Leonardo Mancino

Gli storni di Roma

Gli storni di Roma prima della sera

snelli come minuscole saette

il becco aguzzo

gli occhi mirati sulle punte

solenni dei lecci, l’acuto verso

il grido dell’angoscia lo senti

all’approssimarsi del male che s’avanza

oggi

una volta bambino nel quarantatre

a Cola di Rienzo

al rientro si restava con gli altri sul terrazzo

a vederne a migliaia cercarsi in onda

divaricare le rotte dopo le virate

in fantastiche figure,

e come vivevano nel coraggio del volo

le geometrie d’uno spettacolo

d’interminabile chiasso e d’invenzione

ora le anime dormono sotto le tegole

sconnesse come un tempo

dei tetti nelle sezioni delle case.

Amata solitudine

Tu mia

bella amata solitudine

celeste mi prendi

mi aggredisci silenziosa forma

d’essere

pure mi proteggi.

Lo sguardo alla vita sopravvive

in qualche modo alla fine

c’è in forma desiderio l’avere

la percezione di una sostanza

nel sangue

che richiama le cose da fare

in un mondo altro.

Saturno

Chiuso, così sembra, nella depressione

d’una struttura di persona, tristezza

musa pure sa cantare

fa voce dal fondo.

Nera bile genera frutti sorprendenti:

un pensiero davvero pensato

è mille amori e voluttà d’estati

malinconiche come assorbenti garze.

Dire per sé:

un senso d’anima invade tutta la coscienza.

E non sarà mai tutta, questo.

................

...............

...............

Gianfranco Maretti

Madrigale dei giardini

Lo straniamento sui dormiti

Lo straniamento sui giardini

L'oltresonno li delizia

Il canto sui dormiti

Il canto sui giardini

L'oltrerigo li delizia


Lino Paini

Il rogo

Il vento impetuoso di marzo trascinava nel cielo nuvole nere.

La tiepida luminosità della luna piena irrompeva, a tratti, nella povera casa di Marco. Poi scompariva, quasi assecondando il lugubre respiro del vento, e tutto tornava buio.

Marco non dormiva.

Sul suo povero giaciglio di paglia, riparato alla meglio da una coperta di lana unta e maleodorante, sentiva le altre presenze vicino a lui: il respiro sommesso del fratello, il ritmato brontolio del padre, la tosse secca della madre.

Ad occhi aperti osservava l'andare e venire del chiarore della luna sui suoi pensieri. Non aveva paura, o, meglio, la sua paura era accompagnata da un oscuro desiderio di fare qualcosa per Lucina. Qualunque cosa pensasse, però, per quanto si affannasse ad immaginare soluzioni, non poteva non pensare che nulla e nessuno avrebbero potuto evitare quanto stava per accadere.

Lucina: l'aveva vista crescere con lui. Avevano spigolato assieme nei campi, dopo la mietitura, assieme erano andati per fascine nel bosco sulla collina oltre il fiume. Si erano visti crescere, domenica dopo domenica, sul sagrato della chiesa del castello. I suoi occhi verdi lo avevano cercato fra gli altri giovani, alla trebbiatura, mentre, con le altre ragazze, portava acqua ai battitori. Lui aveva indovinato la sua snella figura anche sotto i poveri stracci che la coprivano. Poi era scomparsa.

Avevano detto che era andata al castello, il conte in persona si era interessato a lei. Lui aveva sentito, disperato per un dolore che non poteva esprimere, gli altri che parlavano della sua vita cambiata. Aveva visto le sue compagne invidiarla, perfino i suoi genitori rallegrarsi per lei. E aveva, soprattutto, sentito i discorsi dei vecchi o le sconce risate di chi portava sue notizie.

Dopo qualche mese era tornata al villaggio ma i suoi occhi verdi non avevano più la stessa luce. Aveva cercato di incontrare il suo sguardo ma lei lo aveva evitato. Per settimane aveva cercato di parlarle, di accostarla ma lei, a volte molto rudemente, lo aveva scansato.

Un giorno aveva sfidato l'ira di suo padre e le bastonate del fattore.


Aveva lasciato la mandria nella radura ed era sceso a perdifiato, dalla collina verso il torrente. L'aveva finalmente sorpresa da sola, alla gora, dove era venuta ad attingere acqua. Lei se lo era trovato improvvisamente davanti, rosso ed ansimante per la corsa. Lo aveva guardato, questa volta, e, senza una parola, era stata sua. Lui le aveva sussurrato le cose piu belle che sapeva, aveva pianto per la felicità sui suoi capelli neri e lucenti, ma lei non aveva detto nulla.

