Il Sogno di Pico

Gianna Pinotti

Il Sogno Cortese dalla Manta a Treviso:

figure dell'immaginario nell'arte padana

Omnia vincit Amor: et nos cedamus Amori

Virgilio

La Marca Trevisana e il Polifilo

Il territorio di Treviso è la Marca per eccellenza: il germanico marka, equivalente a segno o confine, è il termine medievale che indica una zona di frontiera, affidata sin dall'epoca carolingia a un comes detto Markgraf. Ma la regione trevisana è soprattutto la Marca zoiosa et amorosa, così chiamata grazie alla vitale lietezza e alla passione per gli svaghi amorosi che i suoi abitanti mostrarono fin dai tempi piú antichi.

La città veneta viene introdotta nel secondo libro dell'Hypnerotomachia Poliphili come luogo di origine di Polia e della sua famiglia, i Lelli. Questa seconda parte, che inizia con una vera e propria allegoria geografica ed è tempestata da citazioni di storie d'amore mitiche (piú volte compare la coppia formata da Atalanta e Ippomene, affiancata da Laodàmia e Protesilào, Teseo e Arianna, Pico e Canente, Faustina e il gladiatore, e altre ancora), si sviluppa entro un'atmosfera concretamente amorosa, in assenza di descrizioni architettoniche e decorative. L'azione si svolge appunto a Treviso, ''Una nobile et magna citade di gente municipa, dal collo Taurisana nuncupata, et di studio litterale, et militario, et di sito uberrima, et amena, et di culto veterrimo, et di sanctitate et religione verissima hospite, sopra il properante et pernice Patre Sili. Et datogli il nome della pia matre Trivisia...'' Si tratta dunque di una nobile e grande città con la dignità di municipio, che prende il nome dal colle Taurisano; nobile sede, in un paesaggio ameno, di scuole umanistiche e militari; sede anche di antichissimi culti sacri. L'autore dichiara che Treviso deriva da una doppia radice: i monti Taurisani e Trivisia Calardia Pia, madre che l'illustre Lelio Maurio, da cui discenderebbe Polia, avrebbe inteso in questo modo onorare.

Ci vengono dunque offerti significativi elementi relativi alla città veneta, alla sua storia e alle sue tradizioni: ma nel contesto del romanzo il luogo sembra assumere un forte valore simbolico, pur conservando intatta la propria realtà. Come si possono conciliare due aspetti tanto contrapposti?

La prima cosa da analizzare per cogliere il senso della voce 'Treviso' è la sua etimologia, che ovviamente ci suggerisce l'idea di triplicità. Non affrontiamo qui la derivazione reale del termine, che probabilmente ha a che fare con un'antica tribú protoveneta. Ci limitiamo ad osservare alcuni passaggi sottintesi che nel romanzo hanno forte capacità evocativa. La parola, ad esempio, può apparire composta dal numerale tres e dal termine neutro visum, corrispondente alla cosa veduta, all'immagine, al sogno. Visum è anche il participio dei verbi videre e visere: il primo indica l'atto visivo e figurativamente denota la percezione intellettiva, quasi il cognoscere; il secondo implica un'azione piú attenta, di osservazione e contemplazione. Notiamo poi che il sigillo medioevale di Treviso mostra tre torri, piccole le laterali, piú alta la centrale; nel motto, Monti Musoni Ponto Dominoque Naoni, vengono definiti i limiti della Marca a partire dal dodicesimo secolo. Così, un'antica tradizione ha voluto leggere il nome come tres - vici, cioè tre borghi o villaggi che costituiscono il territorio. Infine, il latino Tarvisium può certamente suggerire un legame con il toro (celtico tarvos); seppure filologicamente errata, tale associazione ci introduce ad un mondo amoroso di cui presto esploreremo i confini.

L'autore dell'Hypnerotomachia conobbe senz'altro il luogo. Ma questo gli è utile come scenario che evidenzia la natura della protagonista femminile del Sogno, sogno che verte sull'Amore e sul particolarissimo svolgersi del racconto nel Tempo e nel Mito. E Treviso può ben dirsi, per le sue peculiari tradizioni, la città dell'Amore Cortese.

Dante ricorda la Marca Trevigiana nella Commedia (Paradiso, IX, 25 - 33), quando fa parlare Cunizza da Romano, luce del cielo di Venere, il cielo degli Amanti; costei fu celebre per le avventure passionali vissute in gioventú, tra cui il rapimento da parte del poeta Sordello da Goito, che a Treviso verseggiava: ''In quella parte della terra prava / italica che siede tra Rialto / e le fontane di Brenta e di Piava, / si leva un colle, e non surge molt'alto, / là onde scese già una facella / che fece alla contrada un grande assalto. / D'una radice nacqui e io ed ella: / Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d'esta stella...'' Dunque, uno dei personaggi piú infuocati di puro amore che siano accolti nel Paradiso proviene da una zona limitrofa alla provincia trevigiana; il fratello Ezzelino fu d'altra parte spietato tiranno della città veneta..

Non sappiamo se Dante abbia mai dimorato nella Marca. A Treviso venne però sepolto il figlio Pietro, morto nel 1364, la cui arca marmorea è visibile oggi nella stessa Chiesa di San Francesco dove riposa anche Francesca Petrarca, figlia del celebre poeta, che invece visse a lungo nella vicina Arquà. Ricordiamo inoltre che Giovanni Boccaccio ambientò proprio a Treviso la prima novella della seconda giornata del Decamerone.

Il Duecento e il Trecento corrispondono ad un periodo florido del Comune e della Marca Gioiosa; Treviso era divenuta la terra prediletta dei poemi epici francesizzanti e delle loro rappresentazioni figurate. Nel corso del tredicesimo secolo la città si ricoprì di vivaci affreschi che rappresentavano i racconti piú diffusi della letteratura carolingia ed arturiana; nacque così l'appellativo di urbs picta, città dipinta. A Treviso furono dunque accolte con entusiasmo, fin dal loro primo diffondersi in Italia, le leggende cavalleresche. Non solo vennero ospitati i cantores francigenarum, i menestrelli di Francia, ma si cercò in ogni modo di illustrare le gesta degli eroi della nuova epica. Mentre il ciclo di Orlando e Carlo Magno sottolineava i valori maschili del guerriero, i protagonisti del ciclo bretone combattevano per acquistare meriti presso la donna, la dama, la domina. Così, il tema dell'amor cortese, centro ispiratore e motivo profondo della letteratura romanza, si lega sempre piú alla tradizione della città. Fra i trovatori che qui cantarono ricordiamo, oltre a Sordello, Ugo de Saint Circ, Obizzo Bigolini, Ferrarino da Ferrara, Alberico da Romano.

Un monumento che riflette le particolari usanze della città è la Loggia dei Cavalieri, che serviva come punto di incontro dei Milites e dei Nobili del Comune: costruita alla fine del dodicesimo secolo, presenta vari motivi decorativi; gli affreschi svolgevano tematiche attinte dai cicli cavallereschi, completati da fiori, animali e stemmi. Resti di pitture cortesi ornavano variamente i palazzi cittadini. In un edificio di via Collalto, dimora dei conti omonimi, esistevano pitture murali amorose, ora in parte trasferite presso il Museo Civico: esse ad esempio raffiguravano la curiosa leggenda della donzella che si fa beffe del filosofo Aristotele, di lei invaghito.

Oggi, molto interessanti sono gli affreschi cinquecenteschi delle case di via Sant'Agostino, sulle cui facciate ammiriamo Marte e Venere, oltre al Giudizio di Paride con Venere, Giunone e Minerva. In via San Nicolò spicca un magnifico cavallo rampante. Casa Federici in via Stangade mostra dipinti di tema virgiliano raffiguranti la distruzione di Troia, Enea che fugge con Anchise sulle spalle, Didone che si trafigge. In via Riccardi una facciata quattrocentesca mostra una scena della Giustizia di Traiano ingentilita dalle figure di Venere e Cupido. Ricordiamo anche la Casa di Leda, così chiamata dalla rappresentazione in facciata del mito di uno dei celebri amori di Giove.

