Franco Fresi |
||||||
Per dormire,
la sera
Raccolgo le mie gioie per dormire, la sera, come il cane racimola le foglie. |
||||||
Sulle Rovine
di Cartagine
Come per un attimo il sole sulle rovine di Cartagine ti fa ridere gli occhi controvoglia! Creatura di penombra, mi eri più comprensibile non vista col tuo cauto alfabeto da reclusa dietro bianche pareti al Sahara Beach. |
||||||
Sigbur-Said
Nello scosceso cimitero di Sigbur-Said sempre aperto ai turisti gli analfabeti hanno belle tombe colorate. Bianche le altre. Una cupola minuscola e un gradino per i bimbi. Due cupole per le madri e due gradini. Per gli uomini sposati, due cupole più grandi e tre gradini. Le vergini dormono in tombe piatte con due gradini e una cupola. Qui, nuda e supina, nera nel bianco della calce, una fanciulla, chiusi gli occhi all'affilato sole di settembre, la ciotola sul pube. Nessuno passò senza buttarci una moneta. |
||||||
Lucetta Frisa |
||||
*
Dove sta il ricordo in quale casa labirintica in quale mattone neurone cellula fibra appare appena raschio l'intonaco ombra tagliata di striscio e non parla italiano nessuna lingua di padre o madre ha sapore di bianco ancora si muove tra i denti * Lasciati andare mi dici spegni la luce andare dove mi chiedo dove si va dopo l'ingresso nei sogni. Qualcuno veglia ferocemente o solo un velo leggero appena mosso da un vento. Non so. Anche i sogni si aggirano in prigione anche le stelle. A volte le parole mi comandano tra loro si parlano strappano dalla mia testa un filo aggrovigliato se ne vanno con lui sfondano insospettabili buchi piccoli universi dove stavo prima di loro. |
*
Questi che mi vivono in giro nascono dimenticando hanno già fermato la marea come Mosé spianato città installato i loro doppi ci sono doppi uomini e parole replicanti con ossa macinate orizzontali e cose raddoppiate - tutte in luce - la loro ombra è lontana la loro carne per sempre dietro al cielo per sempre dietro - ma c'è mai stata un'ombra? |
|||
Sandro GastaldiNatura morta |
||||
Risponde alla mente l'odore denso del vino, la voce risuona in onda sul tono della tosse, bevendo per accendere fumo sullo specchio pesante dell'ombra del vino, senza memoria: lì sono ombre e corpi, gente scolorata sotto fronde e pietre, poste ordinatamente, di cupo blu e dolce verde, luce opaca di sole e di occhi, colore bruno di fango, della terra pietrificata, male scacciato, ombre di sorridente cinismo: smarrimenti sfilacciati di materie quotidiane, radici degli sterri, sfascio di luce con la serpente acqua, lo sgarro del fiume, nelle vie e nel male: poi il colore del vino, l'ombra serena del verde di maggio. |
||||
E a me tocca bruciare per te, nera candela bruciare, nera candela, e non osare pregare Mandel'stam |
|||||||
Elio GrassoNeve di luglio |
|||||||
I.
Ora sei in una chiusa staccata non detta da questo paese. Allo scatto il sonno riunisce travi e pensieri, tiri e fermate nei clamori frontali. Luglio del feroce sollevamento mese travestito a lunghi balzi. II. Sia come la terra giunta al colmo nel rettangolo che cattura seggiola e rosso consanguineo fatale per qualche idea che salpa senza ardire dal mare verso il porto verso questo tempo di mezzaluna di miserabile scomparsa d'alleati. III. Luglio di guerra, di cere scure negli ardimenti notturni nelle corone di fogliame. Mese che scaglia sviluppi d'armi sulle colline. Fra le soglie si spiega una conoscenza di pietre che sgretola il giuramento. Valanghe, fumi, ferite ci capivano, ci capivano tutti. |
IV.