Si era limitata a guardarlo con quegli occhi, di nuovo strani e gelidi, e se ne era andata.

Da allora la vita di Marco era diventata un tormento. Non riusciva a capire come quella incredibile felicità di un momento non potesse durare tutta la vita. Non capiva, soprattutto, lei che lo trattava come uno sconosciuto. Sembrava, anzi, che si accanisse contro di lui, rivolgendo ad altri la parola, rispondendo perfino a pesanti apprezzamenti con un laido sorriso. Eppure lui sapeva che era sua. Era sicuro di averle dato l'unico momento di felicità della sua giovane vita.

La osservava muoversi con le compagne nel lavoro quotidiano del villaggio. Aveva provato ancora a sorprenderla al torrente, ma si era accorto che ormai non si muoveva più da sola. L'accompagnava sempre la vecchia. Nessuno del villaggio sapeva da dove fosse venuta o come si chiamasse; era arrivata da poche settimane e tutti la chiamavano e la conoscevano così: la vecchia.

Era una donna dai capelli ingialliti dal tempo, la pelle rugosa come una lucertola, le mani adunche e deformate dal freddo e dagli anni. Solo gli occhi, in lei, sembravano vivi: due incredibili occhi verdi che saettavano lampi di curiosità e consapevolezza, su chiunque si posassero.

Anche su di lui si erano posati, spesso. Lui aveva abbassato i suoi fingendo di non capire. Non aveva comunque immaginato che sarebbe finita così.

Le avevano prese, una sera, mentre gli uomini tornavano dai campi, all'imbrunire. Le campane della chiesa su, al castello, suonavano l'Ave Maria. I soldati le avevano legate e le stavano trascinando su di un carro per portarle al castello. Lucina era impassibile: camminava fiera verso il carro, quasi attraversando con gli occhi la piccola folla che si era radunata. Non lo vide, o fece finta di non vederlo.

La vecchia imprecava, ma senza urlare; sembrava piuttosto infastidita che sorpresa o impaurita. Si avviava, anche lei, verso un appuntamento che sembrava conoscere.

Streghe!


Se ne era parlato a lungo, quella sera, nelle povere case del villaggio. Qualche bambino aveva pianto impaurito. Alla luce delle lanterne, molti avevano vegliato e sommessamente pregato. Anche Marco aveva vegliato, ma non era riuscito a pregare. Avrebbe voluto capire e, soprattutto, fare qualcosa.

Invece erano già passati due giorni ed ancora non aveva capito, né aveva individuato qualcosa da fare. La luna seguitava il suo gioco di luci ed ombre dalla piccola finestra, così come seguitavano i respiri, i brontolii e la tosse.

L'alba non doveva essere lontana, ormai. Il vento proseguiva la sua corsa nella valle, accarezzava il torrente, scuoteva gli alberi più alti, si infilava maligno nelle fessure del tetto sopra di lui. Il suo sibilo sembrava il grido soffocato di mille voci, da chissà dove.

Le campane a martello del castello rintoccarono improvvise, come una risposta a queste grida. I primi colpi quasi soffocati dall'urlo del vento, poi, via via, sempre più nitidi, precisi, orridi. Marco balzò a sedere, mentre il padre, brontolando, si svegliava. Gettò via la coperta e corse verso la porta. L'aprì e il vento impetuoso entrò nella piccola casa assieme al suono, più nitido ora, della campana. Tutto il villaggio si stava svegliando. Marco vide aprirsi altre porte, senti imprecazioni, preghiere. Guardò verso il castello.

La nera mole troneggiava sulla collina. La torre più alta, a ovest, sembrava sospesa sul nulla, emergendo minacciosa da un cumulo nero di nubi che il vento, in un attimo, disperse, per poi aggrovigliarne un altro, più cupo e denso che nascose, per un momento, tutto. Il rintocco della campana proseguiva comunque, cupo e denso come la nuvola, quasi a togliere ogni speranza.

Marco corse in casa, infilò velocemente la camicia consunta e, senza aspettare il padre che lo chiamava, imboccò di corsa il ripido sentiero della collina. Non era il primo. Molti già si erano affrettati verso il castello. Era quello che dovevano fare, al suono della campana. Poteva essere un incendio, una disgrazia, qualunque altra cosa, ma bisognava affrettarsi.