Dagli archivi locali risulta che i trevigiani avevano un'indole giocosa, dedita agli svaghi e ai divertimenti amorosi. è del 1214 la celebre festa del Castello d'Amore, ideata dal podestà Salinguerra dei Torelli di Ferrara e svoltasi il 19 maggio nella località detta Spineta, intorno ad un castello di legno tutto adorno di arazzi e tappezzerie, difeso da fanciulle e matrone trevigiane e padovane e dalle loro ancelle, ed assaltato da garzoni e cavalieri di Treviso, Padova e Venezia. Le dame e i cavalieri usavano armi gentili: fiori, frutta, profumi e dolci cibi (vedi il Torneo davanti ad un Castello d'Amore, ritratto sul retro di uno specchio verso il 1500). Ma a questa festa amorosa si legano anche vicende cruente, come la guerra detta appunto del Castello d'Amore o della Torre di Bebbe, ovvero la battaglia scoppiata nel 1215 tra i Veneziani e i comuni di Padova e Treviso, dopo la grave offesa recata alla bandiera di San Marco da un padovano in occasione della tradizionale ricorrenza.

Ricordiamo inoltre le parole contenute nell'esemplare marciano dell'Entrée d'Espagne, opera che narra i fatti antecendenti alla Chanson de Roland: Mon nom vos non dirai mai sui Patavian / De la citez qe fist Antenor le Troian, / En la joiose Marche del cortois Trivixan... Questi versi ripropongono gli aggettivi 'gioiosa' e 'cortese', riferiti entrambi al territorio di cui ci stiamo occupando.

Un altro particolare di fondamentale importanza è il soggiorno a Treviso di Francesco Petrarca; già dal Trecento inizia ad affermarsi il fenomeno del Petrarchismo, importante fatto di cultura e di costume le cui ragioni artistiche e ideali stanno ''nell'aver il Petrarca raffigurato con forma originale una condizione sempre rinnovantesi, il conflitto interiore suscitato dall'amore, la guerra inestinguibile in cui dentro di noi viviamo, posti come siamo tra ideale e realtà...'' (Calcaterra). Il grande poeta visitò piú volte la Marca e, come abbiamo già ricordato, trascorse gli ultimi anni ad Arquà. La figlia visse con il marito a Treviso, dove venne trasferita gran parte della biblioteca del padre, una delle piú belle collezioni di manoscritti di ogni tempo.

Ricordiamo che Ermolao Barbaro, vescovo della città dal 1443 al 1453, fece affrescare il palazzo vescovile con scene che ritraevano alcune feste romane, affiancate da quattro tele su cui spiccavano altrettanti Trionfi, in parte ispirati ai Trionfi del Petrarca medesimo, e in parte allusivi alle leggende di Treviso. Oggi, nulla resta di questi dipinti, distrutti nel 1590 da Francesco Cornaro; benché sia difficile distinguere le notizie esatte dalle dicerie, pare che fra le processioni trionfali apparissero anche figure di tori. Come abbiamo già osservato, l'autore dell'Hypnerotomachia afferma che il territorio trevigiano trae il suo nome dal colle Taurisano: ''nobile et magna citade di gente municipia, dal collo Taurisana nuncupata... ''. La parola richiama alla mente del lettore il vocabolo taurus. Astrologicamente, nel segno del Toro trova la propria sede il pianeta Venere, come testimoniano le rappresentazioni legate al suo Trionfo (ad esempio, il Trionfo di Venere nel palazzo di Schifanoia a Ferrara). Questo segno si trova al centro della stagione primaverile, dominando la fine del mese di Aprile. Il mito della costellazione si lega all'amore di Zeus per la ninfa Europa, trasformata in giovenca dal dio; e il toro è il simbolo della generazione e della forza fecondante. Ma è anche attributo di Cibele, la Grande Madre che, una volta ellenizzata, diviene la madre terra protettrice della vegetazione e dell'agricoltura.

Il toro sacrificale assume particolare importanza nell'Hypnerotomachia in relazione al Trionfo di Priapo; qui, la figura di un asino sgozzato si presenta proprio come il toro di Mithra, il dio che affonda nel collo dell'animale la daga volgendo il capo per non vedere il sangue che sgorga dalla ferita. Il Taurobòlio, ovvero la scena tipica dei bassorilievi mitraici, era anche un rito delle cerimonie in onore di Cibele, e consisteva in un battesimo di sangue in cui il fedele, calato in una fossa coperta da un graticcio ligneo, riceveva il sangue del toro sgozzato. Un sacrificio brutale che si avvicina alla cruenta scena del 'Sogno di Polifilo'. Nella medesima opera il toro appare ripetutamente nell'episodio del primo trionfo, proprio quello associato all'amore di Giove per Europa. Curioso particolare: la ninfa afferra il toro divino per le corna, in modo simile al gesto di Mithra.

Anche Petrarca nel suo Trionfo di Amore ci presenta una indicazione stagionale che mette in evidenza il legame di Venere con il Toro: Al tempo che rinnova i miei sospiri / per la dolce memoria di quel giorno / che fu principio a sì lunghi martiri, / già il sole al Toro l'uno e l'altro corno / scaldava. Il poeta ci narra che era il principio di aprile e il sole stava per lasciare la costellazione dell'Ariete per entrare nel Toro (12 aprile, in quell'epoca), di cui scaldava l'uno e l'altro corno. L'innamoramento per Laura risale infatti al 6 aprile 1327.

La Primavera, Afrodite o Venere, il Toro, abitano il giardino delle delizie e corrispondono al cominciamento del cammino iniziatico di Amore alla conquista dell'Anima. La primavera di Polifilo assomiglia alle primavere amorose dei poeti, di Petrarca, di Dante, alla stagione allegorica dipinta da Sandro Botticelli, e ancora al primaverile Parnaso di Andrea Mantegna, di cui Venere è l'imperturbabile protagonista.

Ma ritorniamo alle cronache quattrocentesche. A Treviso si sviluppò precocemente la stampa e lavorarono alcuni fra i primi tipografi. Gabriele e Filippo Di Piero esordirono qui, e in seguito pubblicarono a Venezia, dal 1472, alcuni bellissimi libri in ''caratteri veneti e romani, rotondi e lucidi''. Gerardo de Lisa, nato ad Herlebecke nelle Fiandre, si trasferì da Venezia verso il 1460 e stampò nella Marca diversi importanti volumi: tra il 1471 e il 1475 diede alla luce due opere di Leon Battista Alberti e il famoso Pimander, tradotto da Marsilio Ficino e attribuito a Ermes Trismegisto. è opportuno citare almeno altri due tipografi che operarono in loco. A Michele Manzolo da Parma si deve una ricca collezione di classici, curata in parte da Girolamo Bologni; Giovanni Vercellese pubblicò la Geografia di Strabone, tradotta dal Guarino e dal Tifernate, le Decadi di Tito Livio, l'Historia Naturalis di Plinio, nella versione commentata da Cristoforo Landino, le Epistole di Poliziano.

Da Torneo a Trionfo: verso l'isola delle delizie

Il torneo del Castello d'Amore di Treviso è il presupposto dei Trionfi cortesi, che a loro volta rappresentano uno dei temi fondamentali della vita letteraria e artistica dell'Italia settentrionale. Dal punto di vista figurativo notiamo un momento di passaggio in cui al Torneo medievale (combattuto o rappresentato) si sostituisce la cerimonia allegorica del Trionfo, e in particolare del Trionfo d'Amore. Giochi e tornei venivano spesso indetti in Europa per salutare la fine di una campagna di guerra. Ad esempio, dopo la caduta di Candia del 1364 se ne svolse uno a Venezia, che il Petrarca ricorda. Queste celebrazioni rievocano l'atmosfera degli antichi trionfi imperiali, caratterizzati da processioni, spettacoli equestri, giochi.

