Gilberto Cavicchioli

Sweet Memory

Era il suo profumo.

Ricordava che una volta, l'ultima, l'aveva vista travasare Sweet Memory dal flacone blu allo spruzzatore di vetro che lei si faceva passare attorno ai capelli di miele con mossa larga e provocante. Milioni di goccioline, arcobaleno di atomi infinitesimali, si posavano sopra il suo morbido corpo che si offriva con misteriosi segnali al suo sangue.

Quante volte l'aveva vista compiere quel gesto, che ridestava in lui un misto di tenerezza e di aspro desiderio.

E quante volte, preparandosi ad uscire, avevano scherzato su quel nome: lui le diceva "Sweet'' e lei più volte, con un'insistenza che gli pareva di aver compreso solo dopo, lo guardava con improvvisa serietà e replicava "Memory'', con un tono che gli ridestava, chissà perché, un inspiegabile struggimento fin dentro il filo della schiena.

Poi lei se ne era andata.

Lentamente, ma troppo in fretta, comunque.

Aveva passato quella sottile linea che divide per sempre i corpi ma che, non di rado, unisce tenacemente tutto il resto: la mente o l'anima o lo spirito o come diavolo volete chiamarlo.

Dolcemente, sempre più dolcemente, il tempo aveva ricoperto come un tappeto di erbe profumate la voragine che si era aperta e che rimaneva, sotto, intatta e disperante.

Aveva eliminato tutto: vestiti, scarpe, cappelli, bikini, anelli.

Ogni cosa era andata ad amiche, parenti, allieve. Anche le scarpe. Molte erano state regalate ad una Montenegrina che era venuta ad abitare lì vicino: lei, con il suo viso da zingara, aveva evocato lontane fiabe, che si erano divertiti a rifare e rifare più volte, smontando le parti del racconto intanto che andavano per gli argini.

E i profumi, le creme, gli abbronzanti. Tutto era stato eliminato, quasi in un antico rito tribale.

E così non era rimasto nulla di lei.

Chi non l'avesse conosciuta, entrando in casa, non si sarebbe certo accorto della sua passata presenza.

E il tempo andò. Dapprima molto lento, poi un poco più veloce e ancora più veloce, finché non tornò quasi normale.


Fu allora che, entrando un giorno nel suo bagno, nella parte di casa dove avevano vissuto insieme e che era stata chiusa, sentì improvvisamente un profumo noto: Sweet Memory era lì.

Dapprima si sentì quasi gelare: non c'era più nulla di suo. Era stato eliminato tutto con attento puntiglio. Aveva passato e ripassato più volte le stanze per essere certo di non trovare più nulla che gli stringesse la gola.

Ma Sweet Memory era lì.

Superato l'attimo di angoscia e di sottile paura che gli aveva gelato il respiro, alzò la testa come un soriano e, inspirando a brevi tiri, con le narici dilatate dei gatti, cominciò a esplorare tutta la stanza.

Finalmente, con grande consolazione, lo vide; lo spruzzatore del profumo con la sua bella pompetta verde era finito dietro i mattoni che sorreggevano le mensole e lì era rimasto, in un angolo morto.

Morto anche lui e sfuggito a tutte le eliminazioni che aveva compiuto con accuratezza scientifica.

Gli venne da sorridere pensando ai limiti della scienza.

Lo sollevò; lo scosse, schiacciò la pompetta, ma non uscì nulla.

Aprì la finestra, rimasta chiusa da allora, lo guardò contro luce, lo scosse di nuovo, ma di Sweet Memory nemmeno una goccia. Assente la più piccola traccia.

Tante cose sono inspiegabili e non per questo messaggere.

Depose la boccetta, richiuse la porta e ritornò a leggere nel suo studio come faceva da tempo, quando non era costretto ad uscire. Ma la fragile campana di vetro sotto la quale si era rifugiato si era incrinata: un piccolo chiodo premeva contro la sua parete-costato.

Così, il giorno dopo tornò nel suo bagno per sentire il suo profumo.

