LA CAMERA IN LUCE

(La Camera degli Sposi di Andrea Mantegna in Palazzo Ducale a Mantova - redazione 1999)

di Giovanni Pasetti e Gianna Pinotti

L'artista e l'opera

La cosiddetta Camera degli Sposi viene unanimemente considerata il capolavoro di Andrea Mantegna.

Il Maestro nacque nel 1431 ad Isola di Carturo, oggi in provincia di Padova, ma trascorse quasi tutta la vita a Mantova, pittore di corte dei magnifici Gonzaga. Qui morì nell'anno 1506; qui venne sepolto, nella cappella da lui stesso disposta, sul fianco sinistro della Basilica di Sant'Andrea. Non è questo il luogo per una ricognizione puntuale della sua complessa esistenza. Tuttavia, occorre almeno ricordare gli esiti più significativi di uno fra i massimi ingegni del Rinascimento. La Cappella Ovetari, nella chiesa padovana degli Eremitani; i tre San Sebastiano di Vienna, Venezia e Parigi; ancora al Louvre, la Madonna della Vittoria e due tele dello Studiolo di Isabella d'Este; la serie del Trionfo di Cesare, custodita nel Palazzo Reale di Hampton Court, a Londra; il Cristo Morto di Brera.

Nella città virgiliana, che fu sua dimora e quasi prigione, sorge anche quel particolare edificio, risolto da un cilindro scavato in un cubo, che per breve tempo divenne suo laboratorio e personale museo antiquario: la Casa del Mantegna, forse da lui medesimo progettata, è sintesi geometrica di spazio e di forme. Sopra una delle porte che si aprono sul cortile interno si nota la scritta Ab Olympo, trasparente allusione al rapporto privilegiato fra l'artista e il cielo. Il medesimo cielo si staglia nella volta della Camera, ambiente quasi perfettamente cubico, di otto metri di lato, sito al piano nobile del torrione settentrionale del Castello di San Giorgio, bastione protettivo di Palazzo Ducale. L'oculo della Camera, infatti, è l'Olimpo virtuale da cui si affacciano angeli, servitori e un pavone per osservare le vicende terrene, evocate e raddoppiate nelle scene che si alternano su due delle quattro pareti. Ad ovest, scorgiamo alcuni uomini che tengono dei cani e un cavallo; poi, l'incontro fra il Marchese di Mantova e il figlio cardinale. A nord, la famiglia Gonzaga è affiancata da molti personaggi in apparenza secondari. Eleganti drappeggi tracciano illusoriamente il confine tra la zona in cui si trova lo spettatore "reale'' e la vita degli ineffabili interpreti a cui lo stato mantovano affidava il suo destino. La raffinatezza del trompe-l'oeil si può meglio apprezzare notando come i due lati ciechi risultino tali perché in questo caso le finte tende rimangono chiuse.

I Gonzaga, giunti al potere il 16 agosto del 1328, sono ritratti all'apice del loro fasto, in un crocevia di relazioni intellettuali e politiche, nell'affermazione suprema di una dinastia che si allea con gli altri regnanti d'Europa. A questo sicuramente alludono i volti degli otto Cesari, da Caio Giulio ad Ottone, effigiati nei lacunari. La decorazione ad archi che divide il soffitto poggia su finti pilastri dipinti; sopra i bastoni su cui scorrono le tende immaginarie spiccano, sospese nel vuoto, otto imprese di casa Gonzaga. Né manca la dimensione mitica, rappresentata da dodici episodi nelle vele della volta, i cui protagonisti maggiori sono Orfeo, Arione ed Ercole. Infine, profondi paesaggi affrescati con minuziosa perizia creano un tessuto labirintico animato da visioni di rovine classiche, squarci di bellezza naturale e minuscole figure impegnate in compiti misteriosi.