Sempre quel falciato - abbassa le vertebre al suolo, e la soglia resta giurata decisa dalla tua nautica acrobatica. Sempre quel falciato - proclama compleanni e numeri un mese falso per l'estate, conoscendolo in bianca acrobazia. V. Neve di luglio, viene figlia alla fine scende come pane, peso, qualcosa di storto... Neve che possiede, ferma l'estate che non si conosce la stessa vita ferma nel capogiro. La soglia ora vendemmia come se questa sete ti volesse a contare le ore, non ascoltando che per sé. |
||||||
Stefano LanuzzaJoyceroe |
||||
Proveniente da una solitudine
della parola dove non c'è posto per i riti della società
spettacolare, James Joyce: si ripensi a questo straordinario tessitore
e demiurgo della lingua, al suo metodo lentissimo e rigorosissimo di lavoro,
alla sua noncuranza del successo, alla sua inenarrabile indigenza, all'incomprensione
e alla censura che lo circondarono. Non un libro, una pagina, un solo rigo
gli furono pubblicati senza infinite difficoltà: per tutte queste
ragioni, pertinenti alla grandezza della sua opera, egli merita la nostra
più grata attenzione.
Nato a Dublino nel 1882, Joyce mori a Zurigo il 13 gennaio del 1941. Il critico Cyril Connoly lo definì uno degli "ultimi Mammut'', appartenente a una razza estinta di giganti per i quali la vita ha senso solo se valorizzata nell'opera d'arte. A quest'opera, che è la propria vita fatta arte, Joyce dedicò tutto se stesso, fra rinunce, privazioni, abbandoni, spinto solo da una passione della verità e dell'intelligenza della lingua che ha riferimento nei massimi iniziatori della letteratura di tutti i tempi, da Omero a Dante. In massima parte, davvero la vita di Joyce è la sua stessa opera, pienamente realizzata nell'esigenza d'interpretare un'epoca che è ancora la nostra, all'interno di una storia personale che appartiene anche all'uomo contemporaneo. Ciò accade attraverso un'appropriazione sottile, profonda e assoluta della realtà nel senso più estremo, violento e totale, là dove l'immaginario quotidiano si è fuso potentemente con i simboli e i miti dell'umana vicenda. Nascere a Dublino come Swift e Shaw ha significato per Joyce quel che può avere significato per Pirandello e D'Arrigo nascere in Sicilia: due centri magari ideali, Irlanda e Sicilia (questi luoghi estremi delle lingue indoeuropee, l'uno del gruppo celtico, l'altro connotato dalle influenze greche, dalla romanizzazione, dagli influssi bizantini, arabi, normanni e iberici fino alla letterarietà italiana con le caratterizzazioni postunitarie: ed entrambi, luoghi irlandesi e siciliani, accomunati da un'espansività di cuore, da una perdizione romantica che sono sia celtiche, sia siciliane), perché i due geni insulari potessero aprire a tutto il mondo quanto lo stesso Joyce chiamava la "coscienza increata'' della propria razza. Ma se Pirandello ebbe in vita il meritato riconoscimento, questo non |
||||
accadde a Joyce, schiacciato
dall'esilio e dall'ostracismo, dal rifiuto e dall'emarginazione, vagabondo
in un'Europa estranea e nemica. Infatti, non c'è scritto joyciano
in cui l'autore non trasfonda la propria dura esperienza umana. Questo
avviene fin dal suo primo libro, Stefano Eroe, composto fra il 1903
e il 1904 e rimasto incompiuto, seguito dai quindici racconti di Gente
di Dublino, pubblicati nel 1914 dopo essere stati rifiutati dalla maggior
parte degli editori dublinesi, fino all'Ulisse del 1922 e all'immenso
Finnegans Wake del 1939.