Ma non c'era più. Scomparso. Dileguato. Inutile annusare, respirare, sniffare. Inutile infilarsi il beccuccio inox nelle narici, stantuffare la pompetta, scuotere freneticamente la boccia di vetro.

Sweet Memory non c'era più.

Ritornò a sentire il giorno dopo e l'altro ancora e, con meraviglia, si accorse che a volte il profumo era lì, come ad attenderlo, ed altre volte no.

In un primo momento gli parve che la faccenda fosse del tutto casuale: a volte c'era, a volte non c'era. Poi, pian piano, affinando la percezione e facendo attenzione a tutti i più minuti particolari, si rese conto con stupore che quando Sweet Memory c'era, era come una sorta di assenso, di approvazione, quasi di labile consenso. Quando non c'era, era una specie di rifiuto, disapprovazione, ostentato diniego.

Il timore sordo che lo aveva colto in un primo momento si trasformò


presto in una specie di gioiosa confidenza, di giocosa complicità.

E si abituò a prendere consiglio.

Quando occorreva compiere una scelta, decidere qualcosa, anche di poca importanza (ma sono sempre epiche le cose che si scambiano due che si amano) allora andava da Sweet Memory, come ormai si era abituato a pensarla o meglio a chiamarla, perché si era accorto senza traumi che negli ultimi tempi gli parlava, anche.

Così, un giorno, andò a chiedergli - a chiederle, il suo ben noto rigore sintattico non aveva più certezze, cosa ne pensava di Giulia.

L'aveva conosciuta da poco e gli era parsa così allegra, così piena di vita e nel contempo così rispettosa dei suoi improvvisi silenzi, così attenta a non turbare i momenti in cui la sua mente svagava dietro a chissà quali pensieri e di lui rimaneva solo il corpo.

Gli capitava spesso, in mezzo alla gente, di riuscire a resistere solo perché la mente usciva dalla stanza e conquistava spazi sconfinati dove chiacchiere, fumo, parole, risate, discorsi non arrivavano.

E Sweet Memory c'era.

Capì che era un segno di gradimento, che poteva andare, che poteva coltivare quella nuova amicizia.

Così andò avanti e ogni giorno tornava sereno nella sua stanza da bagno e le raccontava come andavano le cose.

E così, pian piano, in lui l'amicizia si trasformò in attenzione, l'attenzione in attrazione, l'attrazione in desiderio di rivederla, il desiderio di rivederla in ansia di rivederla. Finché, d'improvviso, si rese conto di amarla.

Corse felice, era tanto che non si sentiva più così, da Sweet Memory.

Ma Sweet Memory non venne. Non venne per tutto il giorno, per tutto il giorno dopo e per tutti gli altri giorni. Sweet Memory non si fece più trovare.

Analizzò a freddo la cosa e decise che non poteva rimanere schiavo di un profumo, di un soffio d'aria.

Ma sapeva lei cosa vuol dire restare soli?

L'angoscia di non parlare per giorni, di rivolgersi al gatto come ad una persona, di aspettare che il telefono squilli per comunicare con qualcuno.

E così amò Giulia. O meglio, volle amarla: perché una cosa è amare così, naturalmente, lasciar fluire il sentimento, ed un'altra è voler amare, imporsi quasi di voler bene a qualcuno, per essere meno soli.

Andò avanti.

Giulia aveva la sua vita, il suo lavoro. Viaggiava spesso e quando


tornava era sempre più presa di lui, sempre più legata. Lunghe telefonate da ogni parte del mondo, lettere, cartoline, fax. Una volta gli erano arrivati dei fiori ordinati dalla Turchia.

Era la prima volta che riceveva fiori da una donna. Gli sembrò un poco sciocco ma ne fu compiaciuto. Quel giorno andò a guardarsi un paio di volte allo specchio.

Poi Giulia non tornò più. Un aereo era caduto da qualche parte e Giulia era tra i passeggeri.

È brutto quando si rompe un osso, e ancora più brutto è quando si rompe di nuovo nello stesso punto.