La storia dell'affresco

Sulla porta d'entrata, nove putti con ali variopinte, di farfalla o di uccello, sorreggono una targa in cui si legge una dedica in latino: "Per l'illustrissimo secondo Marchese di Mantova Ludovico, il migliore fra i principi, incrollabile nello spirito, e per la di lui illustrissima moglie Barbara, incomparabile gloria delle donne, Andrea Mantegna padovano compì questa lieve opera nell'anno 1474, a loro onore''.

La targa offre una risposta certa per quanto riguarda l'anno di conclusione. Ma non dice nulla in merito alla durata dei lavori, alla data di inizio degli stessi e all'orizzonte cronologico in cui sono collocati gli eventi prescelti per la rappresentazione. Cosa spinse il Marchese e l'artista ad evocare una determinata sequenza di episodi fra i mille di cui la reggia mantovana era stata teatro in quel lungo periodo?

Si tratta infatti di un lasso di tempo non breve. Ludovico era già tornato ad abitare in Castello nel 1459; nel medesimo anno o nel successivo Mantegna si stabiliva a Mantova. Quanto ai primi interventi decorativi in loco, due elementi concorrono a situarli in modo pressoché sicuro, come ben spiega Rodolfo Signorini. Il "1465. d. 16. junii'' inciso sullo sguancio sinistro della finestra a nord, e una lettera del 26 aprile dello stesso anno, in cui si parla di calcina da adoperare per dipingere la camera di castello. D'altronde, pare che nel 1470 la famiglia Gonzaga al completo fosse già presente sulle pareti, come reciterebbe una missiva di Pietro da Pusterla e Tommaso da Bologna indirizzata al duca di Milano Galeazzo Maria Sforza.

Tuttavia, i problemi al riguardo non sembrano affatto risolti, poiché l'affresco risulta compiuto nella sua parte nord grazie ad un impegno assiduo di poche "giornate'', il che contrasta fortemente con le parole del Marchese che, nel decennio '65 - '74, ebbe a sottolineare la lentezza con cui l'opera procedeva. In realtà, l'unica logica possibilità di conciliare i due dati - rapidità estrema e lentezza - è che il tema fondamentale non fosse da subito chiaro neppure al committente e si precisasse in modo repentino nel fatidico 1474, o poco prima. Può darsi che le decorazioni della volta fossero in quell'epoca già ultimate. Esse infatti non si legano ad un dettaglio specifico di cronaca, ma riguardano invece altri Tempi, del Mito o della Storia.

Per avvicinarsi ai molti segreti della Camera occorre dunque procedere ad un confronto iconografico e cronachistico che paragoni le fattezze delle figure alla reale fisionomia dei protagonisti del Quattrocento, e contestualmente esamini gli avvenimenti di quel cruciale periodo collegandoli alle donne e agli uomini effigiati.

A tal fine, il nostro saggio si snoda attraverso coppie di immagini. Una è tratta dall'affresco, l'altra proviene da altre fonti, di solito coeve. Talvolta l'orientamento della seconda immagine è rovesciato, per meglio apprezzare le similitudini somatiche intercorrenti. Il percorso parte dai personaggi che hanno sempre goduto di riconoscimento certo, e affronta poi i numerosi casi controversi o irrisolti, che finora hanno velato la comprensione complessiva dell'opera.

Ludovico Gonzaga, detto il Turco (1412-1478)

Giunto alla suprema carica dopo la morte del padre Gianfrancesco, nel 1444, Ludovico è ricordato come il Gonzaga per eccellenza, colui che seppe unire le doti di accorto politico all'ampia visione del principe umanista. La sua impresa prediletta, il sole raggiante, esprime lo slancio generoso di chi riuscì sempre ad imporre nel travagliato panorama politico italiano un'esigenza di pace, sovranità ed equilibrio. Benché signore di una piccola corte, egli è il centro intellettuale di un complesso sistema di relazioni che, attraverso l'arte, reinterpreta l'intera vita umana. I suoi legami con Federico da Montefeltro, Cosimo dei Medici, gli Este, i Visconti e gli Sforza attendono ancora studi approfonditi. Cresciuto fra Pisanello e Vittorino da Feltre, egli vide nel Mantegna il Maestro complementare al perfetto principe. Di ingegno sottile e di tenacia non priva di coraggio, usò al massimo grado lo strumento del matrimonio dei consanguinei per tessere una tela dinastica ampia e robusta. In tal senso, egli curò il futuro ancor più del presente. A lui si deve l'eccezionale continuità della famiglia; ben ricordando i gravi conflitti con il fratello Carlo, cercò di risolvere in anticipo le problematiche della propria successione, inevitabili, vista la numerosa prole.