L'erta del sentiero divenne sempre più ripida ma la corsa di Marco, oppresso da un oscuro presagio, sembrava non sentire la fatica. Non ebbe molto tempo per pensare: in pochi minuti giunse sotto le mura, con i primi. Presero a destra, verso il portone, dove arrivava la strada che, più dolcemente, portava sulla collina.


Avanzavano a fatica tenendo la sinistra appoggiata alle poderose mura, umide e scintillanti alle prime luci dell'alba. Superarono con fatica speroni di roccia che sembravano infilarsi sotto gli enormi massi delle mura. Verso valle vedevano salire, in fila, anzi in gruppi scomposti ed affannati, uomini, donne e bambini. Tutto il paese correva verso il suono della campana, impaurito e sconvolto.

Marco ed i suoi compagni di viaggio arrivarono finalmente al portone: l'enorme battente era aperto e la pesante grata di ferro era sollevata. Presero fiato, fermandosi e ansimando, poi il piccolo gruppo entrò. Passarono il piccolo cortile del corpo di guardia, il secondo portone ferrato e si trovarono nel più largo cortile interno.

Il livido chiarore dell'alba e le luci delle torce illuminavano una scena spettrale. Il rintocco martellante della campana e l'urlo del vento offrivano vita e sonorità ad un'immagine di assoluta e fantastica immobilità.

Sui tre lati del cortile erano schierati i soldati del conte con le rozze maglie di ferro coperte alla meglio dalle bianche e corte tuniche. Di fianco alla facciata della chiesa, nel punto più elevato del cortile in pendenza, era il conte. Vicino a lui gli ufficiali, il fattore, il prete. Di fronte alla chiesa, la presenza inquietante di due cataste di legna, attorno a due alte pertiche conficcate negli sconnessi ciottoli del cortile.

Marco si fermò attonito, così come i suoi compagni, giunti per primi. Poi, pian piano, avanzarono nello spazio libero della piazza, fra le ali dei soldati con le torce. Sentirono entrare, dietro di loro, gli altri, saliti dal villaggio. Si avvicinarono sempre di più alle cataste, sospinti dalla calca dietro di loro. La piccola folla bisbigliava parole di orrore coperte dal vento e dalla campana.

Per parecchi minuti, Marco attese, a due passi dal rogo, urtato di tanto in tanto dall'accalcarsi degli altri dietro di lui. La prima fila, con lui, riuscì a resistere, mantenendo la distanza da quell'orribile preparativo di morte. Poi la campana tacque e, per un momento, anche il vento sembrò sopire le sue urla. Il conte fece un cenno col viso. Si aprì un basso portoncino ed entrò nel cortile un lugubre corteo: un soldato con una torcia, un monaco, un altro soldato che trascinava in catene le due donne, un uomo incappucciato.

Nel silenzio spettrale, il corteo attraversò lateralmente il cortile e tutti poterono vedere. Il volto di Lucina era una maschera di sangue. Dalle labbra tumefatte pendeva un brandello di lingua. I capelli arruffati scoprivano, sulle spalle, rosse striscie di sangue. Le mani, incatenate, erano rosse e livide. La vecchia sembrava aver sofferto meno ma, quando


il gruppo fu fermo davanti a loro, tutti videro il suo volto. Dalle vuote orbite scorrevano rivoli di sangue nero: le avevano cavato gli occhi, ma la vecchia sembrava sfidare la folla, muovendo il capo qua e là, come per osservarli. Uno strano sogghigno le era impresso sulle labbra.

Lucina era immobile, a capo chino. Il monaco estrasse dal saio una pergamena e lesse, in latino, la sentenza. Nessuno capì perché, ma tutti compresero cosa stava per accadere.

Quando il monaco finì, la vecchia eplose in un isterico riso. Venne brutalmente percossa da un soldato e tacque.

Si fece avanti l'incappucciato che, con l'aiuto di un soldato, le separò e le trascinò sulle due cataste, legandole al palo. Nessuna delle due oppose resistenza. Si abbandonarono nelle braccia del carnefice, senza un lamento. La vecchia, eretta contro il palo, continuava a sfidare la folla, roteando il capo qua e là, come avesse ancora gli occhi. Lucina era piegata, per quanto le consentivano le braccia legate attorno alla pertica. L'uomo prese da un secchio vicino alla catasta un pennello di stracci e spalmò di pece untuosa il corpo delle due donne. Tutto era pronto.

Marco guardò il conte che, con un cenno, ordinò di procedere. L'uomo prese la torcia del soldato e appiccò il fuoco. Le secche fascine crepitarono e presto salirono alte fiamme. La piccola folla si ritrasse, per il calore e l'orribile visione.