Rimase per un paio di giorni seduto sulla poltrona della cucina senza reagire. Non rispose più al telefono. Gli parve di sentir suonare il campanello del cancello, ma non si mosse.

Anche Giulia! Era troppo per un uomo solo!

Fu così che d'improvviso, quasi senza accorgersene, fu avvolto da una nube di profumo. Sweet Memory aveva addirittura riempito la casa, era uscita dal bagno, aveva passato porte e pareti, era penetrata in cucina ed ora lo stava riempiendo e cullando.

La presenza del profumo era così forte che gli parve addirittura di essere avvolto da una masa gelatinosa, addirittura da una musica che era la stessa di molti anni prima, quella che ballavano insieme. Non ricordava neanche più il titolo, ma la musica non l'aveva scordata di certo.

Così non uscì più.

Il giardino si inselvatichì a poco a poco, il camion del gasolio non arrivò più, cessarono gli abbonamenti, anche il postino finì per saltare la casa.

Pare che un nipote gli portasse ogni tanto qualcosa da mangiare.

Solo le rose.

Quando era il tempo della fioritura, la sera i vecchi cespugli lungo la cancellata erano pieni di fiori che al mattino non c'erano più.

Qualcuno di notte li tagliava.

Così, dopo qualche tempo, i vicini si dimenticarono di lui.

Tuttavia la vita continuò ad andare avanti, con la sua eterna imperturbabilità.


Gaetano A. Cordioli

Ma le parole sono bacche

Aride le note come trilli:

la vita scommessa.

È vero che il picchio amasse da solo

con festuche sui nidi altrui?...

e il pettirosso?

Sono nidi blu gli allori

ma le parole sono bacche

asprigne di siepe che disporrai

su corone borracine con pensieri franti

prima dell'alba quando

nel camino braci tira la fiamma.

Amore stelo sulla notte

Nelle labbra si cresce la ferita

s'aderge stelo sulla notte

la vita e si squama di foglie

e frutti voluttuosi

ed io che non sono nella carne

ma sospeso sulla cima

tra le fronde

perché dovrei cantare?

e salmodiare l'eterno ritorno?

anche la gioia si tinge con la notte

se verrà vermiglia.


Walter Delcomune

da 3194 l'Alambicco

*

Quando Lowei si svegliò, il monitor della cellula habitat esplose d'un volto femminile azzurro.

Era il programma delle comunicazioni militari, che ricordò d'aver già ascoltato sulla 4° luna, per gli auguri di Natale.

Cercò il telecomando, ma s'accorse di non esserci... Era la riserva di un sogno?...

La voce elettronica gli comunicò che, dopo l'esplosione nucleare, squadre R. H. O. M. avevano raccolto frammenti umani.

Il laboratorio, eseguita la decontaminazione, aveva individuato fra gli altri il suo codice genetico, subito incapsulato nella micro unità conservativa "Y3'' a sensori sostitutivi.

L'avrebbero immediatamente trasferito su "Eolus'' e clonato in un vegetale trans "F4'', unica entità attiva disponibile al servizio del sistema.

*

Partì quel mattino in silenzio.

Affrontò onde ed ombre.

Navigò per angeli e demoni.

Attraversò formule ottimizzanti a logiche stringenti.

Poi, il ramo si spezzò.

E cominciò il viaggio.

Si fermò sulla schermata introduttiva di un CD-ROM "Neverhood''.

E scoprì l'estate: la città dove il mostro Kloog minacciava il pianeta.

Abbandonò però il sole e inseguì un silenzio di neve.

Per caso, in un labirinto dipendente da un ambiente squilibrante, incontrò due vecchi e due bambini.

E volle dialogare sull'albero natale.

Gli dissero che un computer l'aveva disseccato e il computing quantistico parlava impersonale.

Qualcosa quella sera rimise a posto il ramo.

E un network più veloce lo fece ritornare.

Rimasero due giochi, sull'albero natale.


Sara De Santis

Cosmogonie

All'inizio, ciò che costituiva il tutto erano dei pensieri; solo pensieri vaganti.

Il "nulla'' era attraversato da qualcosa di trascendentale e libero, poiché inespresso, poiché non articolato o chiuso in suoni e segni di alcun genere.