L'esilio di Joyce - che lascia l'Irlanda a soli ventidue anni, nel 1904, insieme a Nora, la ragazza povera che diverrà sua moglie - durerà tutta la vita. A Parigi, riuscirà a pubblicare il suo libro più celebre, Ulisse, monstrum della letteratura novecentesca, capace di sconvolgere ogni modello della narrativa occidentale e segnare una nuova era del romanzo. La notorietà appena acquisita sarà per Joyce turbata, come accadde a Pirandello che scontò il disagio mentale della moglie, dalla follia della figlia Lucia, da un'incipiente e poi sempre più grave cecità e infine dalla fuga da Parigi, causata dall'invasione nazista del 1940. Lo scrittore morirà l'anno dopo a Zurigo, in miseria. Conclusa la dolorosa biografia di Joyce, iniziano, con la ricostruzione della sua variegata bibliografia, i motivi d'uno stupefacente lavoro letterario cui sono connessi i più dolorosi elementi dell'esistenza di ogni uomo moderno e contemporaneo. Esistenza come riflesso d'una cultura in perenne metamorfosi, fin dalle prime poesie e dagli apologhi di conio realista-naturalistico. Dal "realismo e romanticismo celtico'' (cfr. Joyce stesso) dei racconti di Gente di Dublino, influenzati da Cecov e Maupassant, fino all'apostasia rivolta contro il proprio passato, intessuto di un'educazione gesuitica e repressiva, di puritanesimo ipocrita, di retorica patriottarda. Joyce legge Ibsen, Verlaine, Huysmans, il Flaubert più sardonico, si interessa delle poetiche del simbolismo e del decadentismo ("scopre'' D'Annunzio, specie quello de Il fuoco), matura un acceso anticlericalismo, esprime il suo noto antinazionalismo e antieroicismo da revolté disilluso della vita etica, ma convinto dall'ideale di una vita estetica, per cui vivere sarà abitare artisticamente il mondo. Quando l'arte finisce di surrogare per intero la vita di Joyce, è tempo dell'Ulisse, la più radicale rivoluzione della modernità letteraria, l'epopea di due razze, quella ebrea e quella celtica, che mutua la generale e veritiera epopea della condizione umana. La tecnica scrittoria di questo libro, che sarà ulteriormente e parossisticamente sviluppata nel Finnegans Wake, ha un antefatto nel Tristram Shandy (1760-67) di Sterne e in |
|||
I lauri senza fronde
(1888) di Dujardin. Ulisse rappresenta la sintesi emblematica dell'antieroicismo
dei personaggi letterari, modelli di "uomini senza qualità''
privi anche delle mal celate qualità dell'Ulrich di Musil. Scopo
di Joyce è narrare una giornata di Leopold Bloom - figura nostalgicamente
paterna e, pare, ispirata all'uomo Svevo, come riferirà la figlia
dello scrittore triestino, Letizia, nelle sue memorie - e di Stephen Dedalus,
alter ego giovane dello stesso Joyce, che si rispecchia in modo intermittente
anche in Bloom. È una giornata che metaforizza "tutta una vita''
riassunta nel modulo del nostro "infinito quotidiano'': metafora di
un viaggio nell'esistenza che attraversa la fisiologia, la chimica cerebrale,
la storia e la mitologia dell'uomo comune gettato nel mare dell'esistenza.