Marco rimase leggermente più avanti e, gli occhi pieni di lacrime, continuò a fissare Lucina.

D'un tratto, lei alzò il viso.

Era proprio di fronte a lui e lo guardava fisso, come neppure aveva fatto quel giorno al torrente. Le fiamme le lambivano le vesti strappate, il fumo nerastro avvolgeva tutto, ma i suoi occhi verdi erano fissi su di lui.

La vecchia aveva ripreso la risata assurda, che mutò improvvisamente in una tosse spasmodica e rantolante, poi nel silenzio. Lucina continuò, immobile, a fissarlo, finché il suo capo si abbatté sul petto, nell'immobilità della morte. Poi il fuoco cominciò la sua danza macabra con i corpi ormai senza vita, che lo assecondarono, ballando e contorcendosi con lingue di fiamma e faville, mentre l'orribile puzzo di carne bruciata ammorbava l'aria del cortile.

Non durò molto. Le due pertiche caddero, trascinando nella catasta quello che rimaneva delle due donne.

Marco rimase ancora qualche secondo, mentre, dietro di lui, la folla aveva cominciato ad uscire, tra sommessi mormorii di paura e preghiere. Guardò il conte e riconobbe sul suo viso un'espressione consapevole e compiaciuta.


Non c'era altro da fare che tornarsene a casa. O forse no. Forse non valeva la pena vivere una vita così.

Ma gli occhi di Lucina gli dissero di vivere. Si voltò e si avviò, con gli altri, verso il villaggio. In fondo, si trattava solo di aspettare.


Jean-Baptiste Para

traduzioni

Fabio Scotto

Si amour n'a failli

"Si amour n'a failli

à ce qu'il t'a ordonné,

puise de l'eau,

recite la sentence...''

Du fleuve montent les brumes

et quoi qu'il puisse advenir

cet enfant dans l'obscurité

exécute à la barre

le dernier exercice.

Aprés un temps si long

reviendra-t-il

dans le cours intérieures

chaussé de tille

et se cabrant dans son rire?

Il ne sera pas ce fou

qui tient une braise

au creux d'un bras plié.

Il aime la tiédeur des lessives

et jamais ne tire

sa barque dans les blés.

Se amor non è venuto meno

"Se amor non è venuto meno

a quanto t'ha ordinato

attingi acqua,

recita la sentenza...''

Dal fiume salgono le brume

e qualsiasi cosa accada

quel bimbo nell'oscurità

esegue alla sbarra

l'ultimo esercizio.

Tornerà

dopo così tanto tempo

nei cortili interni

con scarpe di tiglio

il corpo teso in un riso?

Non sarà quel pazzo

che tiene un tizzone

nell'incavo d'un braccio piegato.

Ama il tepore dei bucati

e mai trascina

la sua barca tra le messi.


La même trace

"Toute épopée

est la face claire d'un cauchemar''

(d'une lettre de Chris Marker

à Medvedkine, je retiens ces mots

serrés comme une main

que l'ombre émiette, une poigne

où l'ange sans fin

éploie et replie ses ailes,

tandis que l'oeil du cycliste

trace une ligne droite

du soleil caché au nickel du guidon).

*

Il ne croit pas

qu'on arrache l'argent du saule,

que l'arche du pont

écoute le tonnerre des trains

et que l'âme s'amenuise

comme une viande qui grésille.

Une barre de ballet

quand la neige, la fausse neige

remonte vers les cintres.

Mais lui se souvient

de la tour de guet, des prés inondés

et d'une mère plumant la poule blanche.

Sous la soutanelle des novices

elle puise l'eau

pour le reste des jours,

elle récite la sentence.

La stessa traccia

"Ogni epopea

è il lato chiaro di un incubo''

(d'una lettera di Chris Marker

a Medvedkin, tengo queste parole

strette come una mano

che l'ombra frantuma, una presa

entro cui l'angelo senza fine

spiega e ripiega le sue ali,

mentre l'occhio del ciclista

traccia una linea retta

dal sole nascosto al nichel del manubrio).

*

Non crede

che si cavi l'argento dal salice,

che l'arcata del ponte

dia retta al tuono dei treni

e che l'anima s'assottigli

come carne che arrostisca.

Una sbarra da balletto

quando la neve, la falsa neve

risale verso le curve degli archi.

Ma lui si ricorda

della torre di guardia, dei prati inondati

e d'una madre che spennava la gallinella bianca.