Avvenne però che un pensiero seguì un corso evolutivo strano, un cammino verso l'ignoto: cessò di riflettere e cominciò a sognare. Si fermò e, non seguendo alcun precedente ragionamento, percepì cose straordinarie: percepì... un soffio.

Sì, un'onda. Una cosa che esisteva e fluttuava, e sentì l'esigenza di rivelare il nuovo se stesso a qualcun altro: per la prima volta, volle comunicare.

Tanta fu la sua volontà e forse tale la sua trasformazione, che riuscì a sfruttare, per scuotere e richiamare gli altri pensieri inconsapevoli e vaganti, quella stessa fluttuazione, il suo sogno.

Lo stratagemma funzionò, i pensieri fermarono il loro vagabondaggio, affascinati da "l'esistente'', e seguirono il suo richiamo.

Il sogno, intanto, continuava ad alimentarsi e ad evolversi: sentì ciò che aveva fatto; percepì la presenza degli altri pensieri e ricordò che li aveva chiamati per istruirli: per far sì che anche loro capissero l'incomprensibile e lo sviluppassero.

Decise a tal fine di "chiamare'' la sua creazione ed essa divenne ``vento''.

La parola, che era comunicazione, segnò la fine della libertà dei pensieri e l'inizio di un arricchimento e di una evoluzione nuova, quella rivolta allo sviluppo di tutto ciò che era caso e fantasia.

Tutti insieme riuscirono a sognare, e scoprirono che in ogni sogno vi era l'impossibile: l'esistente, l'immanente, la materia; e vollero crearla.

Il primo sogno aveva già fatto un grande passo: aveva creato il "vento'': ognuno lo imitò e continuò a fantasticare su quella invenzione. Si immaginò che il vento formasse un vortice e che, mano a mano, dalle fluttuazioni di questo emergessero delle particelle, dei pulviscoli che


parevano inizialmente ai pensieri cosa grandissima.

Si pensò che i pulviscoli scendessero e venissero a concentrarsi sempre più in un unico punto e spingessero, spingessero tanto da fondersi; e che, d'un tratto, scaturisse dal grumo di materia un'immensa fontana di energia.

Si fantasticò che da questa energia potesse nascere nuova materia sempre più complessa, perché le particelle si sarebbero unite e... E tutto questo avvenne realmente.

I pensieri infatti, nella loro immensa frenesia di immaginare, aggiungevano ad ogni sogno una speranza sempre più forte, quella dell'avveramento; Sperarono tanto da conferire via via a quello strano vento tutte le proprietà necessarie alla creazione.

Quando i pensieri si accorsero che la materia li stava emarginando con la sua progressione, escogitarono qualcosa che li salvasse: sognarono stelle (seguendo quel che dai vortici avevano appreso), sognarono sistemi planetari ed intere galassie. Stabilirono che i pianeti non avessero la possibilità di divenire stelle, ma che si raffreddassero.

Ciò permise loro di provare, in questi, ogni possibile legame molecolare e tipo di energia: volevano far nascere spontaneamente una sede per il loro pensiero.

Accadde, appunto, che in uno dei moltissimi mondi si creassero le condizioni per tale origine: nacquero infatti cose, dalla forma più strana delle altre, che sembravano chiedere la facoltà di controllo del movimento.

Ecco che i pensieri la concessero, insieme ad un'altra grande facoltà, che era l'istinto; chiamarono questi esseri, resi ormai viventi, "animali''.

Intanto la materia li spingeva sempre più lontano; così, costretti da forze ormai più grandi di loro, scelsero un animale più capace degli altri e affidarono a lui ogni loro conoscenza, affinché esso avesse la consapevolezza del creato e fosse in grado di evolverlo maggiormente.

Ma, perché non tornasse indietro, era necessario che quasi tutto il suo sapere si limitasse - almeno inizialmente - all' immanente: i pensieri allora decisero, prima di scomparire, di dimenticare la loro identità e come tutto avesse avuto origine. Stava adesso all'uomo sfruttare le sue conoscenze e magari... sognare... e sognando immaginare l'inimmaginabile...