Ludovico è l'unico personaggio ritratto due volte nell'affresco: seduto nella Corte sulla parete nord; in piedi e di profilo nell'incontro con il figlio cardinale, descritto sulla parete ovest.

Nel primo caso, al suo fianco sta Marsilio Andreasi, il fedele segretario; il colloquio fra i due sembra avere come oggetto la lettera ben in vista fra le mani del Marchese. Purtroppo, non abbiamo altre immagini di Marsilio, appartenente all'illustre e antica stirpe degli Andreasi, che annovera fra i suoi componenti anche la Beata Osanna. Ma il suo naso imponente e l'aspetto severo si ritrovano fedelmente nel viso del figlio Giorgio (1467-1549), vescovo di Chiusi, ritratto anche nel monumento sepolcrale eretto nel transetto destro di Sant'Andrea.

Barbara di Brandeburgo (1422-1481)

Barbara era ancora una bambina quando nel 1433 sposò Ludovico. Figlia di Giovanni l'Alchimista, apparteneva alla nobilissima casata degli Hohenzollern, variamente imparentata con le maggiori dinastie tedesche, fra cui i Württemberg, i sassoni Wettin e i bavaresi Wittelsbach. La sorella Dorotea sposò in seconde nozze Cristiano di Oldenburg, re di Danimarca e di Norvegia, anch'egli dipinto nella Camera. Barbara assecondò sempre il governo del marito, curando i rapporti diplomatici con l'Impero e i territori dell'Europa settentrionale. Il Mantegna la ritrae attorniata dai figli, conscia del proprio fondamentale ruolo di madre, fulcro immobile della scena.

Federico Gonzaga, terzo Marchese (1441-1484)

Il primogenito di Ludovico ebbe in sorte un breve periodo di governo, e la sua personalità venne parzialmente oscurata dai caratteri preponderanti del padre e del figlio Francesco. Sposò nel 1463 Margherita Wittelsbach di Baviera, seguendo fedelmente la linea dinastica mitteleuropea favorita e pianificata dai genitori. Ebbe molti figli: Chiara (1464-1503), poi moglie di Gilberto di Borbone, Francesco (1466-1519), futuro Marchese, Sigismondo (1469-1525), Eleonora (1470-1526), poi moglie di Guidobaldo da Montefeltro, Maddalena (1472-1490), Giovanni (1474-1513).

Egli appare di profilo, identico rispetto alla medaglia di Bartolo Talpa, mentre saluta insieme al padre il fratello cardinale, a cui fanno corona i piccoli Francesco - il più alto - e Sigismondo.

Francesco Gonzaga, Cardinale (1444-1483)

Uomo sensuale (ebbe anche un figlio, detto il Cardinalino), amante degli oggetti d'arte e non privo di una certa inclinazione letteraria, come documenta la sua ricca biblioteca, venne subito destinato alla carriera ecclesiastica. Nelle mire del padre, doveva fungere da prezioso tassello di raccordo con la Curia Romana, dopo che Mantova aveva ospitato l'importante Dieta del 1459, nella quale si era parlato senza frutto della guerra contro i Turchi. Sotto il papato di Niccolo V, Francesco divenne protonotario apostolico (1454). Il 22 dicembre 1461 Pio II concesse la sospirata porpora, grazie anche all'intercessione di Niccolò Cusano e dell'Imperatore Federico III. Francesco non fu mai eccessivamente stimato a Roma; tuttavia, il suo voto risultò determinante in molti casi. Purtroppo la sua natura assai prodiga lo condusse varie volte al limite della bancarotta, obbligandolo a contrarre prestiti onerosi. Ci restano di lui numerose lettere, preziose per i giudizi acuti che egli dà di personaggi e situazioni, e per il resoconto di un incessante movimento di denari, legato spesso ai titoli ecclesiastici.