Sotto la sottanella delle novizie

lei attinge l'acqua

per il resto dei suoi giorni,

recita la sentenza.


Giovanni Pasetti

"Eptamondo''

L'universo degli oggetti pervade ormai da secoli la vita umana, distorcendo in modo spesso inavvertibile i comportamenti e le percezioni. Tuttavia, questo dato di fatto nasconde dettagli imprevisti, poiché i limiti del concetto di natura appaiono a loro volta sfuggenti. Cosa è natura, infatti? Se passeggiamo per la campagna che si estende intorno ad un qualsiasi agglomerato urbano, il nostro sguardo incontra frammenti certamente costruiti dall'uomo, ma che altrettanto certamente hanno perduto ogni funzione originaria, e si spargono dunque come minuscole rovine rivolte a punteggiare il paesaggio. Un giocattolo smarrito, una bottiglia di plastica coperta di muffa, una pagina di giornale bruciata in gran parte, il cui testo oscilla fra l'enigma e la banalità...

Sono esempi di una condizione che appartiene indissolubilmente all'individuo contemporaneo. Così, se gli antichi ammiravano il volo degli uccelli o l'alzarsi improvviso di una nuvola dalla forma stravagante, e da questi prodigi traevano un'interpretazione del futuro, riconoscendo un'interruzione nell'ordine consueto delle cose, l'artista moderno, unico indovino rimasto all'umanità, è costretto quasi contro voglia ad esaminare i manufatti industriali nella loro esistenza residuale. È inutile chiudere gli occhi: l'artista è appunto chi, novello Tiresia, chiudendo gli occhi deve vedere. Sta poi alla sensibilità di ciascuno accogliere le nuove sollecitazioni, ovvero opporsi, proclamando una polemica che riesca a divenire grido, a sua volta residuo di una voce. Infatti, l'arte è anche misteriosamente connessa all'attimo di decadenza immortale in cui i soggetti e gli oggetti perdono il proprio orgoglio e, specchiandosi nell'inutilità, divengono esemplari unici, simili ad una chiave ritorta che non apre più la specifica porta a cui sembrava destinata, ma si trasforma in metafora assoluta dell'apertura.

Pinotti e Boccadoro ci presentano in queste pagine l'eco di una recentissima installazione, che muove dalla scoperta fortuita di una scatola-giocattolo, un puzzle di cubi costruiti per disegnare i continenti del globo terracqueo. Ignoriamo se un bambino ha veramente utilizzato tale divertimento; in ogni caso, esso è spunto per un ampliamento vertiginoso. Pinotti e Pittis hanno immaginato non un mondo, ma una serie di mondi, corrispondenti alle sette sfere celesti un tempo conosciute: Sole, Luna, Mercurio,


Venere, Marte, Giove, Saturno. Inventando altri contenitori che in certo modo danzano intorno al primo, gli artisti hanno incontrato la polverizzazione dell'universo attuale. Ma, per qualche genere di attrazione magnetica ed alchemica, il pulviscolo è divenuto rassegna, microcosmo abitato, contrappunto di materie e di colori.

È inutile qui ricordare la profonda valenza simbolica del numero sette, numero dispari e primo in cui viene racchiusa la completezza del quattro e la sfuggente spiritualità del tre. Sarà invece opportuno sottolineare la struttura a vetrina dei diversi orizzonti, in cui pare rifrangersi un solo raggio di luce, spezzato dalla densità del mezzo circostante. I frammenti selezionati dagli autori vengono esposti in forte evidenza; tale procedura è tuttavia assai complessa, poiché l'evidenza dell'oggetto corrisponde ad una sua perversione, più avvertibile nei mondi controversi, quali Marte e Saturno. In tal senso, la tecnica del collage di Boccadoro si sposa perfettamente alla virtù coloristica di Pinotti, in quanto entrambe alludono alla divisione insita nella nostra vita. Per quanto un rosso appaia semplicemente rosso, la superficie propriamente detta è una pura illusione, una semplificazione ideologica che si infrange alla prima occhiata dello spettatore. Così, le carte dei collages alludono alla piega insopprimibile di cui le nostre azioni sono fatte, e alla conseguente sfarinatura di un gesto che lavora per essere deviato.

