina si appartano contro un muro, per i pochi minuti che riescono a rubare agli altri ospiti, all'angolo di un cortile dove si svolge un ricevimento diplomatico; questa copula in cui è difficile distinguere la fretta dalla passione, ma che appare comunque incandescente, è in fondo una scena di cinema-sul-cinema (ricorda molto da vicino uno dei momenti più pittoreschi del film "Il Padrino'').

Altro esempio: l'episodio in cui Kip issa, per mezzo di una carrucola,


Hana verso il soffitto di una chiesa immersa nel buio dell'oscuramento militare, e la fa altalenare così che la donna ha una serie di rapide visioni aeree delle pareti affrescate, faccia a faccia, attraverso le lame di luce della torcia elettrica che regge in pugno. L'idea è bella (la Cultura percepita come Natura - gli affreschi visti come sogni, o come persone vive, o come alberi in una foresta notturna), ma l'esecuzione si sfuoca in quella sorta di voyeurismo turistico che sembra intrinseco alla macchina da presa; perché gli affreschi che intra-vediamo sembrano proprio episodi del ciclo della "Invenzione della Croce'' di Piero della Francesca, e allora la precisione di questi brandelli citazionali peraltro non contestualizzati ci lascia disorientati: incerti fra l'ipotesi di un'allusione puramente poetica, e metaforica e l'ipotesi di uno spazio-tempo ben circoscritto.

Che cosa resta, poche ore dopo aver "visionato'' questo testo profondamente effimero, trascrizione minimalistica di una storia di passione? Resta soprattutto un contrasto di paesaggi: il deserto nordafricano, questa diretta scultura delle dita di Dio (per cui in ogni caso resta fondamentale il "Lawrence of Arabia'' di David Lean); e una campagna toscana vagamente "gotica'' e minacciante.

Un ultimo punto riguarda la ricezione italiana di questo film - e qui il problema diviene squisitamente (come si diceva una volta) etico. La sfida centrale che il film pone al pubblico anglosassone risiede nella franchezza con cui esso mostra, senza esplicite cornici condannatorie, la decisione di un uomo che pone il suo amore al disopra dei grandi spartiacque etico-politici: per mantenersi fedele a quello che per lui è l'impegno centrale (la promessa fatta all'amante di tornare in suo soccorso), quest'uomo non esita a patteggiare con i nazisti.

Tale contrasto rappresenta una sfida per la comunità angloamericana, che ha fatto decise scelte di campo alla svolta del mezzo secolo, e i cui singoli membri conoscono il travaglio di interiorizzare il sociale nella coscienza. Ovvero: questo film in ultima analisi ha senso soltanto se vi è, nello spirito dello spettatore, l'ombra di angoscia evocata da ogni vera scelta. Ma che senso resterà al film, di fronte a una comunità come quella italiana: una piccola borghesia che ha dovuto elaborare una teoria della resa a discrezione, e per cui la preminenza del particolare e del domestico sugli interessi della comunità non è mai stata - se non per brevi tratti e sussulti della sua storia - revocata in dubbio?


Xi Mu Rong

traduzioni

Luciano Troisio

Beltà di sentimento

Se la vita è treno

che corre veloce

l'allegria e la tristezza

sono i due binari

che incalzando mi seguono.

Tutti i momenti diventano

frettolosi, annebbiati, se non

puoi fermarti a guardare indietro

lontano.

Soltanto nell'attimo

di girare la testa

riesci a percepire l'afflizione

chiaramente

perciò soltanto troppo tardi

comprendi un sentimento

bello

senza pentirtene.

L'indovinello

Nell'istante in cui indovino la risposta

il convito

è già disperso.

Tra gli ospiti che s'allontanano

non ti vedo già più

nel crepuscolo.

Poco fa il giardino era gremito d'allegria

soleggiato. Ma io

non potevo entrarci.

Mi hanno imposto un indovinello:

trovando la risposta potrò incontrarti.

Nel momento in cui indovino la risposta

mi accorgo che

il tempo

ha mutato

l'indovinello.

Una poesia corta

Tutti i miei parenti percepiscono

il mio giornaliero invecchiamento.

Tutti i miei amici scorgono

nuova brina sui miei capelli.

Perciò come posso incontrarti ancora

quando nel tuo cuore

c'è solo la mia giovinezza

trasparente come l'acqua

verde come le montagne.


Il picco di Teide a Tenerife

è fatto di lampi

del piccolo pugnale di piacere

che le belle donne di Toledo

serbano giorno e notte

contro il proprio seno.

André Breton, L'Amor Fou


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