Arjen Duinker

Ninna Nanna

traduzione

Giorgio Faggin

A chi tocca

collezionare le timidezze,

elargire la sete di vendetta,

allietare il surplus con un vettore?

A chi tocca

abbellire la rozzezza,

curvare ciò che è canalizzato,

esternare il battito del cuore?

A chi tocca

semplificare la mancanza

mietere la casualità,

progettare il capo eretto,

intensificare il disgusto,

andare di male in peggio,

approfondire la corrente del sangue arrugginito?

A chi tocca

amare l'inciampo nel silenzio,

assaggiare la stringa solitaria,

amare la scabra pelle?

Ed ora a chi tocca

estasiarsi per l'applauso programmato,

cacciare il paria tra i porci,

concimare l'esatto ventre della presunzione?

A chi tocca adesso

esitare a un inizio,

declamare la targa più strana,

sputare sul discorso della falsa decenza?

E chi andrà,

per deplorare la sua assenza, debole scotto,

per minimizzare il suo ruolo, di bracconiere,

amico, mistico?

E chi andrà a braccetto

per dimenticare, senza ripetere,

per ingrandire il minimo in modo che

nessun percorso desti più paura?

E chi canterà

il canto di un tempo lento, troppo lento,

il canto di ruscelli salati, coperti dall'ombra del mondo,

il canto che brilla nell'oggi,

il canto che solo domani aprirà le sue ali,

il canto della fuga dagli elementi di cartone,

il canto sublime di un forse?

Ma già la notte scivola sulle strade.

Liquido scolorare che riduce le voci

a pietra, asfalto, vetro.

Dormiamo.


Flavio Ermini

da Karlsár

9

Urta i denti la lingua nell'ascesa che sostituisce il passo con l'immobilità del cielo. Poiché sale più in alto, si curva all'interno fino allo specchio, con le parti residue ridestando la lingua nelle acque la terra per ogni sorta di superfici e il fuoco della terra. Allo spazio interno allo sguardo si congiunge in ogni sua parte con la fronte animale, separata da ciò che del cielo rimane secondo l'ordinamento, o la forma vegetale delle cavità esterne e tutte le piume danneggiate.

12

Parla da molte bocche se altrimenti non può ascendere e dalle vene defluisce lungo la propria orbita, altro non essendo che saliva questa promessa nuziale. Si torce al minimo soffio la via che si allunga divenendo luce nel seguire la formazione laterale del sangue. Dove ciascuno degli elementi incontra un'alterazione, conserva la propria forma lo spazio che divide dal gorgo la pietra d'onda e l'incerta superficie del vento.

13

Sulla fronte l'una sull'altra posata la pelle del braccio, sotto ogni parte dell'uomo è presente, se un varco la terra consente verso l'interno. Si aduna e si sperde dinanzi a esse il beato convenendo alle celle, s'imbianca e s'infrange dal braccio alla mano che il mento esiguo nel buio sostiene, nel sollevarsi. Si abbassa con tutti gli occhi là dov'era la lingua alle fiamme sottratta la sua doppia scia e la fonte dell'acqua di nuovo si propaga fino a un altro degli estremi.

15

Non ha valore l'esperienza degli occhi, per cui ogni elemento può essere smarrito, senz'altra aureola che il corpo, né porta il braccio levato l'annunzio dell'oscuro, dal momento che li fronteggia coprendo udito e voce, con la cenere che la bocca per respiro e morte raccoglie e custodisce. Già assorbono il sangue gli occhi come se fosse un piccolo corpo in moto, incastrato in un altro, il dono della vita. Non essendo parole, sono membra e ombre nell'antro di pietra i lembi dello stretto.


Mauro Ferrari

da Mentre cresce un altro tempo

*

Un pover'uomo, un re in brandelli

reduce dai flutti a tante pietre

e rimembranze: un attaccante obliquo,

fuggitivo astuto da quei campi

d'odio e di sterminio infine

ritornato a pane d'orzo e quiete

in questo lento dopoguerra senza dèi.