Il trionfo di Cupido o Amore che ritroviamo in importanti corti italiane sembra dunque essere l'esito della fusione fra il torneo medievale (ad esempio, nel Castello del Buonconsiglio di Trento), il trionfo celebrativo recuperato dall'antichità romana e l'ambiente ludico e gentile della corte stessa.

Come è noto, tale rappresentazione sintetica non può essere disgiunta dai cicli dipinti degli uomini famosi o dei prodi che esistevano in molte città. ''Le false genealogie, mirate a scavalcare le origini feudali del casato, e i cicli di uomini illustri nelle sale d'udienza, volti a ricordare l'ascendenza ideale del principe, erano surrogati di una sacralità che, non posseduta, non poteva venire pubblicamente espressa, ma solo allusa'' (Sergio Bertelli, La corte italiana del Quattrocento, in Arte Italiana - il Quattrocento, Electa).

Così, nel quindicesimo secolo l'immagine del Trionfo diventa fondamentale per l'ambiente della Corte; in particolare sembra aver grande successo il meccanismo dello schema incatenato, che fa prevalere ogni Trionfo sul precedente, creando così lo scheletro di un gioco. è un modello desunto direttamente dal Petrarca, che tra il 1356 e il 1374 stese la sua celebre opera, spesso riprodotta in codici e volumi a stampa. Giovanni Boccaccio segue l'amico nella sua Amorosa Visione, a cui molto deve l'Hypnerotomachia. L'autore del Decameron immagina una vertiginosa decorazione che affresca un castello fantastico: ... ed in una gran sala ci trovamo. / Chiara era e bella e risplendente d'oro, / d'azzurro e di color tutta dipinta / maestrevolmente in suo lavoro. / Humana man non credo che sospinta / mai fosse a tanto ingegno quanto in quella / mostrava ogni figura lì distinta, / eccetto se da Giotto... Qui spiccano i Trionfi delle Scienze, della Gloria, della Ricchezza e dell'Amore. Il genio e il realismo di Boccaccio operano uno slittamento fra testo e immagine: gli artisti del primo e secondo Quattrocento si ispirano a queste scene, rimodellandole secondo le esigenze del committente. Ma è il Trionfo di Amore a godere di particolare fortuna.

In Petrarca (vediamo il Trionfo di Amore in un codice petrarchesco francese) Amore fa la propria apparizione in sogno, sopra un carro, e celebra la propria vittoria come un condottiero romano in Campidoglio. Lo circondano i suoi illustri prigionieri, tra i quali un'ombra che si offre al poeta come guida per mostrargli le vittime piú famose e indicargli il cammino verso l'isola di Cipro.

Come è noto, protagonisti del 'Sogno di Polifilo' sono Amore e il suo Trionfo. Ma si tratta di un trionfo assai concreto, soprattutto nella decisione presa da Polia, nella seconda parte del romanzo, di consacrarsi totalmente a Venere. D'altro canto, l'Amore nel Polifilo si presenta al lettore sotto molteplici aspetti, quasi nell'intento di rendere vivo e presente il celebre verso virgiliano: ''omnia vincit Amor'' (Ecloga X, 69).

Ricordiamo uno dei momenti chiave del testo: nella prima parte del libro Polifilo si trova di fronte a tre porte, del Mondo, dell'Amore e di Dio. La decisione di scegliere la via dell'Amore lo porta a incontrare Polia, ovvero la sua anima. Ma la scelta non preclude al protagonista anche l'accesso al Mondo e a Dio. Appaiono così le processioni delle passioni di Giove (Europa, Leda, Danae, Semele) e il trionfo della coppia formata da Vertumno e Pomona, subito seguito dal rito priapico. Vertumno e Pomona rappresentano due aspetti dello stesso dio, in questo simili ai sorrisi speculari di Polifilo e Polia. Pomona è una divinità latina dei frutti che inizialmente disdegna le nozze con Vertumno; egli allora per conquistarla si presenta sotto le finte vesti di una saggia vecchia che incita la ninfa all'amore e l'ammonisce (''... abbi timore delle vendette dei numi, della dea dell'Idalio che odia i cuori insensibili...''), proprio come fa la nutrice nella seconda sezione dell'Hypnerotomachia; infine, appare nelle sue vere sembianze e la bella sdegnosa gli cede (Ovidio, Metamorfosi, XIV, 622 - 771). Come molte presenze sacre associate alla vegetazione, Pomona e Vertumno riflettono un amore androgino. Le stagioni simboleggiano il rinnovarsi del tempo attraverso i frutti della terra, Priapo è invece l'amore carnale, l'altro volto di Eros: entrambi sono figli di Afrodite. Nel carattere androgino di alcuni personaggi dell'Hypnerotomachia possiamo riconoscere un legame con l'alchimia: l'ermafrodita, il rebis, il cui simbolo è la lettera Y, è l'uomo - donna ottenuto attraverso l'unione dei due princìpi contrari, il maschile e il femminile, che superano la fase della morte per arrivare alla sublimazione; l'ermafrodita nasce appunto dalla fusione dei monti di Mercurio (Hermes) e di Venere (Afrodite). In questi termini Polifilo può essere interpretato come un riflesso di Hermes Trismegisto, mentre Polia - Trivisia accentua ulteriormente questo aspetto. Amore divino, amore mitico, amore umano, amore alchemico, amore androgino e amore carnale sono solo alcune delle presenze della forza irresistibile che muove il mondo, e muove Polifilo nel suo viaggio. Quando il protagonista giunge nel cimitero degli amanti, Amore mostra il suo versante nefasto ricordando il potere di morte insito nel desiderio. Ma il doppio volto del dio si alterna continuamente nelle pagine dell'Hypnerotomachia: una navicella guidata da Cupido accompagna il protagonista verso l'isola di Citera, sede del Tempio di Venere. Dopo l'incontro con la grande dea Polifilo e Polia finalmente si uniscono: l'anima si scopre attraverso Venere.

L'autore coglie allora l'occasione per narrare un'ennesima e significativa passione, paragonando gli innamorati a Pico e alla ninfa Canente: Pico, antico dio oracolare italico, era considerato sposo della dea Pomona o di Canente. La sua figura è collegata alla pratica mantica: la VI Tabula Eugubina attesta che l'augure, rivolto ad Oriente, stabiliva il proprio campo rituale di osservazione, interpretando l'ingresso da destra o da sinistra di vari uccelli, tra cui il picus o picchio. Tarde varianti mitologiche affermano che Pico venne trasformato in picchio da Circe, poiché volle restare fedele alla sposa Canente rifiutando le profferte della maga. Canente e Pico ci riportano ancora una volta al Trionfo di Amore del Petrarca: Canente e Pico, un già de' nostri regi, / or vago augello, e chi di stato il mosse / lasciògli 'l nome e 'l real manto e i fregi...

Alcuni studiosi hanno sottolineato le affinità tra l'Hypnerotomachia Poliphili e il Livre du Coeur d'amour epris (1457), opera di René d'Anjou, i cui due protagonisti sono Cuore (l'Amore personificato) e Cortesia (la Virtú). Cortesia accompagna Cuore in visita al Cimitero di Amore, posto nell'Isola omonima, il cui portale di alabastro reca le insegne degli amanti fedeli, dei poeti innamorati e degli eroi dei romanzi bretoni. Tra i poeti figura naturalmente il Petrarca. Interessante particolare iconografico delle illustrazioni è l'ornato di fiammelle che spicca sul vestito indossato dal Desiderio: nella Primavera di Sandro Botticelli un'analoga filigrana infuocata percorre il clamide di Mercurio. Nel medesimo dipinto Venere stessa mostra una serie di piccoli fuochi che le abbelliscono il collo e i seni.