Attento alle cose tedesche, curò meticolosamente la visita di Federico III a Roma nel '68-'69. Ottenne la legazione di Bologna, città in cui dimorava di frequente, pur compiendo viaggi di cui per fortuna possediamo gli schemi. Pare che nel 1471, dopo la morte del Barbo, avvenuta il 26 luglio, fosse ventilata la sua elezione al Supremo Soglio.

Nella parte dell'affresco che lo riguarda, la sua posizione è dominante. Il Mantegna lo dipinge nel centro geometrico di un quadrato ideale, abbellito da una ghirlanda di braccia e di mani teneramente protese.

In quale data si è svolto l'incontro?

Gli studiosi che si sono seriamente cimentati nell'analisi della Camera concordano almeno su questo: un preciso episodio deve essere la base della rappresentazione dell'incontro. Troppo dettagliato è l'insieme per credere che si tratti di un semplice frutto della fantasia. D'altronde, in tale contesto la pura immaginazione risulterebbe completamente estranea ad ogni approccio umanistico.

La disamina dei fatti riguardanti Francesco ha condotto a selezionare due diverse datazioni. Il primo gennaio 1462 corrisponde al ritorno a Mantova del neo-cardinale che, giungendo da Milano, incrocia a Bozzolo il padre, il quale a sua volta si reca nella capitale lombarda per salutare Francesco Sforza malato. Il 22 agosto 1472 vede invece l'abbraccio a Bondanello sul Secchia fra Ludovico e il figlio, che giunge da Bologna via Mirandola, accompagnato da Galeotto e da Giovanni Pico.

Balzano immediatamente all'occhio due elementi in grado di confutare la prima ipotesi. La natura che fa da sfondo alle figure non è affatto invernale, come dimostrano le foglie degli alberi, le fronde e i prati verdeggianti. In secondo luogo, le età dei personaggi identificabili con assoluta sicurezza non possono corrispondere ad un giorno così lontano nel tempo. Ad esempio, Francesco e Sigismondo nel '62 non sono nemmeno stati concepiti da una Margherita che non ha ancora sposato Federico, mentre nel '72 hanno rispettivamente sei e tre anni. Il Cardinale è diciottenne nel '62, mentre nel '72 è ventottenne, come si può leggere nei tratti del suo volto.

Passando alla parete nord, altri due figli di Ludovico, Gianfrancesco (1443-1496, capostipite del ramo di Rodigo e Sabbioneta) e Rodolfo (1451-1495, capostipite del ramo di Castiglione e Luzzara), che appaiono alle spalle dei genitori, avrebbero nel '62 diciannove e undici anni, in contrasto palese con la loro fisionomia nel dipinto.

Mantegna può aver arricchito un episodio antecedente con dati coevi al termine dei lavori? Ricordiamo che la lettura dell'opera non doveva prestarsi ad equivoci, e che l'unione di situazioni temporali diverse in una medesima scena avrebbe causato il disorientamento dello spettatore. Esistono inoltre numerose identificazioni, che andremo via via a scoprire, in grado di confermare oltre ogni ragionevole dubbio la data del 1472.

A questo punto si impone una precisazione. Per valutare in modo corretto le età dei soggetti dell'affresco occorre tener presente che all'epoca gli individui maturavano più rapidamente rispetto ad oggi. Infine, considerata la prossimità del 1472 con il 1474, conviene rifarsi ad una valutazione intermedia, più consona all'aspetto dei protagonisti nel momento in cui l'opera venne compiuta.

La Cronaca di quei giorni

Stabilito il fatto, cerchiamo le fonti. Disponiamo di due voci autorevoli che commentano il periodo in questione. Federico Amadei, autore mantovano settecentesco, compilò una ponderosa Cronaca Universale della Città di Mantova, terminata intorno al 1750. Andrea Schivenoglia, nato nel 1411, è invece l'estensore di un resoconto degli avvenimenti dal 1445 al 1484. La maggior freschezza di quest'ultima narrazione è macchiata da alcune imprecisioni. Entrambe restano tuttavia documenti abbastanza attendibili.

L'Amadei racconta che nel 1472 Papa Sisto IV nominò Francesco Gonzaga abate di Sant'Andrea. Vista la presunta inerzia dei monaci benedettini, Ludovico e il figlio avevano deciso di demolire la vecchia chiesa e di erigerne una nuova, scegliendo come architetto Leon Battista Alberti. Il 12 giugno venne appunto posata la prima pietra. Ma occorreva sopprimere l'Abbazia; a tal proposito, un breve pontificio sarebbe giunto - dice l'Amadei - il 22 giugno. Possiamo invece dimostrare che furono due i documenti papali inviati a Mantova quasi contemporaneamente, l'uno per Ludovico, l'altro per Francesco (ASMnAG, busta 3302, c. 12 e c. 13). Essi vennero stilati il 9 e il 10 luglio 1472, ma registrati a a corte solo il 24 e il 23 dello stesso mese. Il pontefice dà ai Gonzaga la facoltà di sopprimere il monastero ed erigere un primiceriato, concedendo a Ludovico ed ai suoi successori il giuspatronato di Sant'Andrea. È un grande successo per il Marchese e per suo figlio, che si era prodigato a Roma in tal senso. La chiesa rientra ormai nel dominio del Principe; viene così cancellato un pericoloso centro di potere autonomo, reso insigne dalla reliquia del Sacro Sangue.

Occorre notare che agli inizi di luglio Francesco lascia la Santa Sede e va a Bologna, dove certamente è il 2 agosto; non ha quindi ricevuto di persona il breve. L'esistenza di due missive è essenziale per la comprensione dell'affresco. Una di queste è nelle mani di Ludovico a colloquio con Marsilio. L'altra, diversamente piegata come in effetti si nota confrontando gli originali custoditi nell'Archivio di Mantova, viene da lui consegnata al figlio nella scena dell'incontro.

La Cronaca continua accennando ad un soggiorno degli Sforza nel castello di Gonzaga. Francesco ritardò il suo ritorno in patria proprio per evitare questi personaggi a lui non graditi. Come abbiamo già ricordato, il famoso incontro avvenne a Bondanello sul Secchia, il 22 agosto: sia l'Amadei che lo Schivenoglia sottolineano come il cardinale fosse accompagnato da Galeotto e Giovanni Pico della Mirandola, dal vescovo di Muro Lucano e da altri dignitari.

I due della Mirandola

Ma in quali figure sono identificabili i due figli di Giovan Francesco Pico, signore della Mirandola, e di Giulia, zia del poeta Matteo Maria Boiardo? Galeotto nacque nel 1442 e morì nel 1499; fu lui a divenire signore del piccolo stato dopo la scomparsa del padre nel 1467. Non possediamo sue immagini attendibili. Ma il confronto tra l'effigie di un lontano discendente di Galeotto (il duca Alessandro II, 1631 - 1691) e l'individuo vestito di scuro accanto al Cardinale rivela una forte somiglianza nei tratti del viso. D'altronde, il copricapo di quest'ultimo è la cosiddetta berretta alla capitanesca o cappello capitaneo, portato da chi governa qualcosa, sia egli Capitano di truppe o Signore di uno Stato, come Ludovico.

Vicino a Galeotto, un giovinetto dall'aria gentile ha la mano destra nella mano di Francesco e la sinistra stretta dal piccolo Sigismondo. Il personaggio è stato variamente identificato; crediamo che la tesi più valida sia quella che vede nel fanciullo Giovanni Pico, l'ingegno che scosse l'Umanesimo di fine secolo con le sue ardite affermazioni, e che scomparve prematuramente a Firenze, nel 1494, a soli 31 anni. A tal proposito non ci aiutano i Ritratti Ambras, poco attendibili per i casi controversi del Quattrocento. Ci persuadono invece l'aspetto adolescente e la dolcezza dello sguardo, che ritroviamo nell'affresco del Rosselli nella Cappella del Miracolo, in Sant'Ambrogio a Firenze, dove Giovanni trova una rappresentazione sicura.