Ma ogni arte è anche scrittura e, come tale, non bandisce mai da sé l'armonia. Non solo alcuni elementi ospitati nei sette contenitori creano una relazione tra i rispettivi mondi, intessendo un gioco di messaggi dichiaratamente angelico; è la stessa disperazione che a tratti risalta negli accostamenti a diventare mediatrice di una sofferenza comune. Ogni dettaglio dell'opera è infatti solitario, se lo esaminiamo mentre dichiara la propria carta d'identità e l'immobile destino in cui è precipitato; ma il volo congelato della farfalla o del calabrone, l'asperità del cristallo, la rugosità delle polveri, l'ingegnosità di un macchinario il cui scopo ultimo scompare nelle nebbie dell'assurdo, tutte queste voci proclamano una coesione superiore, che non appartiene all'artista bensì all'artefice.

L'installazione, dunque, necessita di un visitatore, che legga l'opera seguendo un tempo ritrovato. Quanto alle immagini tratte dall'opera stessa, occorre intenderle come un primo tentativo di avvicinamento, un tunnel microscopico soggetto a tutti i miraggi e arcobaleni che la difettosa lente dell'obiettivo subisce e svela. Finalmente, Eptamondo trova la sua nascita nel medesimo istante in cui viene frainteso.


Gianna Pinotti

A Piero Bigongiari

Tra ironia, facezie e vaporosi doni

la meritata cittadella onora

l'amo impossibile dell'angelo riarso,

vate notorio dalle tinte visioni

che predice un ordine scomparso,

iridescente secolo concluso

spina dorata del parlare illuso

- basta il pensiero ancora.

Ma piegando il petto verso sera

nelle mani viola di dolore,

la sfasatura esistenziale muore

contro i labirinti di chi spera

d'essere una stella senza taglio,

mentre la falla, fiore sul muro

(gigante latteo bagliore, calla),

ritma dal dondolo lo sbaglio,

l'era divina e il sole duraturo

difficile profumo compensato,

tingendo il dubbio e il suo riparo

mutando forma, nome, nel fatato

magico buio, sicuro faro.

Per l'eterna ancella disinvolta

in una notte tempestosa bocca

ritorna la parola e tocca

la rondine palmata della svolta.


Andrea Ponso

La Casa

Je voulais donner un corps a mes mots

et de mots a mon corps

B. Noël

Bertran de Born a Dalon

I

"Le mani sono ancora ben irrorate dal sangue

il vento qui possiede minimi spazi, la calma si protende

come un'ombra dall'altare. Le reliquie

misurano le stanze e l'assenza del santo.''

II

"Potevo essere sabbia per il porto dei cavalli:

un finire nel mare, questo parlare di pietra.''

III

"E poi con la mente andare a comprare virtuosi cavalli

saggiare la quota di vento più forte nelle criniere.''

IV

"Ed ora ritornano solo cavalli sciolti nell'ombra

nell'erba un ricordo di lance, i miei plazer.''

V

"E se il desiderio diventasse questo stesso monastero;

le chiese libro e paesaggio insieme: la velocità

dei cavalli e il fremito una teoria di cori,

il vento che spira dopo le battaglie arcate

di biblioteca, il sangue e le carni senza grazie

affreschi bruni, il cuore

    un prato verde.''

VI

"La carne deve diventare ombra, il corpo da tendini

idea: era questo il precetto per ogni palestra,

per la spada o la lotta, per lo stratega e l'esperto

di cavalli; era l'assurda educazione al frammento,

al minimo peso: la mano impugna il suo limite

e fonda i suoi regni d'erba.''

VII

"Vedo chiaro e l'omaggio è restare qui precari

un solco nell'abside di luce, un brivido

quando trema l'oro del tabernacolo come vento


sul mare e vacillano le chiare geometrie del santo.''

VIII

"E i contorni dei fagiani che cacciavo

e cani segugi fra pioggia e inseguimento...

La preda era un variare della stagione

un catalogare la macchia sfinendo l'autunno

con fuochi caldi, e fanti, e banchetti d'inverno.''

IX

"E qui l'anima si stacca dal mondo:

diventa al centro del monastero come una scrittura:

gli spazi delle arcate per il mistero dei venti

e dei tuoni, una voce oltre il chiostro

e la pioggia limitata da calamità di cicale.''

    Ho una casa di basilico e frasche, le stagioni

cambiano i muri: la primavera è quell'ombra lunga

dei davanzali a mezzo sole, ma verde;

l'inverno è uno spengersi in cenere, un cedere

della corteccia, un ritrarsi dell'acqua e della luce;

le gocce di pioggia sono certe ali azzurre,

mobili quando vengono.

    E il male sparisce e rapisce: il cielo

fa d'aria gli uccelli, la vite e il corpo

nella paura dei tuoni; allora per noi

le sere chiare sono il viola e il bianco tenue

delle campanelle, il colore che infarina

le mani.