Il concetto di isola si lega al concetto di Hortus Conclusus: è il luogo chiuso, il Castello di Amore, il giardino dipinto in un luogo segreto nel castello del nobile signore. L'isola di Amore nell'Hypnerotomachia è Citera, là dove Venere approdò dopo essere nata dalla schiuma del mare. Nel romanzo medioevale Lancelot, il mago Merlino, innamorato della fata Viviana, crea per lei un castello di dame e cavalieri; piú tardi fa sparire tutte queste meraviglie, tranne un frutteto battezzato 'Covo di gioia e di letizia' i cui ''fiori e frutti emanavano tutti i profumi dell'universo''.

Nella Vita Merlini del secolo XII si narra dell'isola dei Meli (Insula Pomorum, le mele da cui deriva appunto il nome di Pomona); qui vivono nove sorelle che governano ''con una dolce legge''. Lo stesso giardino ritroviamo nell'Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo:... Splendeva quivi il ciel tanto sereno, / che nul zaffiro a quel termino ariva / et era d'arboscelli il prato pieno / che ciascun avea frutti e ancor fioriva. / Longe alla porta un miglio o poco meno, / un alto muro il campo dipartiva / de pietre trasparente e tanto chiare, / che oltra di quello il bel giardino appare.

Lancillotto e la Dama del Lago, Merlino e Viviana formano coppie di grande importanza nella storia letteraria dell'occidente. Ma la Dama del Lago e Viviana sono, almeno in parte, altre facce della pericolosa Morgana a cui allude obliquamente la seconda parte dell'Hypnerotomachia, là dove narra che dal matrimonio tra Lelio Syliro e Trivisia Calardia Pia nacque una figlia che osò paragonarsi per bellezza a Venere stessa: ''Nelle figliole la natura, secundando la superiore virtute, gli conferite tanta bellecia et venustate che unque da concepto humano se reputareberon concepte. La prima nominavase Murgania... il vulgo rude et ignobile et inculto populo non altramente che così arbitravano che Murgania fusse essa Venere...''.

Il Trionfo di Cupido si realizza dunque nel giardino delle delizie, riflesso dell'Eden perduto e giocosamente riconquistato dall'ambiente ludico cortese. Proprio nella seconda parte del 'Sogno di Polifilo' Amore trionfa sulla Castità: la sua vittoria viene graficamente visualizzata in una significativa xilografia: da una parte appare Polia seduta nella sua stanza, dall'altra riconosciamo il carro di Cupido che insegue e vince il carro di Diana. L'autore, facendo parlare Polia, rapita dalla visione celeste, non nomina esplicitamente i nomi delle dee ma solo i loro attributi.

Polia, dopo essere sfuggita alla peste, si era infatti votata a Diana. Ma alla fine sarà Venere ad avere il sopravvento. La dea della Castità viene definita addirittura ''gelida et infructifica Diana'', e Polia racconta che ''nel cubiculo mio sola sedendo... io vedo repentina... uno vehiculo tutto di crystallino giazo, tracto da dui candidi et cornigeri cervi, incapestrati cum cathenule di livido plumbo. Sopra il quale sedeva una irata dea, coronata di una strophiola di salice agro cum uno arco disfuniculato et cum la inane pharetra, in me dimostrando terricoso aspecto et di furore incandente di volere usare crudele vindicta. Subitamente retro questo un altro sequiva, quello fugabondo, tutto di corrusco foco, da dui candidi cygni invinculati di funiculi d'oro. Sopra questo triumphava una potente et diva matrona cum la stellata fronte instrophiata di rose. Et seco haveva un pennigero puerulo cum gli svellati ochii, havendo una fiammante face... ''

Mentre il carro di Venere è condotto dai cigni (Ovidio, Metamorfosi, X, 708 - 709), il carro di Diana viene trascinato dai cervi (Callimaco, Inno a Diana, III, 113; Apollonio Rodio, Argonautica, III, 879), veloci e sfuggenti animali associabili alla Luna, il piú rapido tra gli astri.

Possiamo così citare le parole che Boccaccio usa per raccontare l'innamoramento di Florio e Biancofiore; è una descrizione che sembra preannunciare il contrasto fra castità e amore della visione a cui Polia assiste:... si porgevano abbracciandosi semplici baci, e mai piú avanti non procedevano; perciò che la novella età, in che erano, i nascosi diletti non conosceva. E già il venereo foco li avea sì accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe potuti rattiepidire... (Filocolo, libro II).

Da Treviso alle corti padane

Le corti padane del Quattrocento sono veri e propri Castelli d'Amore.

La rocca della Manta presso Saluzzo, in provincia di Cuneo, è situata in un'altra zona di confine tra Italia e Francia: alla piccola corte si parlava infatti francese, come testimoniano le scritte degli affreschi del salone principale. Le decorazioni, che risalgono ad un periodo compreso tra il 1418 e il 1430, raffigurano Nove Prodi e Nove Eroine, personaggi reali e fantastici collegabili al Cavaliere Errante, opera di Tommaso di Saluzzo, l'inquieto signore locale: un codice elegantemente miniato ci mostra i nove prodi chiusi e stretti entro un castello. Fra i protagonisti del curioso testo, una specie di chanson de geste scritta per il piacere di raccontare i regni della meraviglia e dell'esotico, troviamo Fauvel e Fortuna, che si immergono nella Fontana della Giovinezza per il desiderio di perpetuare all'infinito le loro imprese amorose. Così, la miniatura della Fontana ha ispirato il pittore nella progettazione della seconda parete del medesimo salone. Cupido si trova in cima alla Fontana della Giovinezza, e trionfa sopra il Tempo e la Morte. Personaggi anziani si tuffano nelle acque per ritornare giovani e vivere nuovi amori. è il Giardino delle delizie, il dominio di Amore, la selva verdeggiante di una nuova Età dell'Oro.

Un secondo luogo ci interessa: la Corte di Ferrara. Gli Este e i Saluzzo erano legati da parentela: Tommaso di Saluzzo era bisnonno di Isabella d'Este, divenuta nel 1490 moglie di Francesco Gonzaga (Niccolò III signore di Ferrara, Modena, Reggio e Parma ebbe come terza moglie Ricciarda di Tommaso di Saluzzo, da cui nacquero Leonello, Borso, Ercole, Sigismondo; Ercole fu padre di Isabella, Beatrice, Alfonso e Ippolito cardinale).

Gli Este sono originari della omonima località in provincia di Padova: discendono dai longobardi Obertenghi, che si trasferirono a Ferrara solo nel 1275, dopo aver accresciuto il proprio potere nell'undicesimo secolo grazie a Oberto I. Il fiume Adige dà il nome a Este: in latino Adige è Athesis, da cui deriva Ateste. Secondo la leggenda, la regione circostante venne colonizzata da Antenore, il cognato di Priamo; dal canto loro, i nobili signori di Ferrara proverrebbero direttamente dai Troiani. Fu Ludovico Ariosto a cantare questo mito, facendo del coraggioso Ruggiero l'anello di collegamento fra Ettore e la famiglia estense. Così recita il canto XLI dell'Orlando Furioso: Fra l'Adige e la Brenta a piè de' colli / ch'al troiano Antenòr piacquero tanto, / con le sulfuree vene e rivi moli, / con lieti solchi e prati ameni a canto, / che con l'alta Ida volentier mutolli, / col sospirato Ascanio e caro Xanto, / a parturir verrà ne le foreste / che son poco lontane al frigio Ateste. / E ch'in bellezza et in valor cresciuto / il parto suo, che pur Ruggier fia detto, / e del sangue troian riconosciuto / da quei Troiani, in lor signor fia elletto; / e poi da Carlo, a cui sarà in aiuto / incontra i Longobardi giovinetto, / dominio giusto avrà del bel paese, / e titolo onorato di marchese. / E perché dirà Carlo in latino: "Este / signor qui", quando faragli il dono, / nel secol futur nominato Este / sarà il bel luogo con augurio buono...