Ricostruzioni attendono caparbie

le nostre mani ossute e la ragione

clauda dei sopravvissuti.

Vorrebbero che ripartissi,

parlano di gloria e conoscenza:

a un re di capre, che ritrova questa

moglie per divine amanti abbandonate

e un regno di sterpaglie.

La vela ancora, il remo, il flutto

sul volto e il desiderio,

e l'orizzonte vuoto, mostri,

gorghi, terrori e piaceri;

ancora quello chiedono a un pastore

che null'altro impetra che silenzio

e ben compatte mura, un muro

a chiudere la vista stanca

ed un civile cenno presso la fontana.

*

C'è sempre stato un fiume dove adesso

poggia quella mano, e nel suo palmo

un'isola di greto si stendeva bianca

per sventrare la corrente in due navate:

in una mi bagnavo, sottovento e fresca,

a valle dei tuoi fianchi.

Un masso

posò secoli in attesa

della piena che lo colse d'improvviso:

fu là sull'ansa, e non ne resta traccia,

che il sìsifo dell'acqua bianca

infine vinse: un memoriale

postumo di secoli il tuo contorno controluce.

Si sciolgono i capelli

nel sentiero che portava all'acqua

quando il fuoco dei vulcani

era respiro: ed era già il tuo seno

che chiamava roccia, divenendo

il fiato della terra.

Dove s'anniderà,

in quale tana di memoria, l'orma

che scalza m'apre adesso il passo?


Gio Ferri

Saussure al limbo

1. È vero! Della storia della triade linguistica non se ne può più! Ma se prendiamo per mano Saussure, con l'aiuto di Cesare Brandi (Virgilio dimenticato...), e lo conduciamo al limbo, forse si possono attivare alcune, in qualche modo, inedite relazioni. Proviamoci.

2. Che la triade sia insufficiente ad indirizzarci correttamente al luogo della poesia lo sanno, ormai, anche i bambini. Dopo, ed è passato tanto tempo ormai (perciò qualche adulto, a ragione dell'età, se lo dimentica), che alcuni non ingenui linguisti (come, per esempio, Martinet e Jakobson... per fare due nomi qualsiasi) ci hanno spiegato che: la lingua poetica tende per sua natura a funzionare al contrario del linguaggio corrente, giacché il discorso poetico è significante in sé in quanto tale e non in quanto si riferisca a realtà e a contenuti esterni; che il linguaggio poetico rappresenta la violazione delle norme del codice normativo del discorso prammatico, etc. etc.

3. Se la triade è insufficiente, ovviamente, dobbiamo attrezzarci con qualche altro marchingegno, per arrivare dove vorremmo arrivare. Cesare Brandi (ormai son cinquant'anni, ma pochi se ne dan per inteso), ricordandosi nientemeno di Aristotele, ha pensato di porre la triade di fronte all'ipotesi pregressa dello schema preconcettuale: lo spazio in cui, prima che inizi il conto temporale alla rovescia, ciò che va detto è ancora indicibile, ancorché concretamente concepito. Potremmo dire, forse, lo spazio della forma formantesi ma non ancora espressa, ancorché 'materialisticamente' formata.

4. Si può credere che da queste parti possa incontrarsi la poesia autosignificante, anche (per rifare il verso a Duchamp, che proprio da queste parti è andato a cercare la sposa messa a nudo dai suoi celibatari, anche...). Ma dove si colloca mai questo spazio dello schema preconcettuale (sempre 'materialisticamente' parlando)? Se vogliamo presumere,


dai molti indizi, che questo sia il luogo della poesia (anche), ricordandoci del sopra nominato Martinet, dobbiamo pensare che lo schema della triade (che, come la poesia, è fatto di un materiale detto 'parola') debba rispecchiarsi, per ritrovarsi al contrario. E come Alice di fronte allo specchio che tutto rovescia, ci chiederemo: che sapore avrà mai, al di là dello specchio, dove tutto è rovesciato, il latte del gattino? Lo schema preconcettuale potrebbe darci ragione allora del sapore del latte del gattino: là dove il sapore del latte è sì il sapore del latte, ma non è ancora il sapore del latte che sappiamo 'drittamente' descrivere (prima di convincere qualcuno a bersi il latte medesimo).