    Costruire un monastero e starci dentro. Le celle

vuote, per l'estate, profumano di miele e vento.

La biblioteca è Jacopone, i mistici

e San Benedetto, Francesco. Entrano dai finestroni

le piante colme dei melograni. I muri spessi

hanno corridoi lunghi con venature di foglia.

Il calore attacca i muri e cede al centro

della pietra che gemendo si protende

al creare non finito del cielo e alla stanza

del tabernacolo.


Luciano Prandini

Mingen

A to vist, col ciold

in dal cupét, j'occ

fora

    da la testa... un bèc

e là, sacàa

sota la fnestra...

Ogni tent

at pens... specialment

quend'as'sent

    al cucù...

"Al conta al temp

ca's'resta'',

    t'adséev,

e mi: "sident!''...

Ogni tent

l'am torn'in ment

e pens

che da'd'la'n'csia

    gnent,

ma m'admand l'istess:

chisà

    s'l'am'sent...

Ernesto

Ti ho visto, con il chiodo

nella nuca, gli occhi

fuori

dalla testa... una smorfia

e là, stramazzato

sotto la finestra...

Ogni tanto

ti penso... specialmente

quando si sente

il cuculo...

"Conta il tempo

che ci resta'',

dicevi,

e io: "accidenti!''...

Ogni tanto

mi torna in mente

e penso

che di là non ci sia

niente,

ma mi domando lo stesso:

chissà

se mi sente...


E adèss?

E adèss?

In du èli finidi al paroli

e i discors?

E tuta cla préssia

    adòss?

A sem chi

in dal fòss

con j'urtìghi...

Da ragasol am piaséva

    i pràa verd,

culgarm'in'dl'erba

    a guardar

al ciuìghi

    ch'li balav'in ciél.

Gnént

Csa ghè?

Gnént.

Gnént?...

Gnént.

Povra gént

acsì'n préssia...

A vòlti as'sent

    al fiàa

gros, un vent

    ca fa paura...

D'istàa

    'ven su incora,

j'ombri di foss

quènd al cucù

al sta'doss

    al témp.

E adesso?

E adesso?

Dove sono finite le parole

e i discorsi?

E tutta quella fretta

addosso?

Siamo qui

nel fosso

con le ortiche...

Da ragazzo mi piacevano

i prati verdi

coricarmi nell'erba

a guardare

le allodole

che ballavano in cielo.

Niente

Cosa c'è?

Niente.

Niente?...

Niente.

Povera gente

così in fretta...

A volte si sente

un fiato

grosso, un vento

che fa paura...

D'estate

vengono su ancora

le ombre dei fossi

quando il cuculo

incalza

il tempo.


Filippo Ravizza

Cominceremo

Cominceremo gli anni

nella confusione tra

tonache e archi

alti delle rocce

affacciati noi sui

parapetti da lontano

un orizzonte come vela

nei coperti appartamenti

una salva tra le feritoie

acclamate una dopo

l'altra diritte come

cuore come canto...

eppure penso sia contento,

penso nelle sere a quei

cordami fitti, neri boschi

che danzavano sui fianchi

e noi partenti sui ricordi

sognando l'avanzata

sognando un coro dalle

sponde, una fragilità

più altera del tempo e

delle cose.

Dicembre 1995

Saremo noi saremo

forti come questi

bambini - popolo

nostro - questa solare

bontà nei sorrisi

e la voglia di cantare

e stare ove brillano

vacillando sognano

l'altrove fresco

dei ricordi loro

loro che sanno

sanno il mistero

l'aperto velo appena

appena dischiuso

ancora intravisto

nelle urla di gioia

degli scivoli... bambini

come mia figlia

bambini.


Benito Regis

Luci d'inverno

I

Nel riverbero inquieto delle nevi

perché avvampano i boschi come incendio

di rosso sangue e un capriccio di luce

accende freddi roghi all'orizzonte?

Perché subito sfuma e si dissolve

l'innevata dei giorni?