Secondo il mito, Antenore scampò alla distruzione di Troia e, dopo molte peripezie, giunse in Veneto con i suoi figli e gli Eneti; qui fondò Padova (Virgilio, Eneide, I, 242 e segg. ) e il sito oracolare di Abano, situata al pari di Este tra i colli Euganei. è caratteristica dei territori padani orientali richiamarsi in vario modo ad un'origine troiana. Così come avviene per i popoli che dominano la Francia e l'Inghilterra, le leggende ricalcano la fondazione di Roma da parte di Enea, capostipite della gens Julia, non senza una nota di originalità, particolarmente viva nel caso della dinastia ferrarese.

Per ritornare ai temi già trattati, negli inventari estensi che elencano le tappezzerie di corte scopriamo una Istoria de' Trionfi del Petrarca disegnata da Pietro Perugino e da Raffaello. Altri arazzi quattrocenteschi presentavano scene d'amore e di cavalleria, storie antiche e rappresentazioni vivaci di campi fioriti, cacce, convegni giocosi di uomini e donne. Interessanti sono le descrizioni incluse nell'Inventario di tappezzeria del 1457 conservato nell'Archivio Estense di Modena. Uno di questi meravigliosi tessuti è detto della fontana: qui si ammirava una scena di caccia con uomini e donne attorno ad una fontana ''jn mezo che sparze aqua a septe canelle cum una dona apresso che sona una arpa''. Un altro arazzo, detto del Dio de Amore, raffigurava il palazzo o il caxamento di Cupido. Un altro ancora era diviso in cinque parti e ritraeva passi del Romanzo de la Rosa.

Se queste opere sono perdute, a Palazzo Schifanoia possiamo ammirare il celebre Salone dei Mesi, con i Trionfi dei Pianeti e delle loro virtú. Nel 1469 il figlio di Leonello d'Este, Borso, lo fece decorare con dodici riquadri dedicati ai Mesi, identificati grazie ai relativi segni Zodiacali ed ai pianeti dominanti. I celebri dipinti vennero realizzati da alcuni maestri, in parte ignoti, probabilmente sotto la direzione di Cosmè Tura (1430 - 1495), già allievo dello Squarcione a Padova, nominato pittore di corte nel 1458. Tra gli artefici sembrano identificabili Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti. I Trionfi di Minerva, Venere, Apollo, Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano e Vesta accompagnano il nostro occhio che si inoltra tra allegorie morali e scene di vita cortese. Cosmè Tura, prima della decorazione del salone, fu attivo nello Studiolo di Belfiore e, tra il 1465 e il 1467, ultimò dieci tavole per la biblioteca dei Pico della Mirandola, purtroppo smarrite. Un disegno giunto fino a noi, raffigurante una donna alata con una sfera sotto il piede destro, una fiamma nella mano destra e un bimbo accanto, è forse riferibile alle tavole mirandolesi. Si tratta di una testimonianza assai importante per il suo legame iconografico con il XXXXIII Tarocco di Mantegna, la Venere della serie A, I Pianeti, in cui, insieme a Cupido bendato e a Venere, che esce dalle acque adorna di una corona di perle, compaiono le tre Grazie in atteggiamenti diversi; e una di loro, la Voluttà, tiene in mano la fiamma di Cupido, brandita come un'arma. Proprio la Venere astrologica viene ritratta in un disegno quattrocentesco di scuola padovana sotto forma di una figura femminile alata che possiede tutti gli attributi di Afrodite: le colombe, la fiamma, Cupido, il Toro, la sfera e una grande stella raggiante che indica la sua identità astrologica. Anche questa seconda opera ci aiuta a comprendere la misteriosa immagine del Tura: una Venere allegorica e planetaria.

La terza corte padana che intendiamo esaminare è a pochi chilometri da Mirandola. Il castello della famiglia Pio, che governò Carpi a partire dal 1331, presenta molteplici suggestioni. Nella Torre detta del Passerino ritroviamo affreschi cortesi; poco distante, possiamo ammirare la splendida Sala dei Trionfi, di stretta ispirazione petrarchesca. I dipinti sono attribuiti al parmense Bernardino Loschi che li avrebbe realizzati dopo il 1496, ovvero durante il governo di Alberto III Pio. Osserviamo il Trionfo della Fama, con elefanti, sfingi e una folta schiera di uomini celebri. Il Trionfo del Tempo viene rappresentato da una stella a dodici punte che suddivide un piano sagomato, trainato da un cervo, mentre un uomo anziano con la clessidra indica la direzione: i cervi sono associati ancora una volta alla fuga veloce delle stagioni. Il Trionfo d'Amore vede Cupido che ha scagliato la sua freccia nella guancia di un personaggio alla guida di due destrieri bianchi. è questa la ferita da cui nasce la sofferenza sentimentale. Il Petrarca ci parla appunto della pena del ferito d'amore, che piú sollecito fugge dalla persona amata, piú sente dolere la sua piaga: ... e qual cervo ferito di saetta / col ferro avvelenato dentro al fianco / fugge, e piú dolsi, quanto piú s'affretta. D'altra parte, l'eterna lotta fra il Tempo e l'Amore, uno dei cardini dell'opera di Francesco, sembra visualizzata al meglio in queste magnifiche pareti. Petrarca e Manfredo Pio, primo signore di Carpi, colui che cedette Modena agli Estensi riservandosi il dominio della piccola città, furono legati da stretta amicizia. Anche la pieve di Santa Maria in Castello, detta 'la Sagra', presenta una notevole decorazione murale di un artista ferrarese della prima metà del Quattrocento: all'interno della Cappella di San Martino, nella navata sinistra, appare un vero e proprio orto botanico, un hortus conclusus che forma il graticcio vegetale della salvezza grazie ad un meraviglioso repertorio di fiori.

Da Carpi giungiamo a Mantova. Come è noto, il Palazzo Ducale conserva un vero e proprio torneo, affrescato da Pisanello; nel celebre dipinto spicca il baldacchino delle dame, che assistono dall'alto alla tenzone fra i cavalieri. Secondo un Inventario stilato nel 1407, numerosi altri ambienti mostravano variopinti temi cortesi: fra questi ricordiamo soltanto la sala detta di Lancillotto. D'altronde, la biblioteca gonzaghesca era ricca di preziosi codici che narravano episodi del ciclo bretone.

Ma la seconda metà del quindicesimo secolo è certamente il periodo aureo della corte dei Signori di Mantova: tra il 1472 e il 1474 vengono compiute le scene principali della mantegnesca Camera degli Sposi, le cui figure sembrano esprimere la forza potente di un cenacolo intellettuale in cui si mostrano, oltre ai defunti Vittorino da Feltre e Leon Battista Alberti, anche Galeotto e Giovanni Pico della Mirandola, oltre a Poliziano e al Mantegna stesso. L'Alberti medesimo è responsabile del progetto di Sant'Andrea, scrigno della reliquia del Preziosissimo Sangue. La lussureggiante fioritura decorativa e la nitida architettura del tempio presentano punti di contatto con la selva dell'Hypnerotomachia e con alcuni particolari delle costruzioni che Polifilo incontra, esplorando il giardino della vita.

La presenza del genio di Mantegna implica l'arricchimento artistico della città e una maggiore circolazione delle idee legate alla riedizione dell'arte antica. Ancora piú significativa è l'intensità ermetica e filosofica delle immagini commissionate dalla corte mantovana. Pare che il maestro padovano ultimasse una serie, oggi perduta, dei Trionfi di Petrarca; certamente il suo nome è associato all'omonimo gioco dei Tarocchi. Ma la nuova prospettiva umanista risplende in ben altre opere. Il Trionfo di Cesare, dipinto per Federico Gonzaga, le tele dello Studiolo di Isabella d'Este, la Madonna della Vittoria, che celebra il buon esito della battaglia di Fornovo, sono di ordine completamente diverso rispetto alle decorazioni delle piccole corti dei Saluzzo e dei Pio. Non c'è dubbio: suggestioni mantegnesche sembrano nutrire gli spunti visivi delle complesse visioni di Polifilo.

Mantova si trasforma nel giardino di seta, nel labirinto acquatico al cui centro sta la montagna dell'Olimpo, simile al Purgatorio dantesco. Così, è facile confrontare il testo dell'Hypnerotomachia, visualizzato nell'immagine del labirinto d'acqua dell'edizione francese, con alcune decorazioni mantovane, in particolare quella degli inizi del Cinquecento che possiamo ammirare in Palazzo Ducale. D'altra parte, Mantova è una città circondata dall'acqua, e il suo aspetto si fonde perfettamente con l'emblema del labirinto iniziatico. Ricordiamo l'impresa gonzaghesca dell'Olimpo attorniato da flutti su cui galleggiano bronconi in fiamme, illustrati dal motto Amomos. In un certo senso, la città virgiliana diviene il giardino segreto delle delizie, che il vero giardino segreto di Isabella d'Este esemplifica e riassume. Qui regnano l'armonia e la concordia: amomos significa 'senza discordia', virtú massima dell'Olimpo della corte ideale. Momo, figlio del Sonno e della Notte e fratello della Follia, è infatti il dio della maldicenza e della discordia (si veda l'opera omonima di Leon Battista Alberti): per questo viene cacciato dal Paradiso pagano. Ma l'amomo è anche la pianta di cui ci parla Virgilio, il virgulto assiro che fiorisce durante la nuova Età dell'Oro: Assyrium vulgo nascetur amomum (IV Egloga). Simmetricamente, l'isola di Palazzo Te, la nuova reggia di Federico figlio di Isabella, diviene l'isola di Adone, dove Amore trionfa e dove fioriscono le rose di Afrodite. A questo chiaramente allude la Fabella di Psiche, dipinta da Giulio Romano sulle pareti della villa dei piaceri.

II Trionfo della Virtú sul Vizio (la cacciata dei Vizi dal giardino delle Virtú), eseguito intorno al 1497 da Mantegna per lo studiolo di Isabella, diviene invece il trionfo di Atena Polia sulla Venere carnale, che nel medesimo quadro sta in precario equilibrio sopra un centauro in fuga. La dea greca Atena è detta anche Poliàs, protettrice della città, figura ideale per opporsi alla Venere terrena. Poliàs è una dea vergine, estranea a ogni rapporto sessuale, priva di sposo, di amante e di prole. In lei sopravvive la figura della kore micenea. Spiega Furio Iesi: ''... il suo nome sembra riconoscibile in un'iscrizione di lineare B: a - ta - na. Tale iscrizione unisce ad a - ta - na l'appellativo po - ti - ni - ja (pòtnia equivale a signora), che potrebbe riferirsi alla sovranità esercitata dalla dea sullo stato miceneo, in quanto divinità del re: sovranità destinata a perpetuarsi sulla polis con il mutare di Atena da pòtnia a poliàs''. Il giardino del lauro sacro a Minerva, selva dove regna Amomos, chiede aiuto a Minerva - Isabella, che accorre e spezza la propria lancia combattendo contro Venere - Isabella (sempre lei, la donna che nel Parnaso mantegnesco regna come una Venere terrestre, prova ne sia il bracciale che entrambe indossano). Il lauro ha volto umano, e assume le sembianze della Virtus deserta della famosa incisione del maestro padovano.

Per completare l'equazione iconografica basta una breve lettura di una medaglia eseguita da Gian Cristoforo Romano tra il 1495 e il 1498, in cui Isabella viene rappresentata nelle vesti di una Pallade in armi che doma con la sua verga il serpente della concupiscenza. La pettinatura di Atena è la stessa che la Marchesa di Mantova esibisce sul recto della medaglia; ella tiene stretta a sé, come scudo, un'ala che indica la vittoria sicura. Un centauro in volo, che la sormonta, ci ricorda il centauro domato dalla Minerva medicea del Botticelli. Ma è un sagittario emancipato dal vizio, è Chirone, il maestro di sapienza. Così, la scritta BENEMOERENTIUM ERGO andrà tradotta: a cagione di coloro che soffrendo meritano il bene, Pallade combatterà e trionferà. Come spesso avviene, il motto è un capolavoro di sintesi: ergo, preposizione che regge il genitivo, indica in conseguenza di, a cagione di; benemoerentium è l'unione di bene e moerentium; l'avverbio bene significa giustamente, mentre moerentium unisce al verbo moereo / maereo (affliggersi, addolorarsi, soffrire) quel mereo che allude al merito, alla ricompensa, al premio.

Dunque, dal Trionfo di Amore siamo passati al Trionfo della Virtú. Ci spostiamo dall'epoca medievale, in cui il Trionfo si riferisce ad una temperie cortese amorosa, all'identità filosofica rinascimentale. Qui, la celebrazione della vittoria diviene un impegno soggettivo della committenza, una coscienza etica, sebbene in entrambi i casi si manifesti l'eterna speranza di vincere il Tempo e la Morte. Il neoplatonismo opera sicuramente in questa svolta. Platone ci offre infatti la prima trattazione filosofica dell'Amore: egli si preoccupa di distinguere tante forme dell'Amore quante sono le forme del bello, iniziando dalla bellezza sensibile e concludendo con la bellezza della sapienza, la piú alta di tutte, quella capace di ispirare il piú nobile fra gli amori, la Filosofia. Fedro mostra la via attraverso cui l'amore sensibile può trasformarsi in amor di sapienza, mentre il delirio erotico si muta in una virtú divina che si allontana dai modi di vita consueti e impegna l'uomo in una difficile ricerca dialettica.

Un raffinato gioco di corte ci aiuta a comprendere meglio la strada impervia che gli ingegni quattrocenteschi hanno cercato di seguire. Alludiamo ai Tarocchi, inventati nel Rinascimento, probabilmente in terra padana, e nobilitati dalla celebre serie di carte a cui venne dato il nome di Tarocco del Mantegna. Benché gli autori di queste immagini non siano identificabili con certezza, esse restano un punto di riferimento fondamentale per gli artisti ermetici, che operarono in un'atmosfera di rinascenza platonica.

Matteo Maria Boiardo (1441 - 1494), primo cugino di Giovanni Pico della Mirandola, è autore del celebre Orlando Innamorato, in cui le gesta dei paladini si aprono ad una narrazione tipicamente romanzesca. Verso il 1461, in area ferrarese, egli scrive un'operetta intitolata Cinque capituli sopra el Timore, Speranza, Zelosia, Amore, et Triompho del Mondo. Qui si descrive in modo piacevole e curioso l'origine di tutti i nostri giochi di carte, poiché le quattro passioni a cui si accenna danno luogo ai quattro semi del mazzo, e il tutto è completato da una quinta serie, il Trionfo del Mondo, corrispondente ai moderni Tarocchi, che verranno presto espunti e trasformati in un metodo di divinazione, a sottolineare la mutazione ermetico - sapienziale del gioco. Così scrive il conte di Scandiano: Quatro passion de l'anima signora / hanno quaranta carte in questo gioco; / a la piú degna la minor dà loco, / e il lor significato le colora. / Quatro figure ha ogni color ancora / che a i debiti soi officii tucte loco, con vinti et un Trionfo, e al piú vil loco / è un Folle, poi che 'l folle el mondo adora. / AMOR, SPERANZA, GELOSIA, TIMORE / son le passion...

Diverse testimonianze ferraresi e milanesi che precedono e seguono il testo di Boiardo ci parlano del gioco dei Trionfi, indissolubilmente legato all'ambiente cavalleresco e cortese. Da una parte esiste una connessione tra le carte del gioco dei Tarocchi e le processioni gentili delle eroine, dei prodi, dei trionfi. Dall'altra, una piú sottile comunanza filosofica lega gli stessi tarocchi alle divinità, che divengono figure allegoriche in cui talvolta i committenti si identificano. Così, la Minerva isabelliana corrisponde al XXVIII Tarocco del Mantegna, la Philosofia della serie C, Le Scienze. Ma la descrizione dei rimandi e delle affinità potrebbe continuare a lungo. Il Trionfo di Cupido della Manta è in tutto simile alla carta degli Amanti e all'Asso di Coppe. Esiste poi una fondamentale vicinanza tra il mazzo detto di Alessandro Sforza signore di Pesaro, che un maestro ferrarese eseguì nella seconda metà del secolo, e gli affreschi dei Trionfi di Carpi: in particolare la carta del Re di Spade presenta sullo scudo la stessa immagine dell'anello con diamante che scopriamo a Carpi. Il diamante è impresa sia estense che medicea. Negli affreschi di Palazzo Pio riconosciamo una gemma incastonata in un anello, al cui interno sta una margherita e attorno al quale è intrecciato il lauro.

Bernardo Trevisano: dall'Amore al Sapere

Armonia e Alchimia: dai Tre - visi di Polia al tempo tricefalo

Come abbiamo sottolineato a proposito del Trionfo della Virtú sul Vizio di Andrea Mantegna, in alcune rappresentazioni degli ultimi decenni del Quattrocento si avverte una costante ricerca filosofica, simile a quella che pervade il testo dell'Hypnerotomachia. Si tratta di un approfondirsi semantico dell'immagine e della visione, legato al fiorire delle dottrine ermetiche e alla diffusione del neoplatonismo: il sogno dell'Amor cortese si trasforma nella conquista del Sapere e della Pietra filosofale. Approdati all'isola di Citera non si cerca piú l'Amore in senso stretto, ma l'Oro. Il giardino delle Delizie diviene il giardino dell'Età dell'Oro, la condizione paradisiaca per eccellenza. Come nel dipinto del Mantegna, Polia, ovvero la purezza dell'idea, dimostra le proprie caratteristiche di virtú intellettuale, in parziale conflitto con l'aspetto carnale di Venere.

La figura di Bernardo detto il Trevisano, nato a Padova nel 1406, studioso di scienze ermetiche dall'età di quattordici anni, è utile per comprendere l'evoluzione del Sogno cortese, che nel corso degli anni diviene Sogno dell'Amore Sublime, della Veritas e della Saggezza. Bernardo scrive un'allegoria in chiave misterico - alchemica: è il Sogno Verde, veridico e sincero perché contiene la verità. ''In questo Sogno tutto appare Sublime, il senso apparente non è indegno di ciò che ci nasconde, la Verità vi brilla di per sé con tanto fulgore che non c'è bisogno di scoprirla attraverso il velo con cui si è preteso di servirsi per celarla... Io mi trovai in un'Isola che galleggiava su un Mare di Sangue... un Uomo andò poi a cercare un'Erba con cui mi sfregò gli occhi ed io vidi subito la luce e il fulgore di questa superba Città... in un Salone si trovavano quattro statue vecchie come il Mondo; quella posta in mezzo è il potente Séganisségéde che mi aveva trasportato in quest'Isola. Le altre tre che formavano un triangolo intorno a questo sono tre Donne, cioè Ellugaté, Linémalore e Tripsarécopsem. Mi avevano anche promesso di farmi vedere il Tempio dov'è la Figura della loro Divinità chiamata Elésel Vassergusine...''

Nello scritto si descrivono le fasi della Grande Opera, ovvero l'insieme delle azioni necessarie alla trasmutazione, alla visione di Venere celeste o della Natura. Il parallelismo tra la Grande Opera e la settimana della Creazione porta infatti alcuni trattatisti a delineare sette operazioni fondamentali, sette gradini che conducono alla Pietra filosofale. Nel Sogno Verde essi corrispondono ai sette regni di Hagacestaur, paralleli alle sette Virtú attraverso cui si può pervenire all'armonia universale e alla concordia oppositorum.

Le fasi dell'Opus, che realizzano la conquista dell'oro e che dovevano compiersi nei segni primaverili di Ariete, Toro e Gemelli, corrispondono ad altrettanti colori; sotto il segno di Venere si realizza l'unione alchemica, simboleggiata dalla coda del pavone e dalla musica, equivalenti rispettivamente all'arcobaleno e all'armonia. Proprio Saturno si trova, nel Palazzo Vecchio di Firenze, al centro dell'Età dell'Oro: egli tiene il serpente che si morde la coda, simbolo dell'infinito e della perfezione, segno distintivo dell'Opus. L'ouroborus, che possiamo ammirare in una sala del Palazzo di Carpi, appare anche nel XXXII Tarocco di Mantegna, il Cronico della serie B, Le Virtú; questa immagine rappresenta il perpetuo moto del mondo, la circolare unità del tutto che si dispiega nella molteplicità dei cicli per ritornare eternamente in se stessa, come la testa mangia la coda.

Le corti rinascimentali, in particolare la gonzaghesca e la medicea, vivono in una continua tensione verso uno stato d'armonia superiore. Così il Lauro, simbolo per eccellenza di Lorenzo il Magnifico (Laurentius) e della sua famiglia, è simile all'oro. è il ramo del trionfo di Apollo e delle Muse, è la pianta curativa, è il fiorire di una nuova epoca. Bastino a ricordarlo i versi di Giovanni Pollastrino dedicati al Cardinale Giovanni de' Medici: Quel glorioso excelso et verde Lauro / sotto l'ombra del qual fiorì Fiorenza / manchando per comun fatal sentenza, / surgon sue piante et torna l'età d'auro.

Il motto ita et virtus, che insieme all'albero di lauro fa parte dell'impresa del Magnifico, sta infatti ad indicare quanto la virtú di Lorenzo sia, come il lauro, sempreverde. L'alloro è attributo della Poesia, non solo per la sua immutabilità nel ciclo stagionale, ma anche per le ben note proprietà inebrianti, che lo associano alla sacerdotessa d'Apollo: Manto masticava foglie d'alloro per ottenere l'ispirazione oracolare. Dunque, un legame tra la pianta e il furor poeticus, a sua volta simile al furor Amoris. La passione amorosa era considerata dagli antichi una sorta di follia. Virgilio ne offre diversi esempi: la passione di Didone, che abbandonata da Enea si uccide accensa furore (Eneide, IV, 697); l'amore di Gallo, che alla domanda di Apollo - Galle, quid insanis? - risponde definendo furor il proprio infuocato delirio (Bucoliche, X, 22).

L'autore dell'Hypnerotomachia scrive: ''Onde di qui nacque uno rabido furore, de se medesima morosa...''Così, nella xilografia del 1513 che illustra la Giostra di Poliziano, il broncone d'alloro butta fuoco di fronte a Pallade sull'altare di Venere, e diviene impresa medicea assumendo un significato magico e alchemico: una sorta di superamento e di sublimazione del delirio d'Amore, alla ricerca di una divina armonia in cui Venere si affianca a Minerva. Verde è il broncone d'alloro, verde è il Sogno di Bernardo Trevisano, verde è il colore della Natura e del potere rigenerativo spirituale, nonché di Venere e della conciliazione degli estremi, della primavera e della rinascita delle stagioni, della resurrezione dello spirito. Verde è la virtú di Minerva laurente.

Nella Canzone di Iacopo Nardi, pur acerrimo nemico dei Medici, emerge un altro importante simbolo, quello della fenice: E come la Fenice, / Rinasce dal Broncon del vecchio Alloro, / Così nasce dal Ferro un Secol d'Oro. La fenice è un animale magico che sconfigge la morte e governa il terzo stadio dell'opus, quello delle nozze alchemiche tra il Re e la Regina, la rubedo, il rosso elisir. è l'uccello che rinasce dalle proprie ceneri, simbolo dell'eternità e della resurrezione: sul verso di una medaglia di Gian Cristoforo Romano una fenice brucia, accompagnata dal motto ignis omnia vorat ipsam recreat: il fuoco che tutto divora la ricrea uguale a se stessa. Ma la fenice è anche associata alla Speranza, come si ravvisa nell'omonimo Tarocco del Mantegna (XXXIX, serie B, Le Virtú). Anche il broncone in fiamme gonzaghesco, quella parte del ramo divelto e piegato come l'ouroborus che naviga nei soffitti del Castello di San Giorgio, può essere accostato al sogno di una nuova Età dell'Oro. Qualcosa nella Natura brucia e si consuma, per tornare sublimato nell'Olimpo degli déi.

Treviso, dunque, ci ricorda in primo luogo la dama dell'amor cortese, ma anticipa una Polia interpretabile in termini di sapienza e di anima ri-conquistata tramite un combattimento morale e filosofico. La protagonista del 'Sogno di Polifilo' ha nome ''della casta romana, che per il filio del superbo Tarquino se occise''. Ella discende come sappiamo dalla famiglia Lelia; dopo il voto fatto in occasione della peste del 1466 si chiude in convento, ma, conosciuto l'amore disperato di Polifilo ''dopo svariati, pietosi e tristi incidenti'' si impietosisce e cede. Lucrezia - Polia si mostra a noi come una figura intermedia tra l'amor cortese e l'impegno intellettuale puro. Oltre al riferimento importante a Lucrezia, l'autore del Sogno ci dice che Trivisia rappresenta le origini di Polia ed è colei che dà il nome alla sua terra e alla sua città. Trivisia o anche Trivia: tre volti di una medesima donna, tre volti di uno stesso Amore e di una stessa Venere, che permette all'anima di cogliere se stessa. Venere: la divinità gentile, letizia, unificazione dei princìpi contrari, superamento dell'inadeguatezza individuale, madre delle tre Grazie.

Polia si chiama dunque come la leggendaria Lucrezia. La maschera assegnata dall'autore all'amata è certamente simbolica. Lucrezia, moglie di Lucio Tarquinio, tenta di resistere alla passione di Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, che alla fine riesce ad usarle violenza. Ella si uccide, offrendo così a Bruto l'argomento decisivo per indurre il popolo a ribellarsi alla tirannide dei sovrani etruschi.

I momenti fondamentali della Storia di Lucrezia vengono evidenziati in un dipinto di Sandro Botticelli, datato 1499 e conservato a Boston, che fa il paio con la Storia di Virginia del medesimo artista; Virginia venne uccisa dal padre per essere stata disonorata dal decemviro Appio Claudio. La fonte della vicenda di Lucrezia è Tito Livio (Storia di Roma, I, 57 - 59): la morte tragica della donna è un avvenimento politico eccezionale, poiché segna il passaggio da una fase all'altra della Storia. La citazione nell'Hypnerotomachia di questo dramma adombra un momento di trapasso, e diviene simbolo del sacrificio di chi riesce ad accelerare un complicato processo di liberazione. Lucrezia - Polia sembra il riflesso di una delicata etica dell'anima, un ideale completamente assunto dall'autore, che spazia tra la parte maschile e la parte femminile dei protagonisti.

è interessante infine notare come l'impresa quattrocentesca Nessun d'amor mi tocchi, composta da un albero di alloro e da una cerva con le corna d'oro e un monile al collo, venga scelta proprio da una Lucrezia Gonzaga, figlia di Pirro, signore di Gazuolo, per alludere alla virtú che la donna voleva rispettata e alla sua castità che intendeva conservare immacolata. La figura fu desunta da un sonetto di Francesco Petrarca, che sembra a questo punto sintetizzare le nostre considerazioni: Una candida cerva sopra l'erba / Verde, m'apparve, con due corna d'oro, / Fra due rivere all'ombra di un alloro, / Levando il Sole a la stagion acerba. /... Nessun mi tocchi, al bel collo d'intorno, / Scritto avea di diamanti, e di topazi; / Libera farmi al mio Cesare parve.

Infine, la Musica che giunge dalle sfere è totalizzante come un serpente che si mangia la coda. Il musicologo Franchino Gaffurio (1451 - 1522) sottolineava il valore del canto proveniente da ciascuna delle sfere (sette Muse presiedevano ai pianeti, l'ottava alle stelle fisse, la nona aveva il governo complessivo). Gaffurio è profondamente influenzato dalla filosofia platonica e da Marsilio Ficino, che metteva in relazione la musica divina e il furor poeticus. L'illustrazione della sua Pratica Musicae (1496) è sufficientemente riassuntiva di princìpi filosofici e di concetti che si posssono collegare alle molteplici immagini triadiche dell'Hypnerotomachia. Ci riferiamo in special modo all'effigie tricefala, il tri - visum, il signum triceps di Serapide, le tre parti del Tempo: da Apollo parte un serpente tricefalo con teste di leone, di cane e di lupo. Scrive Edgar Wind, ''... è un'immagine dell'eternità o della perfezione... Gaffurio mostra chiaramente che il Tempo procede dall'Eternità, che la progressione lineare del serpente dipende dalla sua provenienza dalla piú alta sfera, dove la sua coda si chiude in un cerchio...''

In conclusione, l'Hypnerotomachia Poliphili segue il principio virgiliano, superando la sequenza trecentesca dei Trionfi di Petrarca: l'Amore di Polia non solo trionfa sulla Castità e su Diana, come abbiamo precedentemente osservato, ma vince persino la Morte, la fase della nigredo alchemica, giungendo alla sublimazione.

Cupido, infatti, vince anche il Tempo. è Polia a raccontare: ''Ma avanti ogni cosa deliberai di andare senza fallo, stimulante Cupidine, alle venerande are della divina matre... et piú non pigritare dimorando di provedere alle resultante et impatiente fiamme; et di ricompensare al dispendio del tempo perdito et inutilmente et infructuoso dispensato''. Come Diana viene definita ''gelida et infructifica'' così anche il Tempo è detto ''infructuoso'', sterile. Della medesima vittoria parla Polifilo quando si trova al cospetto di Venere e la supplica di indurre Polia all'Amore: ''... auscultati benignamente gli miei miserandi lamenti, la divina domina matre cum una ineffabile maiestate et sanctimonia et cum una inaudita et veneranda voce demulcente, da reserenare gli anebulati coeli, da... iniuvenire il vetere Saturno... et da stuprare la casta Diana... proferitte divine parole...''

Alla fine, il vero premio concesso all'Amore di Polifilo e Polia è l'avverarsi di un sogno di eternità che solo le Muse possono concedere al Poeta e alla sua Amata: ''per la qual cosa le nymphe extremamente laudarono... il suo limatissimo eloquio alto et di memorato digno... tutte festive ritornarono, incominciando gli mutilati instrumenti cum canoro musico a sonare et agli coelesti cantici...'' L'eco delle gentili danze di corte risuona ancora nel compiersi di un destino ormai individuale e umanistico, intessuto di sofferenza e di sapienza.

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