Nella Camera, a chi si rivolgono quegli occhi curiosi? Lo sguardo incrocia l'autoritratto del Mantegna, nascosto tra le fronde ornamentali dei pilastri, e giustamente riconosciuto da Signorini. Forse, stiamo assistendo all'inizio di un rapporto tutto da esplorare. D'altra parte, nell'incontro viene evidentemente prefigurato un futuro cenacolo intellettuale.

Angelo Ambrogini, detto Poliziano (1454-1494)

È ben noto che il Poliziano, l'amico fraterno di Giovanni Pico, ebbe a lungo come committente il cardinale Francesco Gonzaga, come risulta dalla notissima lettera prefatoria dell'Orfeo: ... la fabula di Orfeo, la quale a requisizione del nostro reverendissimo Cardinale Mantuano in tempo di dua giorni, intra continui tumulti... avevo composta. Non entriamo qui nel merito dell'accesa discussione sulla data di stesura di quest'opera, anche se riteniamo che essa appartenga, per lessico e struttura, agli esordi dell'artista.

Che il Poliziano sia il giovane dai vestiti sgargianti e dal piglio estroso posto nell'affresco di fronte a Federico Gonzaga ci sembra indubitabile, considerati i numerosi ritratti del poeta e il suo imponente profilo. Riportiamo come esempio il dipinto del Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella a Firenze. Il Poliziano è documentato nella città toscana fino al 21 agosto dell'anno in questione. Numerosi studiosi, fra cui il Bettinelli e il Tiraboschi, hanno attribuito l'Orfeo al 1472, proprio in relazione al ritorno del Cardinale nella sua Mantova, ritorno che certamente corrisponde alla data del 24 agosto.

Il forte legame tra l'ecclesiastico e il grande letterato viene confermato dagli eventi del 1480, quando Angelo si stabilisce provvisoriamente nella città virgiliana, quasi fuggendo da Lorenzo il Magnifico.

Ludovico, figlio del Marchese (1458-1511)

L'adolescente che abbiamo appena identificato come Giovanni Pico viene interpretato da alcuni come Ludovico Gonzaga, fratello di Federico e Francesco, protonotario apostolico dal 1471 e vescovo di Mantova dal 1483. Egli e il Cardinale erano molto legati: anche la sua carriera avrebbe dovuto culminare nella porpora, ma questo onore gli venne negato, al contrario di quanto accadrà al nipote Sigismondo.

Pensiamo invece che Ludovico sia il giovane ritratto di profilo tra il Marchese e Francesco; egli è disposto parallelamente al padre, a cui assomiglia in modo particolare. Una medaglia del Melioli ci conforta, soprattutto per l'identità del copricapo e della capigliatura. Il violetto del cappello ben si addice a chi sta percorrendo i gradi della Chiesa. L'aspetto generale concorda con l'età del protonotario nel '72-'74.

Leon Battista Alberti (1406-1472)

Una grande impresa nasce sotto migliori auspici se si avvale dello sguardo benevolo di numi tutelari. Come abbiamo ricordato, Ludovico Gonzaga si accingeva nel '72 a ricostruire dalle fondamenta la Concattedrale di Sant'Andrea, trasformandola da antica chiesa romanica in maestoso tempio rinascimentale. Leon Battista Alberti aveva sottoposto al Marchese il suo progetto nella ben nota lettera del 21 ottobre 1470: Pensai et congettai questo qual io vi mando. Questo sarà più capace più eterno più degno più lieto. Costerà molto meno. Questa forma de tempio se nomina apud veteres Etruscum sacrum... Inutile ripercorrere la lunga amicizia tra l'Alberti e il Gonzaga. Al padre di questi, Gianfrancesco, