Il sangue e la coppa


UNA PROPOSTA ETIMOLOGICA:

LA DERIVAZIONE DEL TERMINE GRAAL DALLA VOCE LATINA CRATIS

Ancora oggi, a più di ottocento anni dalla prima stesura in versi dell'avventura che vede come protagonista Parsifal, l'eroe destinato a incontrare il Sacro Graal, il lettore e lo studioso hanno motivo di nutrire fondati dubbi sull'aspetto e la realtà ultima di questo santo oggetto.

Tale ambiguità, che è ovviamente elemento essenziale del fascino del racconto, trae origine dall'indeterminatezza in cui cadono gli artisti medioevali non appena si accingono a descrivere la stupenda apparizione. È d'altronde significativo che il primo a essere vittima di questa confusione sia lo stesso Parsifal, e che dalla prima incertezza nascano i suoi guai. Nell'omonimo poema di Chrétien de Troyes (redatto tra il 1180 e il 1190), il giovane cavaliere, giunto nel castello fatato, assiste ad una processione in cui si mostra prima una lancia insanguinata, poi alcuni valletti che recano candelabri, quindi una damigella che tiene un graal fra le mani, «fatto dell'oro più puro». Da questa non meglio specificata presenza si irradia un grande chiarore. Subito inizia una cena a base di cervo e di altre ricche portate; il graal passa e ripassa, ma Parsifal non chiede a chi esso venga «servito». Così, la mattina seguente il castello sparisce e l'eletto viene a trovarsi nella scomoda condizione di chi non ha pronunciato, per propria colpa, la fatidica domanda che avrebbe salvato la corte e l'umanità intera. L'avventura si trasforma in disavventura.

Possiamo dunque dedurre che il Graal è in qualche modo collegato'al cibo; ma rimane grande la distanza fra la cena imbandita e un'Ultima Cena di tipo eucaristico. Lo sfarzo domina la cerimonia, a cui non sovrintende alcun officiante religioso.

L'altro importante Parzival, scritto in tedesco


daWolfram von Eschenbach intorno all'anno 1205, non ci toglie dall'imbarazzo, al contrario. Il graal diviene una pietra, chiamata lapsit exillis; essa ha il dono di dare sostentamento alla schiera dei suoi custodi: «Per la virtù di questa pietra arde la fenice». Su di lei, ogni Venerdì Santo giunge una colomba dal cielo recando una piccola ostia bianca.

Nonostante i maggiori dettagli, Wolfram carica di allusioni la rappresentaz ione, senza precisarla davvero. Viene ribadito il legame fra il graal e il cibo, e si fa cenno anche all'ostia cristiana. Ma non si chiarisce come dalla pietra provenga l'alimento, e d'altra parte quest'ultimo, benché presenti una netta connotazione spirituale, è tuttavia anche materiale.

Solo nella «volgarizzazione» del ciclo, operata da diversi autori, più o meno sconosciuti, nel corso del tredicesimo secolo, si afferma chiaramente che il graal corrisponde alla coppa in cui Gíuseppe di Arimatea raccolse il sangue di Cristo dopo la crocefissione. Scrive in proposito Robert de Boron (tra il 1190 e il 1210): «Così andò di corsa a prendere una coppa e la mise ove il sangue colava, pensando che le gocce che vi cadevano dentro sarebbero state ben conservate in quella coppa meglio che in ogni altro luogo».

Due osservazioni si impongono: innanzitutto, la frase citata sembra un ragionamento dell'autore in merito all'intera vicenda; inoltre, è sintomatico che la soluzione dell'enigma venga affidata. all'esauriente resoconto di un antefatto liberamente ispirato ai Vangeli, che priva di ogni mistero il sacro oggetto, spostando l'attenzione del lettore verso il ben noto dramma della Passione. Il graal diviene così il ricettacolo di una reliquia; dunque, il cibo che da esso proviene si trasforma nel corpo di Cristo offerto ai fedeli durante la messa. Ma è facile notare il contrasto che esiste tra l'eccezionalità del sangue raccolto e la quotidianità rituale in cui l'intero racconto si tradurrebbe, poiché un cavaliere cristiano non ha certo bisogno di entrare in un ca


stello fatato per ricevere il sacramento dell'eucarestia, e sarebbe inoltre sacrilego immaginare che questo evento fondamentale della liturgia corrisponda a una tradizione perduta o in pericolo. Scompare poi il profondo sentimento di angoscia e di colpa che caratterizza la ricerca di Parsifal e i suoi alterni risultati.

Per sciogliere questi dubbi, gli studiosi che si sono affaticati sulle pagine dei diversi Parsifal hanno cercato di trovare un dato etimologico in grado di giustificare o di smentire l'identificazione con la coppa. La tesi più accreditata sostiene infatti che la parola in questione sia (raramente) usata nel medioevo per indicare una scodella o un piatto fondo. Un passaggio di una cronaca del 1200 di Hélinand de Froidmont narra dell'apparizione del graal a un eremita, e interpreta l'oggetto come il piatto dell'Ultima Cena. Hélinand spiega che in Francia si dice gradale una scodella larga e abbastanza profonda, in cui si è soliti porre via via (gradatim) delle vivande preziose. Aggiunge che in volgare questo tipo di stoviglia si chiama graalz; il suo nome deriva dal fatto che è molto gradevole mangiare in lei, in quanto anche il suo materiale è di gran valore (argento o altro).

A questo punto si apre un nuovo dibattito: il passo in questione, benché sia corroborato da qualche citazione più oscura tratta da altre opere minori del periodo, non sembra risolvere il problema. Risulta anzi controproducente, perché l'etimologia offerta è così debole e autocontraddittoria (la chiave del mistero è l'avverbio gradatim o la gradevolezza del pasto?) da suscitare.il dubbio che essa voglia già giustificare un termine altrimenti inspiegabile. Hélinand avrebbe insomma compiuto un primo falso, costruendo un'ascendenza fasulla. Perché la derivazione sia accettabile occorre risalire a qualche voce latina o germanica abbastanza diffusa. In questa prospettiva è stato proposto, quale probabile antenato del graal, il cratere, prima greco e poi romano, che effettivamente appare adatto


al confronto. Per l'esattezza, si tratta di un grosso vaso dove venivano uniti il vino e l'acqua; la derivazione etimologica nasce infatti dal verbo kerànnumi, mescolare. Per estensione, il nome designa poi ogni tipo di coppa, ad esempio la costellazione celeste così chiamata. La parola si sarebbe poi corrotta in gradale. Indifendibìle appare una seconda ipotesi che si impernia sul vocabolo gradus, dal significato di passo, posizione. rna anche di gradino, ordine, rango; sembra infatti impossibile che questo gradus abbia assunto il valore, come talunì hanno sostenuto, di base o piede di un vaso.

Alcuni critici hanno tuttavia osservato che il graal nei racconti di Parsifal è legato più a vivande che a bevande; sembra dunque strano che sia parente di un manufatto le cui caratteristiche principali sono proprio l'ampiezza e la grande profondità, che consentono a chi lo usa di miscelare liquidi di diversa specie. Citando ancora Chrétien de Troyes, ricordiamo cheParsifal, dopo aver smarrito il castello ed essere rimasto colpito dalla visione di tre gocce di sangue che spiccano sul bianco della neve, incontra un eremita che ha evidentemente il compito di rimetterlo sulla retta via. Il sant'uomo lo ammonisce: «Quanto al ricco re pescatore, egli è, credo, il figlio di quel re che si fa servire nel graal. Non credere che egli abbia sulla tavola lucci, lamprede o salmoni: con una sola ostia che gli portano nel graal egli si mantiene in vita. Il graal è cosa così santa, e il suo spirito è così puro, che basta a sostentarlo l'ostia che gli giunge in quel vaso».

Finalmente dunque sentiamo parlare di un vaso, associato e contrapposto a un gruppo di grossi pesci tipici di una ricca tavola medioevale. «Vaso», tuttavia, può indicare qualsiasi tipo di recipiente e anche, per estensione, ogni suppellettile in grado di accogliere un'ostia. Di più: può significare ogni oggetto che sia parte integrante di un apparato sacro. Ad esempio, il dantesco «Vas d'elezione» allude a San Paolo in quanto strumento della volontà divina, uomo che si fa tramite di un


disegno di salvezza universale. Così, l'eremita accenna a un re che si fa servire, si fa aiutare dal graal: «qui del graal servir se fait».

Abbandoniamo per ora i poemi. Le dispute etimologiche che abbiamo sintetizzato ci ricordarono una polemica analoga, sviluppatasi però in ambito mantovano. Guidati da una serie di assonanze, ci ritrovammo di fronte a S. Maria del Gradaro, costruita su un più antico ma omonimo edificio databile all'anno 230. La prima chiesa venne ultimata proprio per commemorare i martiri cristiani decapitati nel luogo circostante, soprannominato per questo «dei Campi Santi». Tra loro, l'unico noto è Longino, il soldato che ferì con una lancia il costatodel Cristo morto (Vangelo di San Giovanni, 19, 34); il suo leggendario sacrificio veniva segnalato fin dai primi secoli dalla presenza di una grata in ferro, poi sostituita da una colonna, posta appunto là dove la sua testa era caduta. L'etimologia dell'appellativo Gradaro era secondo alcuni legata a questa grata; altri, invece, preferivano accostarla al gradus di cui abbiamo già sentito parlare, intendendo che la chiesa sorgeva a valle di un declivio; infine, altri ancora sottolineavano l'importanza della creta di cui la zona, forse, abbondava.

Seguendo una similitudine intuitiva, cercammo di approfondire l'origine della parola grata, poiché ci sembrava che anche in questo caso l'oggetto in questione avesse un carattere sacro: se si trattava di un segnale appositamente scelto, il manufatto doveva per necessità parlare al cuore e alla mente dei fedeli.

Grata viene dunque dal latino cratis o crates, così come graticcio, graticola e, forse, rete. Ma la radice più antica corrisponde alla voce indoeuropea kart / hart, intrecciare, da cui il tedesco antico hurt, graticcio (greco kurtìa), il sanscrito kàranda, canestro, e il greco kàrtalos, gabbia, cesta. Il termine indica infatti alcuni oggetti costruiti in vimini, intrecciati allo scopo. Benché non frequentissimo, è usato in una gamma


molto ampia, che va dall'ambito agricolo a quello militare. Notiamo innanzitutto il suo legame con il mondo vegetale, poiché i vimini a cui abbiamo accennato sono rami scelti da vari arbusti, che uniscono la flessibilità alla robustezza. Fra gli autori latini che più si servono di questa parola si distingue Virgilio, nelle cui opere troviamo sei diversi casi, che è opportuno illustrare immediatamente. Tre sono nelle Georgiche: «Il raccolto miele dissipano, distruggono la compagine (l'intelaiatura, il graticcio) dei favi» (IV, 214); «Molto giova alle coltivazioni chi frange le zolle coi rastri e trascina l'erpice di graticci (I, 95); «Ma quali sian le armi dei rudi contadini ho da dire... i rozzi di Celèo utensili, i graticci di corbezzolo, di Bacco i vagli mistici» (I, 166).

È inutile ricordare che ci troviamo di fronte a una complessa costruzione letteraria, in cui il lavoro dei campi allude alla reale fatica dei contadini, ma anche al più generale atteggiamento dell'uomo che intende affrancarsi dal bisogno inaugurando una nuova armonia naturale. Tutte le attività, dunque, hanno un peso e una valenza spirituale, poiché ogni incombenza, anche umile, esprime una rinnovata apertura al sacro. In questo contesto è importante rilevare che cratis prima si lega alla vita delle api (l'insetto che distilla laboriosamente e misticarnente un nutrimento sublime), poi viene utilizzato per descrivere l'aratura della terra, infine è accostato a un vaglio, ovvero a quell'attrezzo simile a un cesto, anch'esso di vimini, adoperato per setacciare il grano, esposto come segno beneaugurante in occasione delle cerimonie nuziali, e associato al culto di Bacco, poiché secondo una leggenda aveva fatto da culla al dio.

Altri due esempi appartengono all'Eneide: «Piegano graticci di salice per gli scudi» (VII, 633); «Altri intrecciano il graticcio di un morbido feretro con verghe di corbezzolo» (X1, 64).

Parleremo tra poco della sesta e più significativa


accezione del termine; intanto notiamo come anche nel poema epico il graticcio assuma un valore rituale, in questo caso funerario.

Alcuni dati ulteriori sembravano corroborare il buon avvio della nostra ricerca. È curioso infatti che due compendi etimologici, il primo assai antico, l'altro più recente,abbiano confuso in modo opposto le parole cratera, cioè coppa, e cratis. Isidoro di Siviglia (550636 d. C.) nota nelle sue Originum che la prima voce proviene dal verbo greco kratèin, relativo a quod invicem se teneant, le cose che vicendevolmente si tengono. Lo stesso autore interpreta il secondo termine come un'armatura di canne in cui solitamente si portava la creta per fare mattoni, e lo spiega ancora con il verbo kratèin, che appunto significa tenere, sostenere. Al contrario, un repertorio della lingua latina ristampato nel 1879 (il Lexicon di Egidio Forcellino) afferma che crates deriva da kerào o krào, mescolare, alludendo all'intrecciarsi dei vimini e accostando il vocabolo al cratere in cui, come abbiamo già ricordato, vengono mescolate le bevande. (D'altra parte, il sanscrito srat, legare, connettere, è vicino a grant, intrecciare, comporre, a grat, essere curvo, piegato, ma anche a grah, prendere, afferrare, da cui il vocabolo greco grìphos, rete; curioso come sia in relazione anche con krat, uccidere, fare a pezzi, da cui kratu, sacrificio.)

Inoltre, abbiamo rintracciato in uno scritto di Jean Frappier, uno dei più eminenti studiosi del ciclo cavalleresco (Autour du Graal, Genève, 1977), la conferma definitiva che la nostra ipotesi era quantomeno attendibile. Leggiamo, infatti: «Non c'è tuttavia alcun motivo per non vedere all'origine del graal una forma CRAT / GRADALIS derivata da CRATIS. Questa etimologìa è stata preferita da Spitzer e von Wartburg. A dispetto dell'apparenza, essa è la meno contestabile. La parola graal sembra aver indicato un oggetto rustico di vimini o di paglia intrecciata, un recipiente, largo e leggermente svasato, e quindi tutti gli utensili fab


bricati in terra, legno o metallo, ma sempre assai aperti, e più larghi che profondi».

Non ci sarebbe dunque contraddizione con la coppa da cui eravamo partiti: ci troviamo davanti a una tavola imbandita, in cui la maggior parte delle stoviglie deriva dall'unione di creta e di vimini. Ancor oggi, d'altronde, è assai frequente vedere sulle nostre mense dei cestelli adatti a contenere il pane o altro. Nell'alto medioevo quest'uso era sicuramente generalizzato: pochi potevano permettersi piatti o bicchieri in metallo.

Tuttavia, l'analisi di Frappier merita d'essere approfondita, poiché a nostro parere non coglie un punto fondamentale, che estende il valore simbolico di cratis. Torniamo a Virgilio.

L'ultimo caso in cui cratis si presenta nell'Eneide è nel dodicesimo libro, al verso 508. Infuria la grande battaglia e, tra gli altri, Enea uccide il rutulo Sucrone. «Senza che possa difendersi coglie nel fianco, e dove più rapida è la morte, là spinge la spada crudele, dentro le coste, entro la gabbia del petto (transadigit costas et cratis pectoris ensem)». Infatti, cratis pectoris equivale a gabbia toracica, costato. Evidentemente, l'uso dei vimini nella costruzione di intelaiature (ad esempio in Cesare, in relazione ai merli di torri e di muraglie, o ai ponti) ha ispirato questa nuova accezione del termine, che d'altra parte ritroviamo anche in altri autori: nelle Metamorfosi di Ovidio, XII, 370 (Scagliò contro Demoleonte l'asta di frassino; questa infranse la gabbia delle ossa... laterum cratem), e nell'Asino d'oro di Apuleio, IV, 12 (Cadendo sopra un grandissimo macigno ch'era là sotto, spezzatasi la cassa toracica ... diffissaque crate costarum).

Ora, il pensiero corre immediatamente al costato dì Cristo, trafitto anch'esso dalla lancia di un soldato. Scopriamo il particolare che mancava all'analisi precedente, un dettaglio che rivela la grande differenza di significato, anche religioso, tra la coppa e la nostra grata. La coppa serve a contenere un liquido, una be


vanda, lo stesso sangue di Cristo. Al contrario, la grata lascia entrare l'arma, consente il contatto doloroso fra il corpo del Dio incarnato e il profanatore o il fedele. Per questo Longino diviene subito cristiano: per aver visto che da quella carne ferita scorre un sangue miracoloso. Nel primo caso il rapporto è mediato, prima da un recipiente e poi da un sacerdote; il dramma eucaristico è già avvenuto, si è già trasformato in un rito che lo perpetua, ma che ne stempera lo sconvolgente messaggio: l'uomo ha colpito Dio. Nel secondo caso, invece, tutto resta attualmente davanti ai nostri occhi: il sacrificio, il mistero della divinità sanguinante, il martirio dei santi, la parola di fede nell'istante in cui rischia d'essere perduta per sempre, poiché in quell'attimo essa vola già, scorre ma non è ancora accolta dal mondo. Longino, per espiare, deve affrontare l'imperatore e convertire i pagani; Parsifal, per redimere l'umanità che teme d'aver smarrito la strada, deve a sua volta formulare una domanda: «A chi è servito il graal?» Dunque: chi soffre nella passione, per chi avviene la passione, a prezzo di che avviene la passione? È il problema della relazione con il sacro, comune a molte culture diverse; non è strano che ne sia simbolo un oggetto capace per sua stessa natura di lasciar passare, un manufatto che sostiene ma non trattiene, una gabbia in cui può nascondersi la colomba del Cristo, il suo cuore immacolato e sanguinante. Ecco le gocce di sangue sulla neve, cadute da un'anitra ferita sul collo. Ecco la caccia cavalleresca, che nasce pagana e diviene inevitabilmente incontro con il Figlio di Dio.