II

Non c'è deserto attorno, non c'è neve

che di silenzio ammanta

l'ondulato spiegarsi dei declivi,

non c'è luce di sole e di riverbero

come Tu sei, Presenza

che trapassa il visibile

cui volti e nomi ascrivi di trafitti

dal Tuo raggio invisibile,

di strappati all'informe,

alla dissomiglianza

Sono e non sono più

già sono altra cosa

che sempre muore e germina,diviene

nella legge del tempo

ciò che sarà nel libero oltretempo,

carne brusìo balbettìo

presi nel vortice immenso,

neve che si ricorda

delle azzurre altitudini

III

So che allora cadrò

dove prima è caduta la neve

(la Tua e mia neve)

e sarà lieve l'urto, attutito

da una Tua coltre soffice,

dal mio peso leggero

IV

Sepolti nella Tua neve,

non da sangue versato verrà pace

ma da recuperata alleanza

la neve arrossa, ai margini, un poco,

sbiancano in ogni fibra

come neve i sepolti


Cesare Ruffato

*

Gli anni trascorsi sono gli istanti

attuali di incertezza e ricerca

oltre le trame fluenti di dolore.

Sembriamo bimbi sfiniti da luce

dal giocattolo più caro e raro

dalle sillabe intime paludate.

Ovunque il vuoto frammenta il vetro

della festa ridesta il lavoro muto.

*

L'idea della prima rondine sotto

il tetto in questo ventun marzo 1995

mi è diversa teoria di luna

nunzia di suoni viola

nell'aria tagliata dal freddo

la stessa parola umanità si sfila

in tratti di silenzio biancoghiaccio

che allude ai modi della morte

nel colloquio mentale del cielo

tutto nodi di nulla. Illimpidirmi

e che ogni luce mi sveli autentico.

*

È già fine quando il desiderio

di domande persuasive deliquia

quando non più pulsa l'orizzonte

d'un ritiro distante quando più

invetera la nomadanza e voce

e respiro si sfaldano nel fittizio.

Nella vertigine rauca

la parola è una gelida siepe.

*

Il crepuscolo gocciola dai rami

dei pioppi lagrime d'ambra.

Il bouquet elegante dal sapore

deciso vivifica l'autunnale astenia.

Picchiano gli ultimi colombi

col tono sconfortato del mendico

lui che al mattino in corsa per la scuola

mi diceva strano bondì biricchino

fai il bravo ed io squattrinato

gli alitavo quella vita là

in fuga più bella.

*

Sonnambuli il tempo curioso del mio

occhio e troppa lontananza per un dolore

d'orizzonte violagiallo che racconta

fiabe eccentriche riservate e braccia

e mani clandestine a tagliare l'aria

per distaccati colori. Sguardi

imperlano asfodeli i gigli d'ombra.

Sale il tuo seno in lapsus di silenzio

infrangibile che viene dall'anima

bianca dell'alba e rugiada ogni fiato.

Il cielo sempre più opale tremola

angoli e coni urbani, estranei

lampi di pioggia acidula.


*

L'alba si soffoca nel carminio

del sole in denso accorato tripudio

di consunzione. L'orizzonte è così

vicino da soffiarti ciglia e sorriso.

Lasciarsi andare alle fantasie

sui sassi foliari con clorofilla

portata da microrganismi e licheni

invisibili colmi di essenze ed olii

da spalmare per silenzi infinibili.

*

M'inglomo in lagrima di rugiada

spalanco un simulacro dinamico

nella curva del soffitto braccato

da cyberimmagini mi picco

d'una misura inedita del tempo

d'una comunicazione estetica nuova

con permuta elettronica dei linguaggi

un attimo solo perché respiri

mi sintetizzi nell'ibrido circuito

scivolo ora simbolo oltre la mia

figura e mi larvo in altra capsula.

Poi tento un relax ai bordi del suono

curioso. Tutto mi valanga

di simulazione con vaghezza

inusitata di colori caldi odorosi.

*

Il vanto di lancinanti aforismi.

Lui pieno di sé autisticamente

imperfetto instabile sommuove

i segreti della forma sapiente

una filastrocca non sei ancora

figlio arcigno nell'affetto avido

ti consoli allontanandoti.

Ma per questo mi sono sprofondato

nel nulla e perseguo chiarimenti

sull'amore che rinuncia.

*

Lo sguardo affina il senso verbale

prato verde in aria per il sembiante

della globalità in splendore

e squisitezza coesi. Siamo ombra

accosta alla forma come i nostri

giorni in queste dune di pianto

nei bagliori dell'urlo solitario

che tutto fluttua e sostiene in vita.

Indigenti e mendicanti cercano

un po' d'acqua, guardiamo presi

nei gusci l'alba che scivola

e non frena il ticchettio dei sogni.

Al mondo tutto è retorica ornata.

E si dura espropriati nell'analogia

del ricordo e a vuoto tornano

le invocazioni frante colle stelle.


Quinta parte

Ritorno all'indice di Quaderno