Articolato secondo gli episodi dell'Odissea omerica, il testo dell'Ulisse rifrange il trascorrere indifferente del tempo, l'apparire impassibile degli oggetti, il succedersi spietato degli eventi, insomma le epifanie della nostra vita mutante e medesima, così labile eppure condannata alla ripetizione "eterna'', all' "eterno ritorno dell'eguale''. Non è dato, per non incorrere in banalità e approssimazioni, riassumere l'immenso flusso di materia letteraria e umana circolante in un romanzo che muovendo insieme le corde del dramma, della parodia, della farsa, e cogliendo il disordine dell'essere, rappresenta tutto questo in una coralità dove lo stesso disordine diventa forma di disillusione dell'individuo, che si educa a distinguere la causa dall'effetto e la verità dall'apparenza. Bloom e Stephen sono le metonimie del bisogno di Joyce di legare un creativo senso comune, pertinente alla verità, e un inquieto sentimento estetico legato all'apparenza. Tra questi due poli magnetici, Joyce organizza il suo materiale linguistico con l'intento non solo d'imitare la realtà ma di integrarla in una consustanziale esperienza con la scrittura. Qui, forma e contenuto si eguagliano nell'indifferenziazione temporale: per ciò stesso, lo scrivere è lo stesso leggere, così come respirarare è vivere. Nessuno scarto, perciò, fra scrittura e lettura: il viaggio della vita è il viaggio del testo, e l'itinerario del viaggio è scandito dall' "orario'' degli accadimenti occorsi a Ulisse-Mr. Bloom, che si aggira per Dublino durante sedici ore di veglia. Accadimenti registrati nella cronaca mattinale intorno a Telemaco-Stephen e conclusi dal monologo di Penelope-Molly Bloom, a formare, in totale, una giornata di diciotto ore e quarantacinque minuti, un giovedì 16 giugno 1904, fra personaggi parodisticamente nobilitati in eroi omerici. |
||||
Si tratta di un'epica corporale
resa con scrittura somatica e somatizzante; è un'avventura esistenziale
"completa'', eroica, patetica, comica e disperata, quest'odissea che
Bloom-Ulisse-Joyce adulto divide, per le strade e i locali di Dublino,
con Stephen-Telemaco-Joyce giovane, per metamorfosare infine con lo stesso
Stephen in Ognuno e quindi, nihilisticamente, in Nessuno: ossia nella folla
di dublinesi, referente.della moltitudine umana, dei tanti Nessuno d'una
vertiginosa Nessunèa che mai, prima, aveva conosciuto cantore più
radicale, sincero, straziato, impietoso e partecipe della sconfitta dell'uomo
storico, d'ogni individuo determinato dalla storia. Questo, a differenza
del soggetto astorico e antistorico per elezione, sintetizzato in Molly
a indicare l'unico barlume salvifico nell'accettazione, squisitamente femminile,
della condizione umana.
Penelope-Molly, moglie adultera di Bloom ma anche madre inconscia, onirico-simbolica, sostitutiva della madre morta di Stephen e, insieme, concentrato dei miti femminili non accettati dalla storia, è soprattutto l'àncora di salvezza che Joyce, concludendo la sua epopea nullificante, lascia in retaggio ai lettori. Costoro - nella conoscenza artistica, vale a dire "totale'', della natura femminile trasvalutante il misticismo della fenomenologia del maschile, a indicare il principio del piacere - impareranno che la salvezza dell'umano riposerà alfine in una trinità dissacrata, che comprende sì il Padre e il Figlio, ma è completata dal corpo naturale femminile, principio dell'estasi corporale e luogo d'ogni fertilità: se lo spirito negava faustianamente la vita, è la corporalità di Molly che alla vita saprà dire sì. Ma quanta consapevolezza culturale, toccante conoscenza umana, capacità di rappresentazione simbolica e scienza della scrittura prima di far sfociare l'Ulisse nell'affresco del monologo di Molly, cifra abbagliante dell'arte joyciana! Il mosaico fonico-semantico delle novanta pagine del monologo sarà l'epitome, quante altre mai gratificante per il lettore capace di "guadagnarsi'' fino in fondo la lettura dell'Ulisse, di un'arte della parola che sigilla - esclamava Hemingway in una lettera a Sherwood Anderson - "un libro maledettamente stupendo''. Ovvero - si può precisare - un libro "maledetto'', ossia difficile da tollerare da parte di lettori abituati alle consolazioni e alla coscienza ristretta della letteratura di consumo, e "stupendo'', perché in esso la realtà del vivere viene rappresentata in modo talmente intenso da stupire. Lo stesso stupore, questo sentimento di chi è toccato dalla rivelazione e capisce d'un tratto - detto con un moderno autore di successo - quanto sia "insostenibile'' la |
|||
"leggerezza dell'essere'',
proseguirà con un libro che lo scrittore irlandese non poteva scrivere
se non confermandosi degno dell'Ulisse. Si tratta del citato Finnegans
Wake, titolo polisemico stante per La Veglia di Finnegans o
Il Risveglio di Finnegans o anche La Discendenza di Finnegans;
come a dire che il protagonista non è uno - Finnegan - ma molti
- Finnegans: la veglia è pertanto connessa al comune sogno dell'umanità.
Scritto da Joyce nell'arco di diciassette anni, dal 1923 al 1939, Finnegans
Wake è il massimo monumento della letteratura sperimentale,
una vera e propria miniera per ogni campo della cultura e della lingua.
Per scrivere il sogno di Finnegan, Joyce s'ispirò alla ballata popolare riguardante un tale Tim Finnegan, gran bevitore, caduto da una scala a pioli e ritenuto morto dagli amici, che organizzano una veglia funebre durante la quale qualcuno versa whisky sul presunto cadavere, che a quel punto si desta - "resuscita'' - e si unisce alla veglia diventata subito festa. A quest'esile trama, cui Joyce applica in modi proteiformi la sua privilegiata metafora della caduta e resurrezione, l'autore lega le vicende di Humphrey Chimpden Earwicker, oste a Chapelizod nel suburbio dublinese, le cui iniziali, H. C. E., sottotitolo del Finnegans, significano altresì Here Comes Everybody ("Qui Viene Ognuno''). Sicché la sigla H. C. E. starà a riassumere la storia dell'umanità, piena dei sogni e dei desideri che Joyce fenomenologizza in una sola notte. Finnegans rappresenterà allora la faccia notturna, necessaria, di un'unica moneta, prima coniata nella diurna fisionomia dell'Ulisse. In questa notte mutuano nel sogno, all'insegna della metamorfosi, la storia e la cronaca spicciola dell'uomo in quanto individuo e specie, corpo soggettivo e corpo-massa. Per descrivere siffatta notte avvolgente l'incubo della storia, Joyce ricorre a una sorta di superlingua enciclopedica dove la lingua di base, l'inglese, si atomizza fungendo da legante delle lingue del mondo, accorse a sostenere, in circa seicento fitte pagine contraddistinte dall'allitterazione, dall'assonanza e dall'etimologia, dall'acrostico, dal palindromo e dall'anagramma, la tragedia irreversibile dell'umanità posseduta dal demone storiocentrico. Tra calchi, radici, prestiti dal sanscrito, ebraico, greco, basso sassone e islandese antico, dal tedesco, francese, spagnolo e italiano, ma anche indostano, malese e swahili, s'è calcolato che, per il Finnegans, Joyce abbia tratto parole da almeno una ventina di lingue, sottoponendole a minuziosi trattamenti trasformativi, analogici e rigenerativi. Ne risulta una testualità scomposta, al pari della materia, in minime |
||||
unità significanti,
in atomi, protoni e neutroni semantico-lessicali, a riprodurre quell'atomizzazione
del reale e dell'esperienza degli uomini dissolti nel caos. Un caos che,
metaforizzando l'odissea del testo e la trama esistenziale dell'uomo, non
vuole però introdurre nessuna apocalisse. Tende bensì a tradurre,
ancora una volta e allo stesso modo del monologo di Molly, un'accettazione
non passiva, bensì critica e tutta creativa, dell'esistenza.
Si tratta in fondo di quello stesso caos, magma entropico pullulante di vitalità gemmante, cui già Pirandello contrassegnava positivamente la casa della sua nascita a Girgenti, chiamata, appunto, "il Caos'', traslato d'un rassicurante grembo materno. |
|||
Ernesto LivorniDivelta la luce |
||||
Soltanto il vento grosse fole spira sulla sua casa annodata alla roccia: nuda è la spiga di vita che vizza la foglia affagotta sperduta, fiocca la luce il frammento di legno fracido senza vernice. Rattiene il respiro mentre scruta l'occhio della finestra: "Il pertugio di luce'' mi dice "che filtra dalla ferita della parete, mi pare prodigio: va per la vetrata della veranda, apre il pulviscolo grigio alla sfera iridata dell'aria immonda che solo il vento poi scuote.'' L'ultima fiamma affoca, luminando la spera, lo sguardo distratto di figlia spaesata al seno di figlia, raggio improvviso abbagliante tramonta: "ti saluto tuttora'' sussurra ad un'ombra come trascorsa con l'ultima fola divelta la luce. |
||||
Pasquale MaffeoIl Sereno Untore |
|||
La vocazione lirica di
Alberto Cappi disegna un percorso fortemente connotato e autonomo cui non
poco ha giovato e giova il parallelo esercizio critico e di traduttore
condotto su autori e istanze espressive del nostro secolo. Dall'esordio
con Passo passo nel '65 alla raccolta Il sereno untore (Caramanica,
1997), cinque tappe scandiscono il suo divenire lungo una linea di fedeltà
alla parola che implica lievitazioni semantiche e meliche, luminose proiezioni
a raggiare il campo.
Dal suo fondo onirico ancora una volta Cappi ha tratto e dipanato il filo d'oro di cui ha tessuto la trama, impalpabile e senza peso, dì queste ultime pagine. Si pensi a un barocco modernamente rastremato e lieve, depurato fino alla scarnificazione delle sinopie, fino all'essenzialità dei cenni, trepido di scatti e volute, estroso di suoni ed echi, e si avrà la cifra della sua scrittura poetica. Nella quale, a rintracciare antefatti e ascendenze, risulterà serpeggiante e rattenuta un'ansia surrealista cui è mozzato il fiato dalla severa misura formale, dal preciso dire e scandire, dall'esatta pausa, dalla rima che espande, dal silenzio che taglia la sintassi. Ma attenti a non lasciarsi fuorviare da una svista: questo di Cappi non è gioco: o meglio, nel suo raffinato elitario sortilegio inventivo il poeta in parte dissolve e in parte maschera le morsure esistenziali. Ecco un esempio: "pietà di noi / che fummo stolti / tolti / al nostro desiderio / per lunga età / di conoscenza / e senza parte / desti a scienza / e fedeltà dell'arte''. È come un procedere per inneschi verbali nel quale suggestioni e soluzioni strofiche consumano le scorie e lasciano trasparire le nervature dell'esistenza. Che Cappi traspone in sensi e visioni creaturali, così saldando il cerchio e dichiarando sottesa la sua identità strinata di gioie e lacerazioni anche religiose, anche metafisiche: "signore iddio / perso / in questo polverio / dell'universo / in / questa mia ferita / avuta / avita / lasciata / al brulichio dell'io''. Testi brevi, talora minimi, articolati nelle scansioni di un polittico che via via dilata e diviene mappa, planetario d'una vicenda, queste sue poesie evocano e resuscitano presenze interlocutorie, reali o della memoria o solo storicamente plausibili, che instaurano un passo dialogico, un tendersi e attendere in limine. Uomini e donne, ma altresì fantasmi, idee, sogni, ammiccano e salutano in un loro apparire e vanire. Quasi che nel corrispondere e identificarsi sia una ragione che ratifica il cammino. E poco importa che di là, a scrutarlo, si affacci un alter ego, una controfigura per la possibile intesa: "non lieve / il greve morso / della noia / malinconia / ignota nota al cielo / un miele breve / il volo''. In queste punte è l'assolo di Cappi.
|
|||