Ma il dato più sorprendente sta nella fitta rete di rapporti letterari che questa scoperta svela. Ci piace ricordare come già nell'Eneide risuoni lo stupore e il timore per il sacrificio cruento: la celebre esitazione di Enea, innanzitutto, di fronte al nemico sconfitto e votato alla morte (Ristette fiero nell'armi Enea, volgendo gli occhi, e trattenne la destra; sempre più il discorso cominciava a piegarlo... XII, 938); ma è calzan


te ancora di più lo sconcerto del condottiero nel vedere la vegetazione in cui si è trasformato Polidoro spargere sangue (Infatti dall'arbusto che strappo dal suolo per primo, spezzate le radici, colano gocce di nero sangue... Di nuovo insisto a strappare il flessibile ramo d'un altro, e a cercare a fondo le cause nascoste. Anche dalla corteccia dell'altro sgorga nero sangue... III,27).

Prima di completare il nostro discorso con ulteriori riferimenti all'arte e alla letteratura, soffermiamoci a valutare altre interessanti valenze del termine cratis.

È intanto importante rilevare che la parola viene usata nell'accezione di ossa e di scheletro anche da alcuni noti autori cristiani, quali Tertulliano, Lattanzio, Prudenzio. Inoltre, nel latino medioevale cratis diviene la grata di ferro che nel parlatorio separa le monache dai laici; dice ad esempio la Regola delle Damianite: «Le sorelle non possono recarsi al parlatorio, ovverosia alla grata (vel ad Cratem), senza il permesso della Badessa». Così, la regola delle Clarisse ordina che su questa grata (Crates ferreae), attraverso cui viene impartita la Comunione, venga apposto un panno affinché nessuno possa gettare uno sguardo all'interno. Non ci sembra fuori luogo, allora, menzionare la conosciutissima abitudine islamica di allestire finestre protette da graticci di pietra, in modo da impedire che venga violata l'intimità delle stanze.

Occorre poi menzionare l'uso della grata, o graticola, come diffuso strumento di martirio (di origine più antica, tuttavia; se ne servivano i Cartaginesi, famosi per la loro crudeltà). In particolare, non sembra casuale che la Rotonda di Mantova, posta accanto a Sant'Andrea, sia stata intitolata proprio a San Lorenzo, il santo più noto ad aver subito questo tipo di supplizio. Secondo la tesi di Giannino Giovannoni, che riteniamo assai fondata, l'edificio è sorto proprio là dove vennero ritrov ate le reliquie di Longino. Il carattere di punto centrale nell'economia del pellegrinaggio popolare


sarebbe d'altronde ravvisabile anche nella forma circolare del tempio, ispirato alla Rotonda del Santo Sepolcro a Gerusalemme (nel cui complesso monumentale esiste una cappella dedicata al feritore). Dunque, la grata diverrebbe segnale implicito del rapporto Passione di Cristo / martirio dei santi / arrivo a Mantova, predicazione e decapitazione di Longino.

Per tornare alla mensa, di cui abbiamo a lungo parlato, non è assurdo supporre che molte delle portate più ricche, in epoca medioevale, siano state proposte su graticole di legno o di ferro ancora calde; l'eremita del Parsífal nomina proprio generi di pesci che solitamente vengono cotti alle braci (luz, lamproies, saumon). Benché feroce, questo modo di presentare il martirio come cibo offerto nel banchetto della salvezza appare molto convincente e sintetico. Gli Acta Martyrum ci propongono continuamente esempi di violente metafore, adatte a contrappuntare la cruenta e mortale battaglia in cui la fede cristiana era impegnata. Leone Magno scrive nei suoi Sermoni, a proposito della fine di San Lorenzo: «Le sdrucite membra solcate di molte ferite, (il persecutore) comanda che vengano arrostite con sottoposte braci, e sopra ferrea graticola, fatta rovente da assidua vampa, dando volta alle membra, sia reso il tormento acutissimo (per cratem ferream fieret cruciatus vehementior)... Ma nulla ottieni... Or sono convertiti in omamenti di trionfo anche gli strumenti del supplizio...».

Infine, vogliamo sottolineare la probabile parentela tra i vocaboli cratis e crassus; quest'ultimo sta a significare grosso, spesso, denso. Anche qui predomina l'intreccio, che si applica sia all'organismo umano che agli oggetti inanimati. I latini usano l'aggettivo in associazione con il sangue, con la nebbia, con l'acqua. Virgilio parla di «dense paludi», di fuoco «grasso di pece opaca», di «grumi di sangue». Ma è bizzarro che crassum sia l'intestino, ovvero quella parte resa più spessa dall'intricarsi dei tessuti. Ora, aprendo una parentesi,


ricordiamo che nel Vangelo di San Giovanni, scritto in greco, la lancia colpisce Cristo nel costato (come riportano le traduzioni latine e tutta la consuetudine liturgica seguente); ma il passo è strettamente legato, poiché dalla ferita esce sangue ed acqua, al precedente versetto 7, 38 in cui Gesù profetizza che fiumi d'acqua viva sgorgheranno èk tès koilìas, dal ventre, dai visceri. E da notare, almeno come curiosità, che la voce crassum indica la sezione dell'intestino che rappresenta l'antica koilìas e contiene il tratto chiamato colon, il cui nome deriva dal vocabolo greco.

Occorre ora riassumere, sia pur brevemente, le opposte tesi che si sono confrontate nel corso dell'analisi del ciclo cavalleresco graaliano, terreno ideale per interpretazioni divergenti. La domanda principale è sempre la medesima: a quali correnti storiche, culturali o religiose si deve l'emergere improvviso, nel dodicesirno secolo, di questo affascinante corpus di scritti?

La prima ipotesi, proposta da molti studiosi inglesi, si basa sulla sopravvivenza e riattualizzazione di precisi elementi celtici: il graal, in particolare, sarebbe l'equivalente del magico calderone dell'abbondanza, dotato di inesauribile potere vitale, usato da alcuni dèi ed eroi delle leggende irlandesi. La lancia che appare a Parsifal ricorderebbe poi il tipico attributo di Lug, dio della luce paragonato a Mercurio; in modo analogo, il colpo doloroso che questa lancia ha inflitto al re pescatore sarebbe evocato in una profezia di Merlino e rifletterebbe le ricorrenti sciagure della stirpe bretone. Da qui si dipartono numerosissime corrispondenze, più o meno attendibili; tutte però si rifanno al destino dei primi re della Britannia, sopraffatti dalle tribù sassoni. L'antico popolo, vinto ma non distrutto, avrebbe rielaborato nei secoli le proprie tradizioni, che avrebbero infine influenzato, seguendo canali misteriosi, alcuni uomini di lettere delle corti francesi o dell'entourage dei Plantageneti. Decisiva risulterebbe in questa pro


spettiva la figura di Eleonora d'Aquitania, moglie prima di Luigi VII di Francia e poi di Enrico Il d'Inghilterra.

La seconda soluzione, simmetrica e contrapposta alla prima, sottolinea invece gli aspetti cristiani delle opere in questione, che inizialmente resterebbero in secondo piano, per affermarsi poi nei romanzi della «Vulgata» in cui, come abbiamo già detto, il graal diventa una coppa custodita da uomini che discendono direttamente da Giuseppe d'Arimatea. Quest'ultimo, ricordiamolo, appare nei quattro Vangeli come un discepolo in incognito di Gesù; egli, dopo la crocifissione, si assume il compito di accudire il Suo corpo, con il permesso di Pilato.

L'ambiente culturale in cui germina il ciclo del graal corrisponderebbe allora ai chiostri silenziosi delle abbazie d'Occidente. Oltre a Giuseppe d'Arimatea, personaggio centrale dell'epopea cristologica sarebbe proprio Longino. Nel 1911, R. J. Peebles affermò, nel suo testo Legend of Longinus in Ecclesiastical Tradition, che la lancia della famosa processione era proprio l'arma del nostro santo. Questa ipotesi sollevò un vespaio di polemiche che non si è ancora placato. I suoi sostenitori sono accusati di confondere a bella posta la tradizione ecclesiastica con i Vangeli Apocrifi e con le leggende popolari, supponendo, senza alcuna prova tangibile, che il racconto di Parsifal nasca dalla massiccia diffusione delle reliquie in Europa, all'epoca della prima crociata, e dal fervido ingegno di un ignoto monaco benedettino.

Ai nostri occhi, il dettaglio più curioso della controversia sta nell'assoluta assenza di Mantova dal panorama delle ricerche. Gli studiosi che appoggiano la tesi della Peebles sono andati infatti a caccia di un luogo che rappresentasse l'anello di congiunzione tra i resoconti orali legati alla lancia sacra e la prima redazione scritta di Chrétien. Questo tramite è stato forse individuato nell'abbazia di Fécamp, in Normandia, i cui


monaci avrebbero custodito nel dodicesimo secolo una reliquia del Santo Sangue. È stupefacente che nessuno abbia mai preso in considerazione Mantova, che detiene una reliquia ben visibile, certificata da una Bolla papale e depositata, almeno secondo la leggenda, dallo stesso Longino nei primissimi anni della cristianità; Mantova, nel cui territorio esistevano ben due importanti monasteri benedettini, San Benedetto in Polirone e Sant'Andrea.

Tuttavia, non intendiamo schierarci acriticamente a favore della proposta della Peebles. Anzi, preferiamo un'ipotesi più complessa, che parte anche da alcune evidenze mantovane ma che si sviluppa poi in un intreccio di elementi. Siamo infatti persuasi che il mito divenga operante là dove riesce a raccogliere tradizioni antichissime ed episodi storici più recenti, là dove il terreno fertile consente all'uomo di elaborare una parola che si rivolge sinceramente al sacro. Allora, questa parola risuona attraverso gli anni, per bocca degli artisti, del popolo, delle dinastie regnanti. Talvolta si nasconde, in altri casi si afferma con chiarezza maggiore. Attraversa le religioni istituite, senza perdere il legame con gli aspetti più autentici e consueti della devozione comune. Si rifrange in mille particolari che non hanno, presi da soli, valore assoluto. Sono tracce di un cammino che in parte si è compiuto e in parte attende d'essere proseguito.

Rimandando ad un prossimo capitolo l'esame delle connessioni tra Mantova, la figura di Longino e la prima crociata, vogliamo ora porre l'accento su una terza possibilità, a nostro avviso assai promettente.

Si tratta della cosiddetta «teoria del rituale»; essa, a differenza delle altre, resta un'ipotesi aperta, poiché affonda le sue radici nei culti della vegetazione, quelle pratiche magicoreligiose che si sono rivelate di grande importanza in un largo arco di culture, dall'Asia Minore alla Francia gallica. Si cerca di mettere in ri


lievo la parentela esistente fra la rappresentazione graaliana e i riti dello Spirito della Vegetazione. Gli studiosi di punta in quest'ambito sono W. A. Nitze e la signora J. L. Weston, entrambi attivi all'inizio del nostro secolo.

I riferimenti proposti rimandano al culto di Demetra, ai Misteri Eleusini, al personaggio di Adone. Sono esperienze greche di matrice orientale, che conoscono la massima diffusione nel periodo confuso, ricco di aspettative messianiche, in cui il Cristianesimo ha mosso i primi passi. D'altra parte, anche nella tradizione celtica è costante l'attesa della primavera, volta al miracolo del rinnovarsi perenne degli alberi e dell'erba, inteso come espressione di una natura non domestica ma spontanea.

Il graal sarebbe dunque il cardine di un rito di iniziazione, l'equivalente della cesta santa esposta nei Misteri d'Eleusi. L'avventura di Parsifal si tradurrebbe in un'ascesa purificante, a contatto con un'entità sacra che segue, nel suo apparire e scomparire, il ritmo delle stagioni.

Certamente, la forza di questa ipotesi è anche la sua debolezza: infatti, se essa si dimostra duttile, e adatta a spiegare la genesi dell'intreccio religioso cui accennavamo in precedenza (i miti della vegetazione sembrano in grado di collegare il cristianesimo, il misticismo orientale e le leggende celtiche), tuttavia il suo assunto fondamentale ha di per sé un valore troppo esteso: sarebbe facile rintracciare in ogni società umana un momento cultuale riconducibile alla fertilità della terra e alla ricchezza delle piante.

Allora, nel tentativo di rendere puntuale la ricerca, vorremmo citare una volta di più Virgilio, in quanto massimo interprete di un'epoca in cui le mitologie si mescolano e si ripropongono con nuova intensità, e in quanto poeta tutto rivolto alla natura,, nel suo duplice aspetto di potenza selvaggia e di realtà coltivabile. Il paesaggio mantovano dell'infanzia virgiliana evoca


l'Arcadia e il Lazio dell'età dell'oro: si trasforma continuamente nella terra promessa e perduta, perduta e promessa.

È particolarmente importante sottolineare l'attenzione che Virgilio dedica al mondo arboreo, e specialmente agli arbusti. Fra questi, vengono più volte nominati l'alloro, il mirto, il corbezzolo, il ginepro: se nelle Bucoliche il loro valore è soprattutto estetico, nelle Georgiche diventa fondamentale l'apporto che essi danno al lavoro dell'uomo, per quanto riguarda la costruzione di armi e di attrezzi agricoli; nell'Eneide, infine, tutta la flora assume rilevanza sacrale. Dal corpo di Polidoro, morto ingiustamente, è nato un mirto, come abbiamo già ricordato; questa pianta è sacra a Venere e possiede la particolarità di generare bacche dal succo rossastro, simile a sangue; per questo i suoi frutti sono detti cruenta. Il ginepro è invece ricordato per la sua ombra, che secondo la tradizione popolare è nociva ai viandanti. Infine, di grande interesse per il nostro studio è il corbezzolo, che riassume in sé già dal nome (arbutus in Virgilio, arbutus unedo nelle classificazioni scientifiche) le caratteristiche fondamentali degli arbusti.

Si tratta di un sempreverde, di altezza variabile dai due ai dodici metri, dal legno compatto e omogeneo che ben si presta ad essere lavorato, e dalle bacche tonde e rossastre, ricche di tannino, depurative e antisettiche. Viene anche soprannomìnato «albero italico» per la sua diffusione nella penisola e per i suoi tre colori, bianco, rosso e verde (fiori, frutti, foglie). Notiamo subito che la presenza spontanea di un fogliame persistente lo avvicina alle piante divinizzate dalle popolazioni celtiche, in quanto espressioni di una forza germinatrice divina; basti pensare all'agrifoglio, alla quercia o al tasso , ma soprattutto al vischio, che viene da Virgilio associato alla scoperta del «ramo d'oro», su cui torneremo in seguito. È tipico, nelle decorazioni dei manufatti celtici (e Mantova, prima del governo ro


mano, appartiene in pieno al territorio dominato da queste st irpi, benché subisca forti contaminazioni etrusche), riconoscere esili figure umane circondate e sovrastate da una lussureggiante vegetazione: foglie di vischio, palmette e bacche rotonde, effigiate spesso mediante grani di corallo rosso; il viso che si fa largo nell'intrico è riconducibile a un dio dei boschi, o ad un eroe divinizzato.

L'altra peculiarità di molti arbusti sono appunto le bacche rosse, che servono da nutrimento agli uccelli, oltre a possedere virtù medicamentose e a nascondere un succo simile al sangue. In lingua inglese il corbezzolo è detto strawberry ground cherry, ovvero fragola selvatica. Nelle Metamorfosi di Ovidio, lo si nomina tra le piante che abbellivano la terra nella mitica età dell'oro, regalando agli uomini frutti senza fatica: «Anche la terra medesima, vergine ... tutto produceva; e gli uomini, appagati di frutta spontanea, senza che la terra li costringesse raccoglievano bacche di corbezzolo, fragole montane...» Non sarà inopportuno osservare che queste ultime crescevano in special modo sull'Ida, monte divino per eccellenza.

Ma la fine della «primavera perpetua» è il tema favorito di Virgilio, che tuttavia si affida all'ingegnosità dei contadini, pronti a costruire attrezzi in grado, grazie al lavoro, di ristabilire l'alleanza perduta. Così, nelle Georgiche si afferma che «Cerere per prima gli uomini ammaestrò a voltar la terra col ferro, quando ormai nel sacro bosco scomparivano le ghiande e le corbezzole» (I, 148). Allora, l'unione della forza vitale selvaggia e del metodo della coltivazione può operare il miracolo della ritrovata arrnonia: «Ma il corbezzolo selvatico (horrida) si innesta con la gemma del mandorlo» (II, 69). Inoltre, i rami del corbezzolo offrono quel legno flessibile e resistente che può essere piegato e intrecciato proprio nei crates di cui abbiamo lungamente parlato, preparando graticci utili all'agricoltura, o il morbido feretro a cui abbiamo accennato;


tutto questo, mentre ancora le api si nutrono del suo nettare e le capre amano mangiare il suo fogliame. Torna, nel caso del feretro, il vocabolo «verga», di fondamentale importanza nell'opera virgiliana. A questo proposito è necessario rilevare che anche le armi possono essere fatte col legno degli arbusti. La lancia, ad esempio: «Alle robuste lance utile è il mirto e buono per la guerra il corniolo» (Georgiche, 11, 447).

Anni di guerra e armi di pace (gli aratri e gli erpici) si avvicendano con naturalezza nella visione di Virgilio: l'uomo si dispone ad affrontare il tempo nuovo senza dimenticare le antiche virtù del bosco, senza bestemmiare gli dèi che nella foresta vivevano. Anzi, nel decorso ciclico dei secoli il passato e il futuro si alleano; la strada da percorrere è già segnata da tracce arboree che il pellegrino predestinato deve afferrare.

Se il dramma del graal sta dunque nell'improvvisa sterilità dell'uníverso, dovuta alla dimenticanza colpevole che ha investito i credenti, nella rimozione delle ragioni che portarono Gesù al supremo sacrificio, le foglie e i frutti rappresentano l'orizzonte verso cui muoversi, nella speranza di riconquistare una fertilità perduta, abbandonando la terra desolata. Se il graticcio ritorna ad essere ricordo del martirio, e il dolore nel vedere il sangue sparso si unisce al desiderio di stringere una nuova alleanza con la natura, è ben giusto che appaiano dovunque dipinti e sculture di fiori e frutta.

A Mantova, innanzitutto: Sant'Andrea è un giardino abbagliante, dal portale maggiore alle decorazioni delle cappelle, in,special modo quella dell'Incoronata, dove i santi e i vescovi vengono avvolti dall'edera, dalla passiflora e forse dal corbezzolo, che percorre con i suoi rami carichi di bacche piccoli edifici mistici. Vorremmo poi citare altri luoghi, certamente meno noti: l'appartamento detto «delle balie» in Palazzo Ducale, solcato continuamente da graticci che sostengono piante


rampicanti dai grani violacei; la facciata di una casa in via Massari, dove spunta una comucopia rinascimentale da cui escono frutti in abbondanza, vicino a un vaso su cui appare il trigramma YHS, il simbolo del nome di Cristo inventato da San Bernardino di Siena; infine, la Cena romanica di S. Maria del Gradaro, impreziosita da un fregio geometrico fatto di quadrati sulle cui punte risaltano piccoli tondi rossi.

Inoltre, in una casa del dodicesimo secolo, nell'area del Monastero di Sant'Andrea, è stata recentemente scoperta una teoria di animali disegnata su campo bianco, punteggiato da gruppi di tre bacche rosse. E, per ritornare nel tempio da cui eravamo partiti, accanto alla Rotonda di San Lorenzo un capitello quattrocentesco reca impressa la figura di un uccello intrappolato su un graticcio segnato da dodici cerchi.

Sono i frutti ad averlo attirato nella rete, simbolo della Passione, gocce di sangue ancora vivo.

Bibliografia

Chrétien de Troyes, Le Conte du Graal, Paris, 1973

Jean Frappier, Autour du Graal, Genève, 1977

Jean Marx, La Legende Arthurienne et le Graal, Paris, 1952

J. D. Bruce, The evolution of Arthurian Romance, Genéve, 1974

Enciclopedia Virgiliana, Roma, 1984


IL SOLDATO E LA SUA LANCIA,

TRA CAVALLERIA E CROCIATA

Il Vangelo di San Giovanni narra: «Ma venuti a Gesù, vedendolo già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli apri il fianco con una lancia e subito ne uscì sangue e acqua... Questo infatti è avvenuto perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un'altra Scrittura dice pure: Guarderanno colui che hanno trafitto». L'ultima citazione è riferita a Zaccaria, 12, 10, che così prosegue: «In quel giorno ci sarà una sorgente zampillante per la casa di David e per gli abitanti di Gerusalemme».

Notiamo che il soldato non ha nome, e chedi lui non si dice altro. Gli altri tre Vangeli non riportano l'episodio, anzi sviluppano un tema diverso, introducendo la figura di un centurione che si convince della divinità di Cristo e proclama «Davvero era Fìglio di Dio, costui!» (Matteo, 27, 54; con poche varianti, Marco, 15, 39 e Luca, 23,47).

Il nome di Longino, attribuito al ferìtore, appare per la prima volta in uno scritto apocrifo, chiamato «Atti di Pilato» o «Vangelo di Nicodemo». Si tratta di un gruppo di manoscritti, tradotti nel tredicesimo secolo in francese antico, ma apparsi in precedenza in varie redazioni (greche, latine, copte), databili al quinto secolo dell'età cristiana e sicuramente ispirate a originali antichissimi: ne è prova un'Apologia di Giustino (100165 d. C.) che accenna ad Atti composti sotto Ponzio Pilato. La narrazione segue gli eventi della Passione, usando un ritmo incalzante che la rende simile a un'inchiesta. Pilato tenta invano di salvare Gesù; lo consiglia Nicodemo, che agisce come discepolo occulto della nuova fede (ruolo certificato da Giovanni, unico evangelista a menzionare questo Fariseo, un notabile giudeo. che aiuterà anche Giuseppe d'Arimatea).


Dopo la crocefissione, davanti al Sinedrio stupefatto molti testimoni raccontano i miracoli della sparizione del corpo e dell'apparizione agli apostoli. Una versione degli «Atti» afferma: «Il soldato Longino trafisse il suo costato con una lancia». Un'altra dice: «Fu abbeverato di aceto e fiele, il suo petto fu trapassato da una lancia dal soldato Longino».

Il nome viene evidentemente dal greco lonkè, lancia; questa etimologia identifica completamente l'arma che ha inflitto il colpo e il responsabile dell'oltraggio stesso, quasi a significare che il destino del milite si risolve tutto in una singola azione, pressoché involontaria.

Ma le vicende del malcapitato iniziano ben presto a complicarsi. Nelle «Lettere di Pilato a Erode», apocrifo del quinto secolo, Pilato stesso nomina «il fedele centurione Longino, che aveva fatto la guardia durante la passione di Gesù». La tradizione greca e orientale segue generalmente questa seconda versione, mentre in occidente si preferisce parlare di due Longino, uno soldato e l'altro centurione. Almeno uno di loro, nato in Cappadocia, sarebbe tornato nella regione di provenienza dopo essersi convertito. Qui avrebbe predicato a lungo, prima di affrontare il martirio.

Infine, Iacopo di Varazze (12281298) nella sua Leggenda Aurea, diffusissima raccolta di vite di santi, parla di Longino come di un centurione che, avendo gli occhi ormai quasi ciechi per malattia o per vecchiaia, viene risanato dalle gocce del sangue di Cristo che colano lungo la lancia. Rinunciando alla vita militare, istruito dagli apostoli, trascorse ventotto anni in un monastero a Cesarea di Cappadocia, convertendo molta gente alla fede attraverso le parole e gli esempi. Venne infine arrestato dal governatore del luogo, il quale ordinò che gli venisse tranciata la lingua. Come se nulla fosse, Longino continuò a parlare, liberando la città da molti demoni. Il governatore perse a sua volta la vista ma, dopo aver fatto decapitare il santo, riacqui


stò la salute e si convertì.

La leggenda rnantovana appare in netto contrasto con la maggior parte delle testimonianze da noi ricordate. Così come la espone Ippolito Donesmondi, nella Istoria Ecclesiastica di Mantova del 1612, essa si sviluppa in tre momenti distinti. Longino, risanato, giunge a Mantova nell'anno 36 portando con sé la reliquia del Santo Sangue, che nasconde in un luogo in cui venivano accolti i pellegrini, in prossimità di un tempio di Diana, là dove sorgerà poi la chiesa di Sant'Andrea. Inizia quindi la sua predicazione, che si svolge più o meno nei modi che abbiamo descritto. Infine, il 15 marzo del 37 viene martirizzato per decapitazione in un sobborgo chiamato Cappadocia; a ricordo del suo sacrificio viene posta una grata. Due secoli più tardi sarà costruito nei pressi un oratorio intitolato a S. Maria, detta del Gradaro. Aggiungiamo che Mantova diviene la prima città italiana in assoluto ad accogliere il Verbo del Signore, e che il corpo del martire è per caso sepolto proprio là dove era interrata la reliquia. Il tutto sarà ritrovato una prima volta nell'anno 804, ricevendo la fulminea approvazione di Carlo Magno e del papa Leone III, convenuti tempestivamente sul posto.

Per meglio analizzare la controversia, ricorriamo alle Ricerche storiche di Francesco Tonelli, opera del 1797 in cui lo studioso dimostra un ingegno assai acuto. Dopo aver riassunto i pareri discordanti, e menzionato alcuni racconti che tentano di mediare le opposte versioni (per lo Spagnoli, ad esempio, Longino fu ucciso sulle sponde del Mar Nero, e i suoi resti vennero trasportati a Mantova solo nel terzo secolo), Tonelli afferma che il centurione e il soldato sono due personaggi distinti. Nota che la redazione degli Atti dei Martiri è posteriore di quasi un secolo ai fatti che riguardano Longino, e che un simile lasso di tempo può aver dato origine a fraintendimenti. Ipotizza che la Cappadocia mantovana sia stata chiamata così per in


dicare un quartiere in cui abitavano schiavi, stranieri senza lavoro e reietti in genere. A questo proposito, riporta alcuni brani di autori latini che risultano importanti anche per la nostra ricerca.

Aulo Persio Flacco scrive, esortando un amico a diventare ricco: «Vendi l'anima al guadagno, commercia e fruga instancabile ogni angolo della terra, affinché tu non abbia più rivali nel battere i Cappadoci sulla rigida catasta». Questa catasta è il tavolato (dal greco katàstasis) su cui venivano esposti gli schiavi per la vendita; ha il doppio senso di palco e di graticola, utilizzata anche per il martirio; l'aggettivo rigida può alludere sia alla stabilità dell'impiantito che al duro uso a cui esso era destinato. Gli abitanti della Cappadocia erano schiavi per antonomasia, in quanto uomini robusti nati in un paese miserrimo, in cui perfino il ricco è senza averi (scherza Orazio: «Il re di Cappadocia, che ha tanti schiavi, manca di quattrini»). I commentatori di Persio associarono appunto la catasta al mercato degli schiavi nel Foro Romano e ai supplizi a cui erano normalmente sottoposti i cristiani: «catasta illa, in qua martyres torquendi extendebantur».

La Cappadocia di Mantova può insomma aver rappresentato il villaggio in cui si raccoglievano i derelitti, in particolare coloro che provenivano dall'oriente e che professavano strane dottrine (d'altronde, fino a poco tempo fa un quartiere disagiato della nostra periferia veniva, per lo stesso motivo, soprannominato Tigrai; è facile il paragone tra la regione desolata dell'Asia Minore, percorsa dalle truppe romane, e la poverissima provincia dell'Etiopia, colonizzata dagli italiani). Un luogo simile è inoltre adatto a divenire il teatro della predicazione di un convertito, passato, grazie ad un'illuminazione improvvisa, dai privilegi tipici del soldato, che sorveglia gli uomini legati sulla catasta, all'umilissima condizione di proscritto. Il militare diventa cavaliere errante, non più protetto dalla legge terrena, in conflitto incessante con le istituzioni. Sce


glie di parlare ai diseredati, là dove gli strumenti della schiavitù si trasformano presto in arnesi di tortura. La grata ricorderà in modo persuasivo la sua coraggiosa avventura. Quale migliore fine può conoscere chi ha ferito Cristo, crocefisso come un bandito, tra due ladroni?

Strano, piuttosto, che la voce popolare attribuisca a Virgilio una dimora poco distante dal Gradaro. Ma le vicende della località devono essere certamente reinterpretate: ricordiamo che nel circondario aveva sede un importante cimitero ebraico.

Comunque, Tonelli ha il merito di dissipare alcuni dubbi, rendendo più verosimile la prima parte della storia del nostro feritore. È solo l'inizio, tuttavia: come è noto, le reliquie apparse all'epoca di Carlo Magno spariscono dopo un secolo, frettolosamente nascoste per il timore di un'invasione degli Ungari. La seconda e definitiva inventio è del 1048. In quell'anno governano Mantova Bonifacio di Canossa e la sposa Beatrice di Lorena. Beatrice proviene appunto dalla stirpe dell'Alta Lorena, legata all'imperatore Corrado II (incoronato re d'Italia nel 1026) e alle case di Borgogna e di Svevia. Bonifacio è il nipote di Adalberto Atto, il fondatore dei Canossa, principe «astuto come un serpente», colui che, alleandosi con Ottone I re di Germania, pose le basi della fortunata dinastia.

Le modalità del ritrovamento meritano la nostra attenzione. È un mendicante cieco di nome Adalberto a «vedere» in sogno Sant'Andrea, una notte di marzo. In tre apparizioni il santo gli indica dove cercare, ma il primo avviso cade nel vuoto per lo scetticismo di Beatrice, mentre il secondo non dà buon esito per l'imperizia degli scavatori. Nell'orto dell'oratorio di Sant'Andrea, sorto per commemorare la prima inventio, e appartenente al complesso del monastero benedettino istituito poco tempo prima, torna infine alla luce una cassetta di marmo con il Sangue e la Spugna. Poco lontano, si trova anche il corpo di San Longino.


Da questo momento in poi, la reliquia assume un valore sempre più importante, presso altissime personalità e nella devozione popolare. Papi e imperatori la visitano, trasportando sue particelle in Italia e in Europa. Tra il 1054 e il 1057 viene completata la nuova chiesa di Sant'Andrea, affiancata ben presto da altri quattro edifici sacri, tre nel suburbio e uno sulla riva del lago, che probabilmente rappresentavano altrettante tappe nel cammino dei pellegrini. Per completare l'informazione, sottolineiamo che il monastero sorgeva all'esterno della città vera e propria, costruita attorno all'attuale piazza Sordello. Mantova, benché spesso ribelle, era sotto il dominio di Matilde di Canossa, figlia di Beatrice e di Bonifacio, una donna dall'ardore religioso assolutamente incontestabile.

Eppure, qualcosa sfugge. Vogliamo esprimere in modo sintetico la nostra perplessità: il culto della reliquia non ha nel medioevo quella risonanza che pure sembrerebbe ovvia, visto l'unanime consenso di popolo e di principi. Mantova non diviene una meta di pellegrinaggio universalmente nota: l'attività del monastero conosce una lenta decadenza, e la figura carismatica di Sant'Anselmo sembra sostanzialmente estranea alle cerimonie dell'adorazione del Sangue. Infine, è incredibile che Donizone, nella sua Vita Mathildis, scritta a breve distanza dalla morte della contessa, non nomini neppure una volta la santa reliquia. Come si concilia questa apparente freddezza con la sollevazione di piazza che impedi nel 1053 a papa Leone IX di impossessarsi dei sacri resti?

L'ipotesi di alcuni studiosi è semplice: i Canossa non avrebbero affatto favorito il culto in questione, nato in ambiente filoimperiale e appoggiato a spada tratta dalla cittadinanza. Questa opinione, tuttavia, non è del tutto convincente: resta misterioso il motivo del relativo attenuarsi della tradizione nei secoli postmatildici; relativo, insistiamo, se si pensa alla grande fama che


ottennero in Europa altre reliquie, molto più labili della mantovana. Virgilio e non la pisside appare nelle nostre monete, fino all'epoca di Gianfrancesco Gonzaga.

Esiste però un evento, di scala estremamente più vasta, che può aiutarci a comprendere meglio il problema, oltre a suggerirci altre peculiarità del cavaliere Longino e della sua avventura spirituale. Alludiamo alla Prima Crociata, una spedizione che sembra aver sfiorato solo marginalmente Mantova. La città si era affrancata nel 1091 dal dominio matildico: la contessa riuscì a sconfiggere nello stesso anno le truppe di Enrico IV, ma non trovò subito le energie sufficienti per riconquistare il presidio perduto. In questa situazione di parità instabile,il papa Urbano II decise di indire un concilio a Piacenza, nel marzo del 1095, che fece da prologo al più importante concilio di ClermontFerrand, in cui venne pronunciato l'appello definitivo contro i Turchi, rei di aver conquistato la Palestina: «Deus vult! Deus vult!»

La spedizione si mosse, divisa in diversi contingenti. Ma nessun sovrano vi partecipò, dall'imperatore tedesco all'imperatore bizantino. Furono i principi delle dinastie secondarie a rispondere, tra la diffidenza di molti regnanti. La prima schiera era guidata da Goffredo di Buglione, di stirpe lorenese. Gli storici spesso dimenticano che questo famoso capitano è strettamente imparentato con Matilde; è infatti figlio di Ida, sorella di Goffredo il Gibboso, primo marito della contessa. Mentre il suo esercito percorreva la Germania e l'Ungheria, diretto a Costantinopoli, Boemondo d'Altavilla organizzò i Normanni del Meridione e attraversò l'Adriatico. Altri gruppi vennero dalla Francia del nord, toccando Lucca e Brindisi, condotti da Roberto il Normanno, figlio di Guglielmo il Conquistatore; dalla Francia centrale era sceso Ugo di Vermandois, fratello del re; infine, dalla Francia del sud giunsero le bandiere di Raymond di Saint Gilles. Costui era diventato nel 1093 conte di Tolosa e marchese di Provenza; le sue


truppe seguirono una strada diversa dalle altre: per arrivare a Costantinopoli attraversarono l'Itafia del nord e la Dalmazia.

Era il 1096. La pianura padana vide il passaggio dei provenzali. Matilde, che senza alcun dubbio permise il transito, non sembra aver mosso un dito per aiutare i crociati. Non abbiamo alcuna notizia in merito all'adesione di suoi soldati, neppure a titolo personale. Probabilmente, prevaleva il timore di un attacco imperiale. Ma riteniamo difficile che alla carovana, abbastanza scomposta e tumultuosa, non si sia aggiunto alcun italiano. Abbiamo d'altra parte documenti precisi che ci illuminano sulla partecipazione alla crociata di cittadini lucchesi (altra terra sotto la potestà matildica, benché godesse di speciali privilegi e osteggiasse la politica della contessa), che si unirono con entusiasmo alle truppe francesi.

Il particolare è di una certa importanza. Aprendo una parentesi, osserviamo che andrebbero approfondite le vistose simmetrie esistenti tra la storia sacra di Mantova e quella di Lucca, città accomunate dai Canossa, dalla presenza del vescovo Anselmo e dalla posizione strategica lungo i percorsi che dall'Europa del nord conducevano verso sud

La leggenda del Volto Santo dice che nel 782 un vescovo piemontese, Gualfredo, recatosi in pellegrinaggio a Gerusalemme, scoprì un'effigie di Cristo in croce, scolpita proprio da Nicodemo. Per evitare guai durante il viaggio di ritorno, il prelato decise di affidare la statua a una barca senza equipaggio; il prezioso carico, sospinto dalla Provvidenza, approdò nel golfo di Luni, alla foce del Magra. Ne nacque una lite fra gli abitanti di Luni e di Lucca che, infine, si divisero equamente il tesoro. Il crocefisso nascondeva infatti due ampolle contenenti il Sangue di Gesù. Una di queste fu data a Luni (che la perse più tardi a profitto di Sarzana); l'altra, insieme alla santa immagine (detta Volto Santo), fu trasportata nella chiesa di San Frediano, a


Lucca. Purtroppo, da analisi moderne risulta che l'opera d'arte risale alla fine del dodicesimo secolo.