5. Si dà il caso che i neurofisiologi ci descrivano, ormai con certezza sperimentale, la mappa cerebrale. La situazione reale è assai più complessa, ma qui non posso che schematizzare brutalmente, tuttavia, credo, senza clamorose inesattezze. Ecco allora che individuiamo (ma ciò è ben noto a chiunque legga... che so...le pagine cosiddette culturali del 'Corriere della sera'...) la zona più interna (profonda), il sistema rettiliano, magazzeno delle memorie ancestrali; la zona mediana, il sistema limbico, il magazzeno di tutte le nostre sapienze e di tutte le nostre sensitività, sensualità, e quindi del nostro piacere; il cervello 'più giovane', logico, 'civile' (come la famosa corda pirandelliana), la corteccia. Il limbo sa tutto, ed in sé è assolutamente autosufficiente (anzi è il deposito preziosissimo di tutto quello che c'è da sapere e da non sapere), ma, per gli altri, non sa né leggere né scrivere. La corteccia agisce ordinativamente e prammaticamente - esercitando non poche censure, che non piacciono per nulla alla poesia! - verso l'esterno per l'attivazione motoria e vibratile dei sensi, e dei rapporti sensuali. Ma tramite il suo lato prefrontale deve necessariamente (altrimenti sarebbe solo un hardware senza software) pescare nel limbo, o addirittura nel rettiliano, per conseguire il sentimento necessario a identificarsi in empatia con altre entità.

6. Credete che non si possa trarre il parallelo: rettiliano-limbo = schema preconcettuale = luogo della forma formantesi (che potremmo chiamare il non dicibile della poesia, epperciò il senso-in-significante della poesia medesima)? Graficamente il parallelo si può concepire. E, per quanto mi riguarda, mi aiuta a ribadire una mia maniacale distinzione fra comunicazione (attività della corteccia) e comunione (attività mediata


dal limbo tramite la corteccia prefrontale).

7. [Vorrei qui registrare una recentissima - forse ancora non scritta - felice intuizione dell'amico Emilio Del Giudice, fisico e...umanista, in relazione allo studio sugli 'infiniti' anagrammi nell'Infinito di Giampaolo Sasso - leggi "La dimostrabilità delle strutture anagrammatiche in poesia'' negli atti del convegno "Letteratura e scienza'', Milano, 1993/1995. Pensa Del Giudice, preso atto degli schemi sopra ipotizzati, che la tensione rivoluzionaria paradossale rovesciata delle figure retoriche, il vortice che le stesse, ponendosi al contrario, scatenano indiscretamente (immoralmente) nella fissità ragionativa e manieristica del discorso prammatico, possano superare la barriera inibitoria della corteccia per smuovere le autonomie represse del limbo, attivando le potenzialità indicibili del piacere, che nel limbo ha il suo centro energetico. Dico del piacere che anche la psicoanalisi coniuga, tra l'altro, con la poesia].

8. Non posso giungere, per ora, che ad una conclusione. Che potrebbe apparire banale e ovvia se da più parti non si insistesse (incredibilmente) sulla poesia come comunicazione, senza tra l'altro analizzare sapientemente l'utilitaristico attributo, là dove la poesia è ormai riconosciuta come inutile in rapporto all'utilità strumentale del discorso prammatico. Quel discorso che si affida tutto all'astrazione logica convenzionale e manieristica (troppo spesso menzognera) elaborata dalla corteccia, dopo il furto perpetrato nei magazzeni del nostro sapere e della nostra sensibilità. Una conclusione al contrario rispetto alle irragioni del senso comune, il quale, ingenuamente o furbescamente, crede che l'arte e la poesia siano astrazioni convenzionali, e la ragione, prodotta utilitaristicamente dalla corteccia, sia la verità oggettuale, in quanto 'logica'.


Terza parte

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