Ma c'è un dato assai interessante: il racconto è assai simile alla storia del Santo Sangue di Fécamp, l'abbazia normanna che, secondo alcuni, costituirebbe il trait d'union tra il mondo della devozione popolare e il ciclo letterario del Graal. Si narra che un tronco di fico arrivò per mare a Fécamp, portando con sé due custodie di piombo in cui si trovava una parte del sangue di Gesù, pietosamente raccolto da Nicodemo. In un saggio di René Herval viene sottolineata la perfetta corrispondenza di particolari tra i due resoconti, l'italiano e il normanno. Lo studioso deduce che il secondo venne inventato sulla base del primo, all'epoca molto conosciuto grazie ai rapporti commerciali tra Lucca e la Francia del Nord. Ma l'esimio professore non sa che, a sua volta, la leggenda della città toscana presenta strane analogie con gli avvenimenti mantovani: è per lo meno sospetto, infatti, che il sangue arrivi sul Magra, per via magica e diretta, poco tempo prima del ritrovamento delle reliquie di Longino, quasi si volesse istituire una leggera ma tangibile supremazia. Nel caso di Lucca, però, il pezzo forte non è il sangue ma il Crocefisso; l'attribuzione di quest'ultimo a Nicodemo ci sembra un tentativo evidente di collegare il manufatto a un personaggio che, come Longino e al contrario di Giuseppe di Arimatea, appare solo nel Vangelo di Giovanni, il Vangelo del sangue e dell'acqua.

Comunque, nell'ottobre del 1097 i diversi drappelli si radunarono sotto le mura di Antiochia, famosa città dell'Oriente, protetta da mura possenti, e iniziarono il suo assedio. Dobbiamo proprio ad un certo Bruno di Lucca una delle più interessanti cronache di questo momento della guerra, che si affianca ad altri resoconti più noti, quali le Gesta Francorum di un anonimo italiano al seguito di Boemondo, i racconti di Pierre Tudebode e, soprattutto, l'Historia Francorum qui ce


perunt Jherusalem di Raimon d'Aguilers. Costui era il cappellano di Raimondo di Tolosa; a lui ci rifaremo spesso, senza tuttavia dimenticare la Canzone d'Antiochia, opera in francese composta alla fine del dodicesimo secolo. Essa ha due grandi pregi: è abbastanza attendibile in rapporto agli episodi realmente avvenuti, ma inaugura anche quel ciclo di Canzoni di Crociata che rappresentano nella letteratura medioevale un insieme di epopee di livello paragonabile alle avventure della Tavola Rotonda. Ai mitici eroi della Britannia. si affiancano le figure dei condottieri crociati, sempre nel segno dell'ideale cavalleresco.

Le vicende di Antiochia hanno un grande valore storico: è la prima vera impresa di conquista, ma è anche l'occasione in cui appaiono i primi dissensi tra i capi. È Boemondo ad assumersi l'onere della battaglia, avocando a sé di fatto il comando delle operazioni. Gli altri principi gli promettono il regno sulla città, una volta che questa sia catturata; solo Raimondo sembra dissentire. Grazie al tradimento dell'infedele Firuz, i cristiani nel giugno del 1098 penetrano oltre le mura e raggiungono una completa vittoria.

Non vi è però tempo di festeggiare: pochi giorni dopo gli exassedianti si trasformano in assediati, poiché l'esercito di Kerboga, signore di Mossul, li circonda inflessibilmente. La situazione diviene assai critica: le sortite non hanno alcun effetto. I capi crociati stringono allora un patto di ferro, giurandosi reciproca fedeltà sull'ostia sacra; ma la fame comincia a mietere vittime, mentre l'aiuto dell'imperatore bizantino tarda ad arrivare (e infatti, non giunse mai). A questo punto, però, accade un evento miracoloso. Un tale Pietro Barthélemy «pauperem quendam rusticum», provenzale, si presenta a Raimondo di Tolosa e racconta di aver visto in sogno Sant'Andrea, che gli ha rivelato il luogo dove è sepolta la lancia usata da Longino per colpire Cristo. Il poveraccio spiega di non aver osato disturbare i signori, inizialmente; ma Sant'Andrea per altre due vol


te gli ha ricordato il suo dovere. Naturalmente, Raimondo presta fede a questo messaggio, tanto più che un prete sostiene di aver assistito a una visione simile. Il 14 di giugno, il conte e altri undici uomini si recano nella Chiesa di San Pietro e, dopo faticosi scavi e appassionate preghiere, ritrovano la Lancia.

Leggiamo il resoconto della Canzone di Antiochia. Dice Sant'Andrea: «Amico mio, ascoltami. In Antiochia, nel monastero di San Pietro, che del cielo tiene le chiavi, vicino alla masseria, a destra, se voi scavate troverete la lancia con cui Dio fu ferito.» Così, Pietro afferma: «Signore, qui scavate. E se non trovate nulla, che io sia arso vivo.» Infine: «All'ora del vespro fu trovato lo scrigno in cui stava nascosta la lancia». Tutti giurano che combatteranno fino alla presa del Santo Sepolcro e Corburan (Kerboga) viene sconfitto.

Così avvenne, il 28 giugno del 1098. La strada verso Gerusalemme era libera, anche se occorreva ancora risolvere le inimicizie che dividevano i crociati. Raimondo e Boemondo furono a lungo in contrasto per il possesso di Antiochia; se il secondo aveva guidato i soldati nello scontro decisivo, il primo poteva a buon diritto sostenere di aver ricevuto la benedizione e l'investitura di Sant'Andrea: il suo cappellano Raymond d'Aguilers si era assunto il compito di portare con le proprie mani la reliquia sul campo di battaglia. Alla fine, per sedare il conflitto, decisero di partire tutti per la Città Santa.

Durante il tragitto, tuttavia, Boemondo scelse di ritornare e, dopo aver espulso la guarnigione provenzale, si impossessò definitivamente di Antiochia, diventandone re. Come è noto, Gerusalemme cadde nel luglio del 1099; Goffredo di Buglione fu eletto sovrano con il titolo di Difensore del Santo Sepolcro, nonostante le perplessità di Raimondo. Un anno dopo, alla sua morte, gli subentrò il fratello Baldovino.

Dobbiamo notare che il ritrovamento di Antiochia


presenta notevoli analogie con l'inventio di Mantova, avvenuta cinquant'anni prima. In entrambi i casi, abbiamo un uomo di condizione sociale umilissima (Pietro e Adalberto) che riceve in sogno la visita di Sant'Andrea. Sia a Mantova che nella città orientale il santo è costretto a presentarsi tre volte; la reliquia viene trovata dopo una giornata di scavi in un monastero (San Pietro e Sant'Andrea), conservata in una cassetta. Infine, è rimarchevole che il contingente di Raimondo, ovvero il principe a cui tutta la leggenda fa capo, abbia attraversato proprio la pianura padana durante il viaggio di avvicinamento a Costantinopoli. Non solo la Lancia spinge al trionfo i cristiani (è significativo che sia proprio l'arma brandita dal soldato feritore a realizzare quella saldatura tra impresa spirituale e guerra combattuta che permette ai cavalieri di vincere la prima grande battaglia della Crociata), ma consente anche al conte di Tolosa, il capo più maturo e autorevole, di caldeggiare il proprio primato, adducendo a pretesto il favore divino. Non a caso un cronista a lui avverso, Raoul di Caen, parla dell'episodio come di una vera e propria frode.

Che poi la Lancia divenga simbolo della nuova cavalleria, destinata a liberare il Santo Sepolcro, sembra già ovvio dalle parole di Sant'Andrea: «Ecco la lancia che aprì il Suo fianco, da cui venne la salvezza del mondo intero». Segue una vera incoronazione: «Ecco, Dio donò al conte quel che non volle mai dare ad altri, e così lo elesse vessillifero di questo esercito» (Raymond d'Aguilers).

Benché gli eventi successivi non siano stati favorevoli a Raimondo, che morì nel 1105 assediando Tripoli dopo essere stato messo da parte più volte dagli altri generali, in lui certamente rifulge al massimo lo spirito della Crociata. Antiochia, d'altronde, sembra legarsi strettamente alla Francia meridionale e alla sua storia letteraria. Guglíelmo IX d'Aquitania, il primo dei Trovatori, guidò un'orda di avventurieri lombardi verso la


Terrasanta, incontrando una serie impressionante di sconfitte che decimarono il suo esercito. Entrò comunque ad Antiochia nel 1102, precedendo di quarantasei anni la nipote Eleonora, giunta nella città insieme al primo marito, Luigi re di Francia, all'epoca della Seconda Crociata.

La reggeva in quel periodo un altro Raimondo, di Poitiers, figlio del Trovatore e zio dell'avventurosa regina. La giovane sovrana (aveva solo ventisei anni) si schierò contro il marito che, ribellandosi ai consigli dei dignitari locali, voleva proseguire al più presto per Gerusalemme; costretta a partire, vide infrangersi rapidamente il suo matrimonio. Ma nel 1152, liberata da ogni vincolo, sposò Enrico Plantageneto conte d'Angiò e duca di Normandia, che ben presto divenne re d'Inghilterra.

Abbiamo citato questa vicenda dinastica per accennare brevemente alla fondamentale figura di una donna che, nella sua lunghissima vita, si trovò protagonista di tutti i conflitti che divisero le famiglie regali; al tempo stesso, ella fu ispiratrice di moltissimi artisti europei, fino a rappresentare il cardine attorno a cui ruota la nuova poesia occidentale. A lei è legato Bernart de Ventadorn, il più grande dei trovatori, a lei sono dedicati il Brut di Wace e il Roman de Troie di Benôit de SainteMaure. Alla corte di sua figlia Marie di Champagne opera Chrétien, l'autore del primo Parsifal.

Infine, e forse è questo il dato più importante, il suo destino di moglie e figlia di diversi potenti sembra aver favorito il mescolarsi delle tradizioni narrative, la provenzale, la normanna di Francia, la normanna inglese, la francese del nordest. È infatti nel corso del dodicesimo secolo che la cosiddetta «materia di Bretagna» ha modo di espandersi e di trionfare, rendendo proverbiali i personaggi di Artù, Merlino, Tristano, Lancillotto, Parsifal. Questo avviene mentre scorre la storia delle Crociate, il cui esito sempre più nefasto dà tuttavia impulso alla redazione di cronache veriterie e di Can


zoni sospese tra il resoconto dei fatti e la fantasia. L'Occidente perde Gerusalemme, ma conquista alcuni eroi che sono davvero vissuti, diventando leggendari già durante la loro esistenza. Abbiamo menzionato la Canzone di Antiochia, che inizia il primo Cielo della Crociata, composto inoltre dalla Conquête de Jérusalem e dalla canzone dei Chétifs. Il protagonista assoluto dell'epopea, scritta tra la fine del dodícesimo secolo e l'inizio del tredicesimo, è Goffredo di Buglione, di cui si celebra la forza fisica e la passione religiosa. Il Difensore del Santo Sepolcro, di cui abbiamo messo in rilievo la stretta parentela con Matilde (ma i loro rapporti non furono mai buoni), primeggia anche nel secondo Cicllo, iniziato più tardi, verso il 1350.

Per il nostro studio sono essenziali tre considerazioni. Innanzitutto, Antiochia è, al pari della Città Santa, il centro delle vicende narrate nei primi testi. In secondo luogo, il nome di Longino viene utilizzato sistematicamente, secondo una formula quasi invariabile. Risalendo dai brani antichi ai più moderni, passiamo in rassegna alcuni esempi. In Aliscans (1160) si dice, rievocando la Passione di Cristo: «Et en la croiz soffris grief passion, et de la lance fus feruz a bandon; ce fut Longis qui ot bon guerredon» (Longino ebbe una buona ricompensa: segue, infatti, l'episodio degli occhi risanati). Nell'Alcuin (1170) si ripete «Et fut percié o longs clous et traictifs, et de la lance lors le ferit Longis». Nella Canzone di Antiochia Boemondo proclama, rivolto alla città assediata: « Cité faitil marfus, Paien t'ont maléoit; dame Diex me doinst vivre tant que servis i soit li sires que Longis ferit el coste droit». Nella Conquête de Jérusalem ritorna la frase consueta: «QuantLongis son costé de la lance percha». Il soldato viene di nuovo guarito nella Chevalerie Ogier, storia di un cavaliere della corte di Carlo Magno: «Longins i vit, qi estoit non véant, qui de la lance vus en percha le flanc, tersten ses elx de vo précious sanc. Adonc vos vit, biaus Sire, apertemant». Qui si sottoli


nea il perdono concesso al feritore, così come avviene in Aymeri de Narbonne: «Que Damedex qui pardon fist Longis, te doint vitoire contre tes ennemis». Più volte, infine, si cita Longino in Le Batard de Bouillon (1350): «Quant Longis le feri de sa lance aguisie... ». Come si può notare, il richiamo è quasi ossessivo e si articola in due momenti chiave: il colpo che trafigge e il perdono concesso da Cristo, che immediatamente si traduce nella vista riacquistata. È inutile ricordare che Adalberto è cieco; ma anche il Pietro di Raymond d'Aguilers sembra soffrire di un simile male: «E mi colpi un tale malessere da farmi perdere la luce degli occhi».

Come terza osservazione, accenniamo ora a un argomento che riprenderemo estesamente in seguito: secondo una lunga serie di poemi, l'ascendenza di Goffredo di Buglione si perderebbe nel mito. Ida, la madre di Goffredo, sarebbe figlia del cosiddetto Cavaliere del Cigno. Costui è il protagonista di un racconto popolare, in cui una fata mette al mondo sette bambini, che un prodigio trasforma in cigni. Dopo varie peripezie, essi ritornano uomini, eccetto uno: l'ultimo cigno diviene ilcompagno inseparabile del fratello maggiore Elias, il Cavaliere. Elias arriva alla corte di Ottone, si batte in duello e ottiene la mano della duchessa di Buglione. La nobildonna partorisce Ida, ma contravviene al divieto assoluto di non chiedere mai il nome del suo sposo, e lo vede allontanarsi per sempre. L'intera storia verrà poi ripresa in terra germanica (d'altra parte, forse in quelle regioni è nata), ma il protagonista invece di Elias si chiamerà Lohengrin, eroe universalmente noto grazie al dramma wagneriano.

Dalla Germania torniamo ora alla pianura padana, precisamente a Modena. Nel 1106 qui avviene,, presente la contessa Matilde, la traslazione del corpo di San Geminiano nella nuova chiesa romanica, in corso di costruzione. Questo famoso edificio, oltre a presentare le celebri sculture di Wiligelmo, ospita sull'arco di un portale minore, detto della Pescheria, un gruppo


di armati i cui nomi scolpiti corrispondono in parte ai personaggi delle gesta arturiane: si tratta innanzitutto dello stesso Artù, «Artus De Bretania», di Isdernus, Burmaltus, Winlogee, rinchiusa in un castello che i cavalieri stanno assaltando, Mardoc, Carrado, Galvagin, Gasvarium, Che. Dopo varie controversie, si è ormai accertato (fondamentali in questo senso sono gli studi di Quintavalle) che l'arco risale al primo decennio del secolo dodicesimo. Il dettaglio sorprendente sta nel fatto che la prima vera codificazione della figura di Artù appare nella Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, terminata nel 1138. Certamente, l'autore elabora una serie di cronache e di favole, soprattutto gallesi, ben note. Il personaggio di Artù è in qualche misura storico: si tratta infatti di un capo militare dei Bretoni, dal nome latinizzato di Artorius, che visse nel sesto secolo dopo Cristo. Le fonti in merito sono assai antiche: gli Annales Cambriae, i leggendari resoconti di Gildas, l'Historia Ecclesiastica del venerabile Beda, il famoso monaco e dottore della chiesa nato intorno al 670, la Historia Brittonum del copista Nennio che, scrivendo in epoca carolingia, parla di un Arthur in guerra contro i sassoni.

Tuttavia, la rapidissima diffusione in Inghilterra e nel continente delle avventure della Tavola Rotonda, in cui poi si inserirà la vicenda di Parsifal, resta uno dei grandi misteri della storia della letteratura occidentale. Si stenta infatti a capire come un gruppo di racconti tramandati in una lingua diversa dal francese, non appartenente al ceppo neolatino, abbia potuto imporsi con tanta efficacia. Il portale di Modena sta a testimoniare che già nel 1110 gli eroi della saga erano cosi popolari da essere effigiati in un bassorilievo che sicuramente doveva corrispondere in pieno all'immaginario collettivo, rivaleggiando con le consuete rappresentazioni sacre. A questo proposito, vogliamo seguire la tesi di Roger Loomis, autorevolissimo studioso dell'argomento: egli attribuisce ai Bretoni gli abitanti della


Bretagna la responsabilità del veloce affermarsi delle storie arturiane. Scrive: «(Si trattava di) un popolo appassionatamente legato al ricordo di Artù, e che lo credeva ancora in vita; (un popolo) congiunto al Galles da legami di sangue e da rapporti continui, ma che parlava una lingua usatadalla nobiltà, dal Firth of Forth al Giordano». Loomis accenna in particolare a una vera classe di menestrelli itineranti, i conteurs. Proprio in relazione all'arco di Modena, afferma che costoro, partiti dai territori anglonormanni, raggiunsero la pianura padana lasciando numerose tracce del loro passaggio. Cita come esempio la presenza di personalità illustri di nome Artusius in documenti padovani del dodicesimo secolo. La Winlogee prigioniera nel castello assediato sarebbe una variante della regina Ginevra, Guinloie in francese, Winlowen in bretone. «Dunque, il conteur che diede questo nome era bretone. Forse scese in Italia con il contingente bretone della Prima Crociata».

Ci permettiamo allora di proporre un'ipotesi complementare, che riassume il senso del nostro articolo. Il momento d'aggregazione che consentì il mescolarsi delle tradizioni, riportate oralmente in molte lingue diverse, fu proprio la guerra di Palestina. Con un piccolo sforzo di fantasia possiamo immaginare i lunghi giorni spesi negli assedi e nei controassedi da un esercito composto di nobili, di religiosi, di sbandati, di esaltati. Soldati che giungevano da tutte le parti d'Europa e che avevano in comune solo un allucinato desiderio di purificazione, per motivi di riscatto personale o per ambizione dinastica. Trovandosi ai confini del mondo conosciuto, esposti agli attacchi di genti più civilizzate, dormendo su un terreno che la Passione di Cristo aveva reso sacro, essi potevano scoprire l'altra faccia della loro fede, il luogo in cui tutto si era deciso. Divennero certamente attuali le imprese di Carlo Magno e degli antichi re della Britannia; fu naturale discorrere delle reliquie adorate in Occidente, ma che proveni


vano da Gerusalemme o da Antiochia. La vittoria, precariamente raggiunta grazie ad inganni e a suggestioni collettive, fu l'occasione del definitivo emergere di un mito, il mito dei cavalieri. I reduci, ritornando in ondate successive e disordinate ai paesi natali, o scegliendo una nuova esistenza in altre contrade, non portarono ricchezze né appagamento: il loro più grande tesoro era un magnifico e frammentario racconto, reso veritiero dall'esperienza vissuta. Artù, il sovrano che scompare dopo una battaglia perduta, diviene il simbolo attuale di una ricerca senza speranza di successo. I condottieri della Crociata, Goffredo e Boemondo, si trasformano in semidei che una sorte crudele non vuole mai completamente vittoriosi. Infine, l'inevitabile fallimento delle spedizioni seguenti e l'angoscia per la terribile sconfitta si traducono nel destino di Parsifal, l'uomo della purezza smemorata, colui che si dimentica di chiedere. Questo personaggio è simmetrico a Longino: così come il milite dell'esercito romano ferisce Cristo automaticamente, senza domandarsi perché, nella cecità dei sensi e dello spirito, Parsifal agisce in modo meccanico, associandosi senza scopo alla Tavola Rotonda. Si comporta come una persona segnata da un trauma profondo, impresso in regioni inaccessibili alla coscienza. Il suo vagare lo condurrà alla guarigione, così come Longino tenta di espiare, improvvisamente, predicando e affrontando il martirio.

Il punto di partenza, il costato sanguinante di Gesù, si ribalta nella coppa e nella grata irraggiungibili, oggetti percorsi dal liquido, piangenti. Gli altri cavalieri attraversano il bosco senza arrivare alla meta, chi per orgoglio, chi per lussuria, chi per semplice ignoranza. Solo chi ha vibrato il colpo può capire le ragioni del dolore, dissolvendo la sua colpa nella redenzione universale. Parsifal cerca nel passato la frase che può salvarlo. Parallelamente (ed è questa l'invenzione letteraria più eclatante), anche la narrazione diviene misteriosa, celando al lettore la realtà del graal, costringen


dolo a sua volta ad un cammino di conoscenza.

Se questi elementi si fissano nel pensiero popolare, creando i presupposti del poema, lo stesso tema viene sfruttato dalla nobiltà europea per ottenere un credito che sembra già in pericolo. Le famiglie lorenesi, provenzali, angioine, normanne vogliono riconquistare il Santo Sepolcro per iscrivere il proprio. blasone in una dimensione assoluta, sfuggendo alla contrapposizione ormai sterile tra il Papato e l'Impero. La leggenda diviene mezzo per l'affermazione personale, come dimostra l'episodio della Lancia di Antiochia. Alcuni si spingono fino a pretendere un legame di sangue con il Figlio di Dio. Tutti aspirano a una gloria suprema, resa eterna dall'arte. In breve tempo, l'affermarsi dei grandi stati nazionali toglierà loro ogni residua, realistica prospettiva, precipitando il sogno dei principi nel settarismo e nelle congiure.

Il caso di Mantova ci appare emblematico, per le sue evidenze palesi (Longino, il Sangue), e per il periodico occultamento che esse subiscono. La situazione di Matilde è assai ambigua: la contessa è l'erede padana della dinastia lorenese, ma anche la più valida rappresentante di un progetto di signoria italiana. Tuttavia, la sua dedizione alla causa della riforma gregoriana la costringe in un ruolo che la storia dimostrerà perdente, così come avviene in generale a tutti i centri di potere del nostro paese, troppo condizionato dalla presenza papale e dall'instabilità degli equilibri politici. La reliquia viene scoperta nel periodo di Beatrice e Bonifacio, quando ancora sembra possibile l'estendersi di un dominio basato su una sola famiglia reggente. Mantova, con le sue chiese prestigiose, diviene sede di pellegrinaggio, ma le rivolte cittadine e l'altemarsi dei capi delle fazioni stendono un velo sulla sua storia sacra, che d'altra parte rimane ben viva nel cuore del popolo. Saranno i Gonzaga, ovvero la dinastia vincente, a voler ottenere il massimo vantaggio dalla presenza miracolosa; siamo però in un'altra epoca, che impe


disce ogni speranza di vera autonomia; l'avventura si colora di rimpianto, riferendosi ad una situazione ormai lontana nel tempo e nello spazio. Il messaggio del Sangue diviene eucaristico, in accordo con i racconti dei codici trecenteschi di cui i duchi di Mantova sono avidi collezionisti.

Del rapporto tra la reliquia e Matilde, vissuta in anni ben più ricchi di spiritualità, restano labili indizi, considerando inoltre la distruzione dell'archivio del monastero cittadino e l'assidua opera dei Gonzaga, volta ad eliminare, a partire da Sant'Andrea, ogni ricordo medioevale superstite. Vogliamo però citare quattro diversi esempi, che sono forse in grado di illuminarci su quel passato ormai quasi svanito.

Nel monastero di San Benedetto, un grifone dall'aspetto maestoso viene colpito dalla lancia di un soldato, e dalla ferita sprizza sangue rosso. È un mosaico attribuibile alla prima metà del dodicesimo secolo. In disaccordo con altri pareri, crediamo che l'animale mitico, dalla doppia natura, sia un emblema di Cristo, colpito e trionfante.

Per quanto riguarda la pietà di Matilde, ricordiamo che ella portò con sé, dopo un viaggio a Roma, parte dei resti mortali di Gregorio Nazianzeno, che oggi riposano accanto al corpo di Longino, in Sant'Andrea. Supponiamo che questa bizzarra preferenza derivi dall'attribuzione (poi rivelatasi inesatta) al Padre della Chiesa della tragedia Christus Patiens, scritto apocrifo sulla Passione. La presenza delle sue ossa ben poteva sottolineare l'importanza fondamentale di Longino.

Dal punto di vista letterario, menzioniamo un codice quattrocentesco (manoscritto 452 della Biblioteca Comunale mantovana) redatto a San Benedetto. Benché sia un esemplare tardo, ci sembra significativo che gli scritti qui raccolti vertano tutti sul tema del corpo e del sangue di Cristo. In particolare, il De corpore et sanguine Domini di Gezone da Tortona (abate benedettino del decimo secolo) e lo scritto omonimo di Pa


scasio Radberto (teologo morto a Corbie nell'865, interprete della rinascita carolingia). Questi trattati, meritevoli di un esame approfondito, sono testimonianza dell'interesse estremo che si sviluppò nell'ambiente religioso locale in relazione ai problemi connessi con la divinità delle tracce materiali sparse da Gesù.

Infine, ci piace rileggere un passo della sconvolgente preghiera che Sant'Anselmo regalò alle labbra, della contessa: «Io che non sono che una carne violata, concepita nell'abiezione e nell'abiezione partorita... so bene che tu sei il figlio di quella vergine ineffabile che ti ha concepito nella fiamma del desiderio spirituale... Ma io, chi sono io, che non riesco a fuggire quando ti vedo e ti tocco, quando addirittura ti mangio? ... Non provo tuttavia ripugnanza a portarti su di me, a portare proprio te e non altri, a stringerti ora tra i denti e a toccarti con la carne del peccato... Ti inghiottisco, e non sono sconvolta dalla paura».

Bibliografia

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VIRGILIO, NEGROMANTE E GUIDA

NEL PROFONDO MEDIOEVO

Il ruolo di Virgilio nella storia della letteratura appare assai anomalo. Si tratta di un poeta di fama enorme e indiscussa che occupò in vita una posizione privilegiata, riuscendo a divenire il cantore della nascita di un impero, senza per questo vestire mai i panni del cortigiano.

È forse la dolcezza dei suoi versi a permettergli di attraversare agevolmente la porta stretta che separa la quotidianità del potere dall'eternità del mito. Ma già i contemporanei compresero che l'operazione non sarebbe mai riuscita senza l'apporto di qualche virtù meno consueta, cresciuta a margine del suo legame vitale con il territorio, la terra, la nazione. Dalle Georgiche, in cui la pratica dell'agricoltura allude alla tensione continua dell'uomo verso un avvenire migliore, in un'opera di restituzione che lo accomuna agli dèi, dalle Bucoliche, che esprimono il fremito del rimpianto e la dolorosa attesa di un avvento che sappia squarciare gli anni appannati dell'oblio, giungiamo con naturalezza all'Eneide, ovvero l'apoteosi di un itinerario epico (di popolo e di massa) e iniziatico (dell'eroe e del singolo). Miracolosamente, il tema del luogo perduto si dilata in modo quasi inverosimile, abbracciando prima il Lazio, poi il destino di Roma, infine la missione universale della città eletta. L'avventura è possibile, però, solo se avviene lungo un percorso che ritorna. Assomiglia ai casi di Ulisse, ma sembra anche assai diversa: nella nuova poesia, infatti, è il tempo a piegarsi.

Se Enea approda in Italia, seguendo a ritroso il viaggio che portò Dardano, il progenitore della stirpe troiana, verso oriente, il suo cammino è da un lato già scritto, e dall'altro è totalmente inedito: gli dèi stessi superano il loro atteggiamento bizzoso e si curvano ad ammirare il fato che si compie. Così avviene alle anime, che si purificano eternamente grazie alla trasmigrazio


ne. La perdita, allora, diviene originaria e necessaria. È il dettaglio che muove la storia, il punto oscuro che vela la determinazione del protagonista, costringendolo ad esitare sempre, quasi ogni azione recasse in sé il germe dell'esaurimento e della rinascita. Ma, se il poeta riesce a sostenere l'immane peso della necessità, può con maggior forza svelare i sentimenti del nostro cuore, proprio perché essi si trovano liberati da ogni sovradeterminazione sociale e individuale. I personaggi rispondono solo al confuso procedere delle emozioni, e il loro compito, mentre diviene incredibilmente vasto, li scioglie intanto dal nodo della responsabilità esistenziale. Il dubbio metafisico si annulla, se ciascuno riconosce negli occhi dell'altro un destino comune e opposto. Sdegnosa, l'anima di Turno fugge tra le ombre, liberata dall'odio, con un ultimo malinconico sospiro.

Sono dunque almeno tre i punti di forza di Virgilio nell'evolversi della tradizione letteraria: la sua somma arte, che diviene anche modello grammaticale di scrittura, la sintesi epica del futuro personale e del destino collettivo, la sensibilità mistica che si apre al mutamento epocale degli spiriti, esprimendo il desiderio di rinascita nella figura del bambino misterioso che appare nella quarta ecloga. Ogni elaborazione critica è quindi costretta ad amplificare l'importanza e il valore della sua opera. Non serve ai padri della Chiesa mettere in guardia il lettore cristiano, consigliandolo di dedicarsi al Vangelo piuttosto che ai grandi latini; Girolamo e Agostino sono traditi dalla lingua stessa, in cui affiorano continuamente le antiche reminiscenze. È impossibile accomunare l'artista mantovano alla decadenza orrnai inarrestabile della classicità. Egli ha chiaramente detto qualcosa di più, e molti si affannano, cercando di capire se la qualità profetica delle Bucoliche proviene direttamente dai Libri Sibillini, o non è piuttosto la conseguenza di un'illuminazione segreta.

Questo tragitto parte dall'età augustea e arriva fino


alla Divina Commedia. È costellato di interpreti bizzarri e minori: Fulgenzio, commentatore del sesto secolo, intende l'Eneide come metafora della vita umana, e i singoli libri gli sembrano puntuali tappe dell'affrancarsi dell'anima dai vizi e dall'ignoranza; un altrimenti sconosciuto autore del settimo secolo si autodefinisce «Virgilio grammatico» e compila una congerie di considerazioni filosofiche che cercano autorevolezza in una stravagante esposizione grammaticale, parodia involontaria dello studio scolastico della lingua virgiliana. Intanto, più seriamente, nei conventi irlandesi si leggono i commenti di Donato e di Servio, si trascrivono e si annotano i testi antichi, utilizzando il poeta come veicolo di cultura e di diffusione della logica del discorso.

Ma, nel volgere dei secoli, si sviluppa un secondo, straordinario processo, che porta alla costruzione di un personaggio dotato di enormi poteri magici. Già Apuleio, nel De magia, ricorda una leggenda ripetuta negli ambienti cristiani di Alessandria, in cui si accenna ai poteri profetici e sovrannaturali dell'artista. Sembra che questa parte della tradizione sia di natura popolare. A riguardo, il testo fondamentale rimane ancor oggi il Virgilio nel medio evo di Domenico Comparetti, edito nella seconda metà dell'ottocento.

L'autore ha il merito di elencare sistematicamente alcuni resoconti apparsi dalla metà del dodicesimo secolo in poi; sono testimonianze di diversa importanza, che tuttavia illustrano in modo concorde le gesta immaginarie di Virgilio. Per offrire un saggio della materia narrativa, riportiamo alcune delle sue avventure più notevoli: aveva a disposizione un ponte d'aria che gli permetteva di spostarsi dovunque; costruì una mosca di bronzo che liberò Napoli dagli insetti che la infestavano; inventò automi di legno per avvertire l'imperatore delle ribellioni in corso nelle provincie, e fabbricò un prodigioso cavallo metallico: predispose un ma


cello in cui la carne si conservava a lungo intatta; fece erigere la statua di un arciere che, in caso di eruzione del Vesuvio, doveva scoccare una freccia capace di domare il vulcano. Inoltre, riuscì a imprigionare sotto una Porta tutti i serpenti di Napoli, costruì con arti magiche il proprio sepolcro, creò un giardino protetto da un muro invisibile e piantò erbe dalle intense virtù medicamentose. Le sue ossa avevano un potere sovrannaturale, la sua tomba era piena di libri sacri e di lampade dal fuoco eterno. Da morto, stringeva tra le dita un piccolo volume in cui erano scritte formule misteriose di ogni tipo.

Si tratta, come si può notare, di dicerie legate in special modo a Napoli, città prossima al luogo della sua sepoltura, la cui ubicazione esatta è tuttora incerta; si parla di solito di una «Grotta virgiliana», corrispondente a una galleria scavata dai romani nella collina di Posillipo. Quanto agli autori che hanno per primi raccolto queste voci favolose, menzioniamo Giovanni di Salisbury, filosofo inglese che presenta nel Policraticus (1160) un ricco elenco di curiosità e di aneddoti, Alessandro Neckam, professore a Parigi (De naturis rerum, 1190), Corrado di Querfurt, cancelliere di Enrico VI, Gervasio di Tilbury, professore a Bologna (Otia imperialia, 1212).

Ma la serie di meraviglie non si ferma qui: l'Image du monde attribuita a Gualtiero di Metz e redatta nel 1245 associa a Virgilio la leggenda dell'uovo magico su cui riposerebbe l'intera città partenopea; sulla medesima favola ritorna il romanzo Cleomadés, mentre Vincenzo di Beauvais (11901264) riporta nel suo Speculum historiale l'episodio dei bagni fatati e della Salvatio Romae, ovvero la catena di sentinelle meccaniche di cui abbiamo già parlato (che sarebbe stata distrutta, infine, dal parto miracoloso di una vergine). In una cronaca di Jans Enenkel (1250 circa) si narra la vicenda di Virgilio beffato da una donna e costretto a penzolare in una cesta sospesa a mezz'aria: la sua ter


ribile vendetta provocò l'estinzione di ogni fuoco in tutta Roma. Abbiamo poi scritti più recenti, come, il Renart contrefait (terminato intorno al 1340, descrive un congegno di specchi che consente di vedere a grandissima distanza), Ly myreur des histors di Jean d'Outremeuse (liegese, 13381400), la Cronaca di Partenope, redatta dopo il 1326, e il libretto del sedicesimo secolo Les faictz merveilleux de Virgille, che romanza per intero la vita del poeta, divenuto figlio di un cavaliere delle Ardenne e studente a Toledo.

Occorre osservare che il fenomeno è di un'ampiezza senza precedenti; altri autori classici, come Aristotele o Ippocrate, hanno goduto nel medioevo di enorme prestigio, tale da attribuire al loro intelletto una saggezza semidivina. Nessuno però ha riunito in sé tante determinazioni diverse. Non si può nemrneno affermare che le imprese virgiliane siano confinabili nella regione campana, e che corrispondano dunque a superstizioni locali originate dalla presenza del suo sepolcro. Crediamo sia vero il contrario: la figura del mago e del profeta ha trovato uno degli epicentri più significativi là dove si presumeva fosse particolarmente forte la sua attività negromantíca, che, è ovvio, doveva continuare dopo la morte. La tomba diviene meta dei pellegrinaggi di curiosi e di sapienti proprio perché si crede che al suo interno sopravviva qualcosa, forse legato ai resti del corpo. Ma esistono senza dubbio altre località che la leggenda ha avuto modo di toccare: Mantova, la terra ricca di avi, Roma, la sede dell'impero, Toledo, la capitale spagnola ed ebraica delle arti occulte.

Per lungo tempo si è ripetuto che la nostra città aveva poco a che fare con queste favolose vicende; si riteneva che nel periodo pregonzaghesco i mantovani ignorassero il mito virgiliano che altrove si stava affermando. Un simile atteggiamento nasce dal proposito di separare l'arte sublime dalle fantasie del volgo, la perfezione dei versi compiuti dall'eco imprecisa delle


parole pronunciate e contraffatte nei secoli oscuri. Tuttavia, relegando nel buio l'altra faccia della fama di Virgilio, si corre il rischio di dimenticare che proprio la Divina Commedia parte dall'abisso. Alcuni studiosi hanno notato come sia assurdo pensare che Dante ignori o sottovaluti i resoconti fioriti nella sua stessa epoca. Noi vorremmo spingerci oltre, ipotizzando che «lo buon maestro» sia divenuto un involontario ma importante punto di riferimento nell'elaborazione dei cicli narrativi da cui nasce la grande letteratura occidentale. Che l'opera dantesca, dunque, lo elevi coscientemente a paradigma, non solo in relazione alla scrittura latina e alla precognizione cristiana, ma anche al caotico insieme di novelle che percorrono in lungo e in largo l'Europa.

Per quanto riguarda Mantova, diciamo innanzitutto che iconograficamente Virgilio appare ben rappresentato; non alludiamo solo alle due stupende statue duecentesche, l'una scolpita in piazza Broletto, l'altra conservata in Palazzo Ducale (e si può forse riconoscere un'effigie virgiliana nel giovane dipinto in un tondo, a destra dell'entrata, in Santa Maria del Gradaro). Ci riferiamo in special modo alla serie di monete medioevali che Alessandro Magnaguti ha illustrato nel suo bel saggio Numismatica virgiliana: denari che evidenziano il nome del poeta, poi la testa, ornata da un collaretto tagliato a foglia, e il busto; infine, è di particolare rilievo il grosso in cui egli si presenta seduto, con la barba, nella stessa posa delle due statue appena menzionate. La sequenza continuò in epoca gonzaghesca, ad esempio nel quattrino che mostra sul recto il capo coronato d'alloro e sul verso l'enigmatica scritta EPO, sopra una foglia o un bocciolo (il cantore dell'Eneide è spesso inteso come una verga che sboccia). Giustamente, lo studioso sottolinea che nel medioevo Virgilio era di fatto il santo protettore di Mantova. Magnaguti ricorda inoltre che i cittadini conservarono per moltissimo tempo l'usanza di recarsi in processione là dove credevano si trovasse la casa del sapiente (nella


zona tra il Gradaro e l'Anconetta), il 15 ottobre, giorno del suo genetliaco. Infatti, oltre alla presenza stilizzata di Virgilio sullo stemma del Comune, resta memoria di un inno in sua gloria, cantato ancora nel Quattrocento; reperto essenziale, in quanto narra del dolore che San Paolo avrebbe provato, recandosi dal poeta e scoprendo la sua morte, che impediva di convertirlo al Cristianesimo e di salvarlo dalla perdizione (secondo una tradizione abbastanza diffusa, da Mantova sarebbe passato proprio Bamaba, il principale aiutante dell'apostolo di Tarso).

L'episodio fa il paio con la storia narrata ne L'image du monde. In questo caso Paolo va a Roma e trova un libro virgiliano in cui si annuncia a chiare lettere la nascita di Gesù. Sconfortato, rimpiange di aver perso la grande anima («Ha! se ge t'eusse trouvé, que ge t'eusse a Dieu donné!»): poiché non si dà pace, penetra attraverso un cunicolo stretto e pericoloso in un misterioso luogo sotterraneo, battuto da una tempesta che spegne tutti i fuochi delle torce. Improvvisamente gli appare Virgilio seduto su un trono in mezzo ai libri, in atteggiamento ieratico; nel pugno destro tiene ben stretto un volume. Accanto a lui ardono due ceri, e una lampada che un arciere tiene sotto mira; all'ingresso stanno due uomini di bronzo armati di martello. Il santo riesce a neutralizzarli, ma l'arciere scocca il suo dardo, facendo crollare ogni cosa. Dunque, «Saint Paul, qui bien quidoit avoir les livres, n'i pout riens véoir qui nefust en poudre et en cendre: si s'en retourna sanz riens prendre»; benché desiderasse avere i libri, li vede ridotti in cenere, e ritorna senza aver preso nulla.

Curiosamente questa novella assomiglia molto, come già nota Comparetti, a un episodio favoloso raccontato nei Gesta Romanorum. Il protagonista è Gerberto d'Aurillac, francese di Alvernia, papa dal 999 al 1003 con il nome di Sílvestro II, matematico e astronomo, tacciato di negromanzia e di patto con il diavolo, alleato dell'imperatore Ottone III, ottimo conoscitore dei classi


ci, autore di un trattato sul sangue di Cristo, studente in Catalogna, interessato alla cultura araba. Egli, mosso da un'incredibile sete di sapere, scende in un sotterraneo pieno di tesori, a Roma. Nella sala c'è un carbonchio, ovvero una pietra simile al rubino, da cui viene una grande luce; stanno di guardia alcuni cavalieri scolpiti nell'oro e un altro arciere. Un gesto sconsiderato di un famiglio fa scoccare la freccia, e il carbonchio si spegne. Ma il futuro papa non si perde d'animo: riesce a rintracciare la strada del ritorno e approda in superficie, nel mondo comune. Si dice che in seguito, grazie a questa esperienza sovrannaturale, costruì un globo celeste, utile per calcolare l'esatto movimento degli astri.

D'altra parte, sono numerose le cronache in cui compare un volumetto, il liber Maronis, che conterrebbe la sintesi di ogni arte magica: lo incontra involontariamente, e ne è terrorizzato in sogno, Ugo abate di Cluny; lo menziona Gervasio di Tilbury a margine dell'avventura delle ossa. Le stesse sculture di piazza Broletto e di Palazzo Ducale mostrano un grosso libro, squadernato sotto le mani del sapiente.

Vogliamo anche citare il litigio tra Mantova e Canossa nella Vita Mathildis di Donizone, in cui la rocca in persona rimprovera aspramente la città per la sua freddezza, che avrebbe indirettamente provocato l'esilio dell'artista. Ultima e cospicua traccia letteraria locale delle leggende virgiliane è infine la Cronica di Bonamente Aliprandi, ricco appaltatore di opere pubbliche vissuto tra il 1350 e il 1417. Nella fantasiosa epopea trova grande spazio la figura di Virgilio. Vengono citate le circostanze meravigliose della sua nascita (la verga e il lauro sognati dalla madre), l'arrivo a Roma alla corte di Ottaviano, gli ingegnosi versi da lui composti, ma di cui un mestierante si vuole assumere il merito, e il conseguente enigma del Sic vos non vobis (filastrocca che solo il vero autore è in grado di completare). Poi, il poeta si invaghisce della figlia di un


cavaliere, subisce la beffa della cesta e determina la sparizione del fuoco da Roma. «Virgilio alor si li vien a dire che, si focho si deverà trovare, convien che `l cavaler faza venir sua fiola e quella cunzare in quattro a chul discuperto stia; chi vol focho al chul vada impiare». Da qui altre vicissitudini; fra queste, il racconto del discepolo Melino (evidente deformazione del nome Merlino) a cui il maestro ordina di recuperare un certo libro incantato. Ma l'apprendista stregone ante litteram, mosso dalla curiosità, scorre le pagine ed evoca un esercito di spiriti pronti a servirlo: «Che vo' tu, Che vo' tu, tuti dimanda».

Seguono altri prodigi, fino alla morte improvvisa del poeta, di cui Ottaviano si duole aspramente: «Di scientia è morto lo più valente, non credo che al mondo simel sia.

A nostro parere, tuttavia, il prodotto letterario di gran lunga più importante nel ciclo delle leggende virgiliane è il romanzo Dolopathos, scritto in latino da Giovanni di Altaselva, monaco cistercense dell'omonima abbazia lorenese, e tradotto in francese antico da un certo Herbert o Herbers nel 1224. Altaselva (HauteSeille), poco distante da Nancy e da Lunéville, era un piccolo centro che dipendeva dall'arcivescovato di Metz; qui Giovanni terminò la sua opera, facendola precedere da una lettera di dedica al vescovo Bertrand, ritrovata nelle carte dell'abbazia di Orval (una strana coincidenza vuole che quest'ultima fosse fondata in giovinezza proprio da Matilde di Canossa; nelle acque del fiume di Aurea Vallis ha luogo l'episodio dell'anello prezioso, prima smarrito e poi ritrovato dalla contessa). La lettera, in cui il religioso si mette sotto la protezione del superiore, temendo che lo scritto in questione venga perduto o corrotto «in questi nostri giorni tanto grami», si risolve in un panegirico che celebra la santità di Bertrando, la sua aurea autorità «Rara avis in terra alboque simillima cygno», uccello raro in terra, assai simile al cigno bianco e la luminosità del


suo sapere. Questi riferimenti ci consentono di datare con una certa sicurezza il romanzo, poiché Bertrando assume la carica nel 1179 e muore nel 1212; inoltre, Altaselva viene attribuita a Metz nel 1184, e ci sembra assai probabile che in quell'anno il Dolopathos fosse già concluso: la foga espressa nella missiva rivela la fretta e il sollievo di Giovanni, che finalmente può rivolgersi a un uomo colto e potente insieme.

Qual è il contenuto del libro? Come afferma lo stesso autore, si tratta di un rifacimento dei Sette saggi, una raccolta di apologhi di origine orientale, derivante dalla storia del filosofo indiano Sindibad. Costui aiuta un principe, suo discepolo, a discolparsi dalle accuse di una perfida matrigna; per differire il giorno dell'esecuzione capitale dello sventurato, fa in modo che i sette ministri del re raccontino a turno una favoletta morale. Siamo di fronte a una variante del canovaccio delle Mille e una notte (la parola del narratore o della narratrice allontana magicamente la morte); la prima versione araba, composta nel nono secolo, viene seguita da numerose altre redazioni, siriache, persiane, ebraiche, greche e spagnole.

Il Dolopathos, però, si differenzia da questo filone, rivelando temi e strutture di enorme interesse per la nostra ricerca. Il saggio è Virgilio in persona. Il giovane discepolo si chiama Luciniano, figlio del re Dolopathos. L'azione avviene in Sicilia, al tempo di Augusto. Correttamente, Virgilio è nato a Mantova, ma la nostra città diviene siciliana: «D'une des citez de Sezile fu néz; on l'apeloit Virgile; la citez Mantue ot a non» (Maante, recita una nota dell'edizione ottocentesca).

Procediamo con ordine: ai tempi in cui Augusto, signore dell'impero romano e del regno di Lombardia, tiene lo scettro, vive un re assai nobile, Dolopathos; i suoi genitori erano di Troia; il nome gli deriva dall'aver sofferto nel corso dell'esistenza molti dolori e inganni... Il re, dopo aver sventato le prime insidie dei corti


giani, si sposa con la benedizione dell'imperatore; nasce un bambino, Luciniano, che viene presto affidato alle cure di Virgilio, a Roma. Il poeta è l'uomo più sapiente della terra, artista, astrologo, matematico, retore; come al solito, lo incontriamo assiso sul trono, mentre accoglie benevolmente il nuovo alunno. Quest'ultimo si rivela presto il migliore della scuola, e deve guardarsi dall'invidia dei compagni. In particolare, riesce a leggere facilmente negli astri: si accorge, un giorno, che la madre è morta e che il padre si è risposato con una bella giovane. Virgilio, ovviamente, sapeva già tutto: «Mio dolce amico, è accaduto proprio così; da molto l'avevo indovinato, grazie all'astronomia». Luciniano gli chiede allora la ragione del suo riserbo; e il maestro risponde: «Se te l'avessi detto, ti avrei visto dolente e triste... Ma, grazie al tuo grande ingegno, potrai avere in futuro tanta gioia... Insieme a me sei salito lungo gli scalini della filosofia, diventando un sapiente... Io ti ho reso mio simile; per tutta la vita devi riverirmi e seguirmi; mi devi amare, e onorare più di tuo padre ... Attraverso me tu sai la verità dei segreti divini». Gli spiega poi come governare con l'aiuto della luce della filosofia. Infine, mentre i messaggeri del re sono alle porte per condurre il ragazzo in Sicilia, Virgilio gli ordina di fingersi muto. Egli accetta, benché il compito sia gravoso.

Infatti, lo strano silenzio getta nella disperazione il padre e indispettisce la matrigna, che tenta con ogni mezzo di sedurre il figliastro; sconfitta, pretende di aver subito da lui l'oltraggio di un'avance, e domanda la sua testa. I giudici, vista l'assenza di ogni difesa, dopo lunga esitazione accettano di condannare l'innocente. Si presentano allora i sette saggi che, uno alla volta, narrano un racconto: tutti illustrano situazioni di tradimenti impuniti e di virtù colpite ingiustamente. L'ottava novella viene esposta dallo stesso Virgilio, che alla fine scioglie Luciniano dall'obbligo del mutismo. Il ragazzo svela la trama delittuosa della regina, che vie


ne immediatamente giustiziata: padre e figlio si riconciliano. Il poeta è soddisfatto; quando sente avvicinarsi l'ora della morte, prende il libro delle arti e lo stringe in pugno: nessuno riuscirà più a strapparglielo di mano, «grazie all'ingegno o alla negromanzia». Infatti, non c'è uomo che possa servirsi in modo legittimo delle formule contenute nel volume. Il maestro viene seppellito a Mantova.

Più tardi, scompare anche Dolopathos, e Luciniano sale sul trono. I tempi cambiano: Gesù viene crocifisso, la nuova fede inizia a diffondersi. In Sicilia arriva un discepolo di Cristo; è un uomo senza nome che, desideroso di convertire i pagani, spiega «Com Dex incarnacion prist en la Virge glorieuse, comant par sa mort preciouse et par son sanc nos rachetait». Incuriosito dalla sua predicazione, Luciniano lo convoca a corte. Il discepolo afferma d'essere ebreo e nato a Roma; partendo dal giorno della creazione, espone in sintesi la Bibbia fino agli episodi del Vangelo e alla Crocefissione. Il giovane re chiede perché gli antichi saggi non hanno mai scritto nulla a questo proposito; il convertito risponde che alcuni, guardando il volgere del sole e dei pianeti, hanno intuito la presenza di un Dio unico, ma per debolezza non sono riusciti a glorificarlo. Quindi elenca le ragioni che hanno indotto Gesù a soffrire in croce, sottolinea i dogmi del nuovo credo e la fallacia delle immagini pagane, in cui si nascondono i diavoli. Dice che Augusto consultò la Sibilla, «kifut sarrazine», per sapere se la propria eventuale divinizzazione fosse lecita; la maga rispose che c'era un solo Dio, e Virgilio approvò, rivelando che «novelle lignie estoit jai del' ciel envoie» (una nuova progenie era già stata inviata dal cielo). La narrazione di altri episodi convince definitivamente Luciniano; per ultimare l'opera, il misterioso cristiano resuscita un morto. Il re si converte e qualche tempo dopo muore, nella grazia del Signore. Così termina il romanzo.

Vogliamo ora elencare gli aspetti che avvicinano il


Dolopathos ai temi trattati nel nostro studio e, più in generale, all'evoluzione del ciclo graaliano.

L'opera nasce in ambiente lorenese, all'interno di una delle numerose abbazie presenti nella regione. È una terra ricca di passione religiosa, situata tra lo Champagne di Chrétien de Troyes e la Germania occidentale, ovvero la zona in cui probabilmente visse Wolfram von Eschenbach, cresciuto nell'Alta Baviera. È il luogo di partenza del primo contingente della Crociata, capitanato da Goffedo di Buglione, cugino di Matilde di Canossa. È il teatro della Geste des Lorrains, un gruppo di canzoni composto alla fine del dodicesimo secolo, che illustra l'eroismo dei leggendari antenati della dinastia regnante, fra cui eccelle Garin le Lorrain.

L'autore del romanzo è un monaco colto, capace di realizzare una difficile sintesi tra i temi favolistici popolari, gli echi della cultura classica e le esigenze dell'apostolato cristiano. Cita Giovenale, l'Eneide, il Lamento di Geremia, San Cirillo, desume alcune notizie dai Vangeli Apocrifi. Scrive nello stesso decennio in cui viene composto il primo Perceval di Chrétien; è il primo ad affrontare la leggenda della magia virgiliana, se si eccettua il cenno dedicato al poeta dal Policraticus di Giovanni di Salisbury. Comparetti giudica il suo testo una «cosa del, tutto romantica» ma non si avvede che in queste pagine Virgilio viene sottratto al circondario napoletano, mentre il suo magistero è inquadrato correttamente negli anni dell'impero di Augusto, alle soglie dell'arrivo degli ebrei convertiti in Italia; è il tempo, dunque, in cui la Sibilla profetizza l'avvento di Cristo, in cui la nuova età dell'oro viene annunciata dalle Bucoliche e inizia a svelarsi, tra gli intrighi e l'ignoranza. Giovanni di Altaselva paragona in piena coscienza, nella lettera dedicatoria iniziale, quell'epoca di decadenza e di rinascita alla propria, accostando implicitamente l'autorità del vescovo Bertrando al valore del cigno di Mantova. Per quanto riguarda la sto


ria della nostra città, è importante sottolineare che il ritmo degli eventi narrati nel romanzo è assai simile al procedere della cronaca tramandata dalle fonti locali. Virgilio, sotto la protezione di Augusto, alza il suo canto quasi fino a Dio; mezzo secolo dopo la sua morte, Longino giunge nella Val Padana, quasi per consegnare, nei pressi della casa del poeta, la testimonianza fattuale dell'avvenuto martirio, dell'incontro inedito tra l'uomo e il Salvatore: il sangue benedetto viene seppellito nell'Ospedale dei Pellegrini. Il viandante che Luciniano interroga è senza nome (a metà di Le conte du Graal la donzella infelice chiede all'eroe: «Come vi chiamate, amico?»; solo allora «egli, che non sapeva il suo nome, lo indovina»), è nato a Roma (Longino era un soldato dell'esercito romano), è ebreo (nell'immaginario medioevale appariva plausibile che i militari messi a guardia della croce fossero di stirpe giudaica). Tutto l'episodio si svolge nel dintorni di Mantova, là dove il poeta è nato e dove, secondo Giovanni, è stato seppellito (particolare che elimina completamente Napoli).

Quanto allo scenario siciliano, ci sembra sia dovuto, più che all'esigenza di un'ambientazione meridionale, al desiderio di ricreare il panorama arcadico delle Bucoliche; la Sicilia, oltre ad essere la patria dell'inventore del genere, il siracusano Teocrito, ben si accosta alla mitica terra in cui i pastori innocenti si dedicavano alla musica e alla danza, nel fiorire eterno della natura. A meno di non intendere questa invenzione come un accenno all'Aetna, poemetto attribuito a Virgilio, o all'isola di Man, che curiosamente possiede lo stesso stemma della regione mediterranea, e il cui nome ricorda quello di Mantova.

Sicuramente, tuttavia, il Dolopathos è il racconto di un'iniziazione, a cui si sottomettono prima il figlio e poi il padre, continuamente minacciati dai tranelli dei nemici. L'etimologia dei loro nomi è significativa; come il Lucio dell'Asino d'oro, Luciniano è colui che cerca la luce, che vuole essere illuminato. Dolopathos, inve


ce, è ancora fermo alla prima tappa, il momento in cui occorre subire il dolore; non ci sembra stravagante accostare il suo destino alla sorte del Re Pescatore, l'uomo obbligato a subire in modo passivo la sofferenza, da cui viene liberato grazie all'intervento di un giovane discendente.

Infine, prima di accennare alle analogie con l'abbagliante percorso di salvezza descritto nella Divina Commedia, riferiamo il dettaglio narrativo a nostro giudizio più eclatante. La settima e ultima favola riportata dai saggi è la storia del Cavaliere del Cigno, da noi già ricordata. Una fata sposa un cavaliere e partorisce sette figli, sei maschi e una femmina. La malvagità della madre dello sposo espone i bambini a un rischio mortale; essi sono costretti a rifugiarsi in una foresta, protetti da una catenella che, portata al collo, li può trasformare in cigni. Il soldato mandato dalla strega ad ucciderli non ha cuore di commettere un delitto tanto infame; ruba i gioielli magici come prova dell'avvenuta strage e li consegna a un orefice che dovrà ricavarne una coppa preziosa. L'unica a possedere ancora il talismano è la sorella, che porta i sei cigni al castello del padre, ignaro del destino dei figli. Qui, dopo alcune peripezie, la perfida donna viene smascherata; cinque uccelli ritornano uomini, grazie alle catenelle che nessuno è riuscito a rovinare. Solo l'ultimo è condannato a conservare le sembianze animali, perché il suo monile ha perso un anello: d'ora in poi seguirà docilmente il più valoroso dei fratelli, Elia. il Cavaliere del Cigno. Costui ottiene in un torneo la mano della principessa di Buglione, da cui nascerà una figlia, Ida, futura madre di Goffredo. Ma i due sposi dovranno separarsi, poiché la giovane, contravvenendo a un preciso divieto, chiede il nome del Cavaliere. Egli si allontana per sempre, sopra una barca trainata dall'inseparabile cigno.

L'ultima parte della favola non appare nel Dolopathos; viene raccolta in canzoni successive, la Naissance du chevalier au cygne, il Chevalier au Cygne, il


Chevalier au Cygne et Godefroi de Bouillon, alcune appartenenti, insieme alla Chanson d'Antioche, al primo ciclo della Crociata.

Naturalmente, Giovanni d'Altaselva intende celebrare con questo inserto, che non compare nelle altre versioni dei Sette Saggi, la mitica origine della famiglia di Goffredo; tuttavia, è opportuno sottolineare alcuni punti chiave del racconto. Innanzitutto, esso si basa su una tradizione ancora più antica, nata probabilmente in terra tedesca. Il barone di Reiffenberg, curatore dell'edizione ottocentesca di una cronaca medioevale di Philippe Mousket, ci spiega che il fantomatico Elia proviene forse dalla Svizzera, o dalla città di Clèves; che viene detto anche Helie de Grail, corruzione forse di Aelius Gracilis, comandante romano citato da Tacito, o di Elias Graius, personaggio di provenienza greca. Lo studioso ci informa inoltre che nel 1453 Adolphe di Clèves promise ai vincitori dei duelli cavallereschi un collare ornato da un cigno d'oro. Nel 1615 Carlo Gonzaga di Clèves cercò di istituire nuovamente il perduto ordine del cigno. La notizia mette ancora una volta in relazione la nostra fiaba con una dinastia mantovana; è curioso notare che, se combiniamo leggenda e storia, la sposa del Cavaliere corrisponde alla prima moglie di Goffredo il Barbuto, una certa Dada, mentre la madre di Matilde è la sua seconda consorte, Beatrice di Lorena; Beatrice, d'altra parte, è anche il nome della fata madre dei sette cigni, o addirittura della principessa di Buglione: una redazione della Naissance du chevalier au cygne si intitola proprio Béatrix.

Il legame con le avventure graaliane ci sembra evidente. Il cavaliere viene chiamato Helie de Grail, e l'ipotesi del generale romano «gracile» appare assai improbabile. La genealogia di Lancillotto, come viene illustrata nel GrandSaint-Graal (il ciclo della Vulgata), evidenzia Elyan the grete, discendente di Nascien e progenitore dell'eroe, il cui figlio Galaad raggiungerà la sospirata meta. Infine, il Parzival di Wolfram ri


porta nell'ultimo capitolo le gesta di Lohengrin, figlio di Parsifal e di Condwiramurs, che corrisponde perfettamente al Cavaliere del Cigno: «Volete ora udire dell'altro?... Egli disse: Madonna duchessa... non domandatemi mai chi io sia; solo così potrò restare con voi-. La notte egli ebbe in dono il suo amore: così divenne principe di Brabante... Malvolentieri egli partì: tornò l'amico suo, il cigno, e gli recò una piccola e acconcia barchetta... Lohengrin partì... Egli era il figlio di Parzival. Corse i sentieri dell'acqua e della terra e tornò a guardia del Graal».

Wolfram inserisce l'episodio di Lohengrin (deformazione germanica di Garin le Lorrain) a chiusa della sua opera, modificando il tema originale. Non si parla più degli altri fratelli, né si dice che la madre è una fata; il divieto di rivelare il nome è giustificato dal compito sovrumano della custodia del Graal. Il cigno bianco è il simbolo della dedizione a una rnissione celeste.

La novella del Dolopathos contiene già molti elementi che favoriscono questo sviluppo. Infatti, tutto ruota intorno al rapporto dell'uomo con l'universo divino. La catenella è il tramite, la porta della trasformazione; si contrappone alla coppa, vista come gioiello inutile, ricchezza desiderata grettamente. Il cigno è sempre stato inteso come animale solare, in particolar modo dalle popolazioni nordiche: le Valchirie si accostano ai mortali assumendo il suo aspetto. Ma nel nome di Elia c'è anche la radice di Hèlios, il dio ellenico del sole: i greci attribuirono il maestoso volatile ad Afrodite, madre di Enea, e ad Apollo, di cui era il servitore prediletto, poiché trainava il suo carro lungo le rotte delle regioni boreali. Per quanto riguarda il Cristianesimo, ricordiamo che l'uccello, quasi sempre veleggiante sulle acque, è spesso associato alla croce, e talvolta anche a un calice in cui beve. Una miniatura medioevale lo raffigura mentre trascina una barca su cui sventola lo stendardo crociato del Cavaliere. Un manoscritto anonimo spiega le regole dell'Ordine dei Cavalieri del


Cigno (fondato nel quindicesimo secolo da Federico Il di Brandeburgo), e chiama Gesù «vero cigno di Dio» È frequente anche il paragone con la fede, le cui ali trasportano l'anima verso l'alto; il mito classico corrispondente racconta della ninfa Camarina condotta in cielo da un cigno, come ci mostrano le monete coniate nell'omonima città siciliana. È quasi superfluo menzionare la splendida immagine delle Georgiche (II, 198): «quel piano che Mantova infelice perse, dove nutre cigni candidi come neve sull'erboso fiume», o il passo simile delle Bucoliche (IX, 27): «Varo, il tuo nome i cigni col loro canto leveranno in alto alle stelle, purché ci resti Mantova»; il paesaggio mantovano appare nostalgicamente nel medesimo momento doloroso, che certo il grazioso animale evoca, come dimostra anche il legame proverbiale del suo canto con la morte.

Di nuovo, l'età dell'oro è sempre perduta, ritrovata e ancora perduta. Questo concetto si esprime anche nella favola, là dove qualcosa manca sempre per concludere l'unione perfetta: l'anello della catena, o il riserbo che Elia deve mantenere. Quando il dettaglio della divisione emerge la concordia si frange e la distanza tra l'uomo e Dio ritorna a dominare le cose della vita. Il graal viene custodito in salvo, lontano. Forse Wolfram ha voluto ultimare il libro dipingendo un leggero velo di tristezza per sfuggire ad una celebrazione piattamente ottimistica. Al contrario, per Giovanni di Altaselva l'episodio è il prologo all'apparizione di Virgilio, a sua volta, tuttavia, maestro dal destino malinconico: «Virgilles partit de vie; ains ne remeist por sa maistrie. La mort n'espargne fol ne saige». Virgilio lasciò la vita, e la sua arte non trovò rimedio: la morte non risparmia il folle né il saggio.

Affrontiamo ora proprio il Parzival (primo decennio del tredicesimo secolo), un'opera complessa che si differenzia profondamente dagli altri testi del ciclo cavalleresco. Cerchiamo eventuali tracce di una pre


senza virgiliana nelle pagine del poema, di cui elenchiamo subito le principali peculiarità.

Seguendo l'analisi di Otto Springer, notiamo innanzitutto come il bambino Parsifal viva la propria infanzia in modo tormentato: piange, vedendo cadere al suolo gli uccellini da lui stesso abbattuti, e chiede alla madre per quale colpa essi vengono cacciati. Questo motivo è una premonizione della grande avventura (la ferita di Anfortas, la passione di Cristo); si collega inoltre all'emblema della tortora, che contraddistingue la stirpe del graal. Anche la madre di Feirefiz, fratellastro dell'eroe, è paragonata all'inconsolabile e fedele uccello: «La sua gioia era solo di stare sul ramo secco, così come usa fare la tortora che, se mai le venga a mancare l'amato, nella sua fedeltà cerca, per posarsi, il ramo secco». Per inciso, non possiamo tacere la singolare identità con la ben nota impresa dei Gonzaga, in cui il ramo si piega a circondare un vortice d'acqua.

Ma le discrepanze sono soprattutto strutturali. Wolfram fa precedere agli episodi consueti le vicende dell'angioino Gahmuret, padre di Parsifal e di Feirefiz, e parente di Artù; trasforma la ricerca in una missione predestinata, compito di una stirpe eletta; collega l'ordine dei Templari alla medesima motivazione; attua una strana allenza tra oriente e occidente (Feirefiz è un mezzosangue; suo figlio, il Prete Gianni, porta in India la dottrina cristiana). Parallelamente, accentua il valore iniziatico dell'esperienza di Parsifal, che di tanto in tanto chiede «Chi è Dio?»; l'ambiente della Tavola Rotonda, in cui primeggia Galvano, perde di importanza. Inoltre, la domanda cruciale che l'eroe non riesce a pronunciare riguarda direttamente la fonte della sofferenza del Re Pescatore, rendendo esplicito il senso alquanto enigmatico della frase di Chrétien: «A chi viene servito il graal?» «Quant tu del graal ne seus cil cui l'an an sert, fol san eüs». Infine, il graal diviene una pietra preziosa, «e questa è d'una sorta purissima. Se nulla ne sapete, ecco, vi dico io il nome: si chiama lap


sit exillis. Per la virtù di questa pietra arde la fenice e si incenerisce; e la cenere poi le ridona la vita».

L'ingegno dei filologi si è esercitato a lungo sul significato di questi versi, soffermandosi in particolare sulle possibili traduzioni di lapsit exillis. Molte varianti sono apparse sulla scena: lapis exilis, elixir, lapsit ex coelis, lapis erilis, lapis texillis. Le risultanze più attendibili convergono sul termine lapis (pietra), forse exilis perché lascia filtrare la luce, come la tavola di granato giacinto portata dalle quattro dame durante la processione. Sembra evidente, tuttavia, che Wolfram, qui come in altri passi, abbia voluto rivolgersi in modo coperto ai lettori avveduti, selezionando gli interlocutori capaci di interpretare correttamente il testo. La valenza salvifica e alchemica della «gemma di paradiso» è fuori discussione, e il dettaglio giustificherebbe il lapis lapsus ex coelis, la pietra caduta dai cieli, custodita dagli angeli buoni che non presero partito durante la guerra tra Dio e Lucifero. Ma è necessaria un'analisi ulteriore di exillis, che può corroborare la nostra ipotesi graal / cratis, già ricordata negli articoli precedenti.

Nel Vangelo di Giovanni (7, 37), Gesù dice: «Chi ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come disse la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno (ventre, koilìa)». Non è qui il caso di entrare nel merito della disputa secolare in cui, di volta in volta, il suo (seno) viene riferito allo stesso Gesù o al fedele che a lui si accosta. Basterà notare che le parole del Salvatore da un lato si rivolgono al futuro (il fianco squarciato da Longino, da cui appunto scendono sangue e acqua), dall'altro sono un'eco di profezie passate: il salmo 105 canta: «(Dio) spezzò la pietra e ne sgorgarono acque e corsero nel deserto come un fiume»; Isaia afferma: «Farò scaturire acque nel deserto, fiumi nell'arida contrada». Finalmente, nella Prima lettera ai Corinti, Paolo precisa (10, 4): «... bevevano infatti dalla roccia spirituale che li accompagnava, e la roc


cia era Cristo». D'altra parte, la parola latina exilis, che significa debole, angusto, sottile, gracile (ricordiamo ancora Elia, il cavaliere del cigno), se applicata alle cose o ai corpi ha il valore di «non pieno» e, almeno in un'occasione, viene associata all'immagine di una pietra perforata. Una delle sue possibili etimologie la collega al verbo exigo, attraverso una contrazione di exigilis; quindi, al significato di cacciare dentro, passare da parte a parte, trafiggere. Di nuovo nell'Eneide (X, 815): «Ecco la valida spada mena Enea in pieno sul giovane»; ma anche in Floro: «Affondò la spada nelle viscere». Curiosamente, infine, alcuni studiosi hanno proposto una derivazione da ex e da ile, ovvero dal fianco nella medesima accezione di sfiancato; il nostro lapsit exillis potrebbe anche nascondere un lapsus ex iliis, cioè caduto dai fianchi, dal ventre, con ovvio riferimento al sangue di Cristo. Non dimentichiamo che lo stesso Wolfram spiega il nome di Parzival come «il penetrante»: «In verità tu ti chiami Parzival. Il nome propriamente significa attraverso nel mezzo. Un grande amore scavò solchi profondi nel cuore fedele di tua madre». Tutto ci rinvia al motivo fondamentale della ferita, destino a cui devono piegarsi sia il padre di Parsifal, Gahmuret, che suo zio Anfortas, colpito nell'inguine.

Ritorna lo strano rapporto tra la missione dell'eroe, che guarirà la piaga insanabile grazie a una domanda «incisiva», e il suo passato remoto, fatto di combattimenti sanguinosi a lui stesso ignoti.

Resta da discutere il problema più controverso. Wolfram sostiene a più riprese di aver ricavato la storia che sta narrando da un provenzale, Kyot, «il maestro ben conosciuto»; egli a sua volta la trovò a Toledo, scritta in lingua pagana. Il primo redattore dell'avventura fu un certo Flegetanis. «Questo mago traeva la sua origine per parte di madre da Salomone, discendendo dalla schiatta dIsraele... Lui fu, a scrivere la sto


ria del Graal. Flegetanis era, per parte di padre, pagano... Flegetanis, il pagano, sapeva dar conto di ogni trapassare di stelle... Vide, con i suoi stessi occhi, arcani prodigi, e affermò che c'era una cosa che si chiamava Graal; egli ne aveva letto chiaramente il nome tra le stelle». Proprio alla fine dell'opera, troviamo un deciso attacco contro Chrétien: «Se maestro Cristjan de Troys ha fatto torto a questa storia, ha ben ragione Kyot d'esserne irato, lui che a noi ha tramandato la vera storia.» Quanto al provenzale, in un passo precedente si dice: «A chiamarlo così (Liddamus) è lostesso Kyot laschantiure, quegli cui l'arte mosse a dire e a cantare così, che ancor oggi molti ne hanno letizia». Lo strano epiteto è stato interpretato in due modi: il cantore, le chanteur, o l'incantatore, l'enchanteur. Non è stato possibile individuare in questa figura uno scrittore realmente esistito. L'ipotesi più attendibile riguarda tale Guiot de Provins, che si dedicò con stile poco raffinato alla poesia satirica. Ancora più oscuro è il personaggio di Flegetanis, in cui si è voluto riconoscere un musulmano (il tedesco heiden significa pagano in genere, ma allude specialmente agli infedeli), che trarrebbe il proprio nome dal titolo di un trattato arabo, Felek Thani, l'altra sfera.

Se si esamina attentamente la questione, sembra chiaro che di nuovo Wolfrarn intende velatamente alludere a fonti segrete di cui i lettori esperti sono già a conoscenza, ma che Chrétien non ha considerato con sufficiente attenzione. L'accusa implicita rivolta al francese è di aver composto con leggerezza un poema cortese, sfruttando l'eleganza di una trama preziosa e turbando involontariamente una tradizione sapienziale che Wolfram è deciso a riaffermare. La vera origine della storia viene dunque ammantata di magia; come al solito, vi concorrono la cultura occidentale e l'orientale. Lo scopritore del graal (come motivo letterario) è un astronomo provetto, uno scienziato; ma è anche un pagano, benché ebreo per parte di madre. La novella deve


essere depurata da un battezzato, perché «nessuna scienza pagana sarebbe valsa a far luce sulla natura del Graal, a venire a capo del suo segreto». A nostro parere, lo sdoppiarsi della figura del primo autore è un espediente necessario: si cerca di preservare la sorgente non completamente evangelica della leggenda, ma la si inscrive in un quadro del tutto cristiano. Questa delicata operazione fa il paio con la scelta di localizzare nell'Angiò la dinastia eletta: «Kyot, il maestro di molta dottrina, prese a cercare in libri latini dove mai potesse essere nato un popolo degno di custodire il Graal e capace di serbarsi puro. Lesse le cronache di ogni paese... finché nell'Angiò trovò quello che cercava». La bizzarria di questa affermazione è apparsa subito evidente. Wolfram non si mise mai al servizio dei Plantageneti, la potente dinastia che negli anni tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo occupava addirittura il trono inglese, con Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra. L'autore tedesco sembra aver alluso, piuttosto, a una gerarchia di maestri cui sarebbe stato affidato il duplice compito di custodire fisicamente il graal e di tramandare il racconto delle avventure legate al sacro oggetto. La decisione di attribuire questa missione alla regione francese può riferirsi alla presenza, nelle cronache della Crociata, di Folco V, conte di Angiò, che da un lato divenne re di Gerusalemme, sposando Melisenda figlia di Baldovino II (un Lorena), e dall'altro generò Goffredo il Bello, duca di Normandia, padre di Enrico II di Inghilterra.

Esiste però una seconda prospettiva. In un interessante libro di Pierre Ponsoye, L'Islam et le Graal, viene citata un'opera del 1529 scritta da Jehan de Bourdigne, canonico della chiesa di Angers: «Nella Gallia celtica chiamata Engada (Angiò), molti abitanti si diedero alle lettere e alla filosofia, tanto che nel paese si diceva non vi fossero teologi più sapienti degli Engadiani... Venne loro concesso di fondare una città. Andarono nella foresta del Nido d'uccello o del Merlo,


cercando il luogo dove si trovavano più uccelli, e là costruirono la città chiamata Andes, nell'anno 2000 dalla nascita del mondo». Andes, il primo nome di Angers, capitale dell'Angiò, deriva infatti dalla tribù celtica residente nella zona, gli Andecavi o Andi. Dalla medesima tribù venne fondata l'Andes mantovana, il villaggio di Virgilio. Ci sembra possibile che una leggenda medioevale relativa a un popolo misterioso di sapienti abbia colpito la fantasia di Wolfram, spingendolo a inserire il poeta latino nel magico contesto. D'altra parte, nel Parzival anche Artù appartiene alla favolosa stirpe dell'Anschouwe, mentre secondo la tradizione corrente egli è uno dei discendenti di Enea. Saremmo, insomma, di fronte a una sintesi che unisce Virgilio, Enea, la farniglia reale inglese effettivamente regnante e la mitica razza arturiana. Non bisogna dimenticare che nella seconda metà del dodicesimo secolo apparvero, a breve distanza di tempo, una rielaborazione cortese dell'Eneide, il Roman d'Eneas, una riscrittura delle gesta di Ilio, il Roman de Troie di Benoît de SainteMaure, e il Brut, rifacimento dell'Historia Regum Britanniae dedicato alla regina Eleonora, moglie di Enrico II Plantageneto (Bruto, nipote di Ascanio, viene cacciato da Alba per aver ucciso involontariamente il padre Silvio e, dopo lunghe peregrinazioni, approda in Britannia). Sia i Franchi, che i Normanni, che i Bretoni affermavano d'essere eredi dei condottieri troiani. Volevano imparentarsi con gli antenati di Roma per aver modo di inventare nuove Eneidi romanze; simmetrica appare la preoccupazione di molte case nobiliari in rapporto ai destini della Crociata e al cielo dei graal.

Quanto a Virgilio, Wolfram ne fa esplicita menzione come avo del mago Clinschor «cui soccorre sempre l'arte della negromanzia»; costui, per vendicarsi della castrazione a cui l'ha sottoposto un marito tradito, rinchiude in un castello fatato le damigelle del la corte d'Artù: «Terra de Labur è il nome del suo paese: egli


discende dalla stirpe di colui che anche fece molti prodigi, daVirgilio di Napoli». Inoltre, il ramo d'oro viene citato come possibile ma inefficace medicamento della ferita di Anfortas: «Ci procacciammo lo stesso ramoscello a cui la Sibilla rimandò Enea perché se ne facesse difesa dalla molestia infernale, dal fumo del Flegetonte... Ma non questo voleva la lancia».

Proprio l'accenno al fiume infernale ci induce a ritornare al problema di Flegetanis, di cui sappiamo solo tre cose, oltre al nome: era pagano, ma di madre ebrea, era sapiente e astronomo, frequentò Toledo. Del Flegetonte si parla nell'Odissea, nel Fedone, nella Tebaide di Stazio e nell'Eneide. Nel sesto libro, al verso 264, il poeta intona un'invocazione impressionante: «Dèi, che governate le anime, Ombre silenti, e Caos e Flegetonte, luoghi muti nella vasta notte, concedetemi di dire quello che udii, e per vostra volontà rivelare le cose sepolte nella profonda terra». Dice più tardi (VI, 550): «un rapidofiume accerchia con fiamme roventi, il tartareo Flegetonte». Servio annota: «Con il Flegetonte si vuole significare il fuoco; infatti in greco è flòx e in latino ignis, da cui secondo Eraclito tutto proviene». Nella Tebaide il medesimo fiume è associato alla negromanzia di Tiresia; nel mondo greco si praticava un'arte divinatoria basata sull'esame delle fiamme. Ma al Flegetonte si può accostare anche la figura di Flegias, che Virgilio per primo evoca, collegandosi forse a una tradizione assai antica. Questo re avrebbe governato un popolo tessalico, famoso per il disprezzo e l'empietà che manifestava nei confronti degli dèi; in particolare, egli avrebbe bruciato il tempio d'Apollo a Delfi per vendicarsi di un affronto subito dalla figlia Coronide. Bernardo Silvestre commenta: «Flegias viene chiamato così per la sua virtù flegeia, ovvero incendiaria

Ma il relativo passo dell'Eneide (VI, 618) si presta a interpretazioni contrastanti: «Miserrimo Flegias ammonisce e attesta a gran voce tra le ombre: Di qui imparate giustizia e a non spregiare gli dèi ». La sua


posizione accanto a Teseo ne fa quasi un agente della giustizia infernale, e infatti nella Divina Commedia egli diviene il nocchiero della nave che solca la palude Stigia, trasportando Dante è Virgilio attraverso la «morta gora», come un secondo Caronte.

Non ci sembra dunque assurdo supporre che Flegetanis sia uno pseudonimo del poeta mantovano, o meglio, che questo nome voglia alludere al lato più tenebroso e infernale del personaggio, alla negromanzia intesa contemporaneamente come magia nera e capacità di interrogare i defunti. Non c'è dubbio che una parte della leggenda virgiliana evidenzia un ingegno interessato al lato oscuro delle cose: non a torto, la discesa agli Inferi viene interpretata come il momento centrale dell'Eneide. La Sibilla annuncia la venuta di Cristo, ma si fa anche tramite e guida di una pericolosa esplorazione dell'abisso; Dante utilizzerà in pieno questa duplice valenza della profetessa, attribuendola però al «buon maestro». D'altronde, il dominio sull'elemento fuoco ritorna a più riprese nelle novelle medioevali. Ricordiamo il Vesuvio controllato da una freccia fatata, la vendetta delle fiamme spente a Roma, l'altro arciere che tiene sotto mira una lampada sotterranea, i ceri che ardono indisturbati nella tempesta; Virgilio era considerato l'autore del poemetto Aetna, in cui si descrive minuziosamente l'attività del vulcano siciliano. Non ci sembra infine fuori luogo menzionare il quattordicesimo canto della Commedia, in cui, dopo l'incontro con Capaneo, si parla ancora del Flegetonte, «un piccol fiumicello lo cui rossore ancor mi raccapriccia»: il rivo di fuoco è arginato da due pendici su cui si smorzano le ardenti fiammelle. Virgilio sottolinea la strana caratteristica, osservando che nell'inferno non esiste particolare tanto degno di nota. Più tardi, Dante paragona la costruzione alle dighe olandesi o venete: «A tale immagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro felli». La parola «maestro» viene qui usata nell'accezione generica di


artefice (in questo caso, sconosciuto); è tuttavia importante rilevare che nell'Inferno, su 78 occorrenze del termine, ben 70 indicano direttamente Virgilio.

Insistendo ancora sulla negromanzia, ricordiamo, grazie agli studi di Comparetti, alcuni racconti redatti nel tredicesimo secolo. Interessante è ad esempio un poema contenuto in un manoscritto della Geste des Lorrains, a indicare una volta di più l'innegabile rapporto tra Lorena e Mantova. Qui Virgilio si confronta con un imperatore, Noirons li arabis, incarnazione dello stesso Lucifero; la tenzone tra i due contendenti si basa sul prossimo parto di una vergine, che farà crollare il palazzo del malvagio. L'episodio è ripreso e trasformato nel Reinfrit von Braunschweig (1300 circa); il poeta combatte e vince il diavolo Zabulon che intende impedire la nascita di Cristo usando una collezione di libri stregoneschi. Accenni simili si trovano in un altro testo tedesco, intitolato Wartburgkrieg, che vede di fronte proprio il mago Klingsor e Wolfram von Eschenbach. Evidentemente, in queste avventure il poeta riscatta il suo versante tenebroso proiettandolo su un avversario malefico e distruggendolo. I due poli si annullano, consentendo all'annuncio cristiano di propagarsi senza ostacoli; il paganesimo si autosopprime, abiurando la fede satanica.

Un'altra opera significativa è la Virgili cordubensis philosophia, scritta in latino, nei pressi di Toledo, forse nel 1290. Lo sconosciuto autore, che si finge nato a Cordova e vicino alla cultura araba, sostiene d'essere esperto di ars notoria, ovvero la magia buona che gli angeli comunicarono a Salomone. Afferma poi di possedere ogni tipo di scienza, grazie a una disciplina detta comunemente negromanzia, ma che in realtà si chiama Refiulgentia. L'analogia con il personaggio di Flegetanis è molto forte.

L'influsso di queste favole sulla fantasia e sulla coscienza popolare fu così inquietante da costringere Wolfram a inventare Kiot, il cantore / incantatore, un


ulteriore anello nella trasmissione della storia del graal, necessario per eliminare gli ultimi residui tenebrosi: «Prima egli dovette imparare l'abc della scrittura pagana, senza l'ausilio della negromanzia; e gli giovò l'aver parte al battesimo».

Quanto agli altri dati in nostro possesso, abbiamo già visto come Virgilio leggesse facilmente negli astri; la diceria di una sua origine ebraica per parte di madre può essere legata al suono esotico del nome Màgia Polla, che probabilmente veniva associato all'oriente dei Magi. Toledo è, più di Napoli, il centro per antonomasia di ogni commercio della sapienza occulta; qui si incontrano cristiani, musulmani, ebrei. Poco lontano, a Guadalajara, appare nel tredicesimo secolo lo Zohar, il grande trattato cabalistico stampato per la prima volta nel 1558 a Mantova. In Les faictz merveilleux de Virgille, il poeta studia nella città spagnola: «Virgilio era andato a Toledo per apprendere, perché lui apprendeva molto volentieri, e fu molto esperto nell'arte della negromanzia... Dunque il messaggero partì e andò a Toledo, dove trovò Virgilio... Era un bell'uomo, versato in ogni scienza; ma sapeva di negromanzia più di ogni altro essere vivente

Infine, vogliamo elencare come curiosità alcuni dettagli che avvicinano il cigno di Mantova a Merlino, il saggio consigliere di Artù. Entrambi sono maghi e profeti, entrambi al servizio di un re che si vuole discendente di Enea. Ambedue nascono nei pressi di un lago, in cui opera una donna dotata di poteri sovrannaturali (Manto e la Dama del Lago). La tomba di Virgilio si trova presso una grotta incantata da lui stesso costruita; Merlino si rinchiude da solo in una tomba, ma la sua voce continua a risuonare nella foresta. Virgilio viene beffato da una donna che lo imprigiona dentro una cesta; Merlino viene intrappolato astutamente dalla Dama del Lago di cui è innamorato. Aggiungiamo Mellino, il discepolo di cui si parla nella Cronaca di Bonamente Aliprandi.


Queste note vogliono semplicemente delineare una regione fantastica che sceglie come punto focale la straordinaria sapienza di un individuo. Costui è da un lato un narratore di storie; dall'altro (chi padroneggia il linguaggio conosce anche gli incantesimi), uno stregone, la cui azione si spinge fino alle frontiere dell'inferno. Il cantore di Roma diviene prima il profeta di Cristo e poi il custode della porta che separa le ombre dagli uomini, il passato dal futuro; da lui nascono, involontariamente, altre figure intermedie che regolano il mutamento epocale in cui il Medioevo si risolve. Tutto si nasconde nelle pagine di un libro misterioso: forse l'Eneide, forse un manuale di alchimia spicciola, probabilmente lo stesso corpus di leggende di cui il maestro è protagonista.

Prima di terminare il nostro articolo, vogliamo riassumere i contenuti di un saggio di R. Palgen, La Legende Virgilienne dans la Divine Comedie. Lo studioso intende esaminare alcuni luoghi danteschi, per rintracciare una serie di accenni alle straordinarie imprese di Virgilio. Egli elenca quattordici passi riferibili alla magia del poeta (la lettura del pensiero, il muro invisibile, l'astronomia, gli automi giganti, il miracolo del fuoco estinto, in relazione al Flegetonte, e altri ancora), e dieci situazioni collegate in particolare al Dolopathos o ai Sette Saggi.

Benché le sue argomentazioni appaiano talvolta leggermente forzate, Palgen ci trova consenzienti quando afferma che è impossibile concepire un Dante del tutto estraneo all'immagine medioevale del poeta mantovano. In dettaglio, è convincente l'analisi del primo canto dell'Inferno, in cui si invoca l'autorevolezza del maestro: «O de li altri poeti onore e lume, vagliami `l lungo studio e `l grande amore che m'ha fatto cercar lo tuo volume». Dice Palgen: «Credo sia lecito supporre che Dante rivesta qui il ruolo del giovane principe del Dolopathos. Infatti, il Virgilio leggendario ha composto un libro meraviglioso per il suo allievo, un estratto


delle sette arti liberali comprendente anche la retorica» («lo bello stile che m'ha fatto onore»). Singolare è anche la somiglianza tra lo svenimento di Luciniano nell'intuire la morte della madre e i celebri mancamenti del fiorentino a contatto con il tema dell'amore. Infine, il congedo del discepolo, che nel trentesimo canto del Purgatorio si risolve in parole piene d'affetto («Ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die' mi») non può non ricordare l'opera francese, là dove il saggio maestro ammonisce «me dois plus amer et chier tenir et honorer que ton père», là dove il pianto scuote entrambi, nel momento del primo addio: «Ognuno si piega sull'altro, e si scambiano abbracci, raddoppiano i baci, i singhiozzi si trasformano in singhiozzi, i sospiri in sospiri, le lacrime si mescolano alle lacrime».

Questa scena struggente conclude la rassegna degli episodi su cui abbiamo voluto soffermarci. A nostro avviso, tuttavia, la radice della storia meravigliosa di Virgilio sta ancora una volta in un elemento vegetale, che ritorna ritmicamente sotto diversi aspetti. È il ramo d'oro, che Enea ritrova nella foresta su indicazione della Sibilla (VI, 205): «Quale suole nelle selve col freddo invernale il vischio verdeggiare di nuova fronda, poiché la sua pianta non germina... tale era l'aspetto dell'oro frondeggiante». Forse reminescenza celtica; certamente, chiave della porta dell'oltretomba e, come è stato acutamente osservato, sintesi del contrasto fra il bene e il male, i peccatori e i beati. Espressione anche degli arbusti a cui abbiamo accennato spesso, e della verga, del virgulto, in cui viene evocato sia il nome del poeta, sia la Vergine che schiude la nuova età aurea, sia il fiorire della stessa.

Nel paesaggio mantovano si compie la promessa delle Georgiche (III, 13). Accanto alle acque del Mincio sorge ormai un tempio; non di marmo, però. La stessa Sibilla corrisponde a una trasmutazione della divinità locale, prima Diana, poi Manto, infine Iside; se


condo una tradizione diffusa, infatti, Manto corrisponde alla Sibilla Delfica o Tessala, colei che oppose resistenza alle profferte di Apollo, proprio come la figlia di Flegias. Il dio le avrebbe donato l'arte divinatoria di cui Virgilio sarà investito.

«Riprende da capo il grande ciclo dei secoli». Così afferma la profezia cumana, reinterpretata in mille occasioni, fatta propria dai cristiani che alludono ancora a un libriccino misterioso, custodito nelle mani della maga. Quanto al bambino che sta per nascere, egli riceverà innanzitutto i frutti della terra, libera dal vizio e dalla paura. Dovunque spunterà l'amomo assiro, pianta quasi favolosa, il cui nome spicca sotto il monte Olimpo, nell'impresa gonzaghesca.

Altre bacche e altro sangue verranno poi da questi arbusti. Dante conclude e rilancia l'avventura virgiliana. Nessuna guida diversa gli avrebbe consentito il passaggio nella selva oscura, attraverso i reami del dolore. Il maestro ammonisce, spiega, consiglia, mette in fuga i diavoli. Disperde con la sua sola presenza le nebbie di un mondo in cui il suo doppio negromantico ha avuto modo di manifestarsi spesso. Anziché cancellare la memoria del passato, Dante la sublima, consegnando il medioevo alla sua più alta speranza, scegliendo Beatrice invece di Didone, sciogliendo la sentenza della Sibilla nella neve che si apre al sole della visione suprema.

Virgilio si allontana; il suo libro fatato è stato finalmente letto, le sue arti hanno riscattato il peso dell'abisso. Tristano, Paride, Elena rimangono nell'inferno; così, svanisce il romanzo di Lancillotto e di Ginevra, insieme alle storie cortesi dell'epoca trascorsa. Resta intatta la grande ricerca, che prosegue in ogni tempo, muovendo nel bosco vecchi e nuovi cavalieri.


Bibliografia

Alessandro Magnaguti, Numismatica virgiliana, in Atti Accademia Virgiliana, Mantova, 1923

Pierre Ponsoye, L'Islam et le Graal, Milano, 1976

Domenico Comparetti, Virgilio e il medioevo, Livorno, 1872

Emilio Faccioli, Mantova Le lettere, Mantova, 1959

Wolfram von Eschenbach, Parzival, Torino, 1981

Herbert, Li roman de Dolopathos, Paris, 1856

R. Palgen, La legende virgilienne dans La Divine Comedie, in Romania, Paris, 1952

H. V. Parke, Sibille, Genova, 1992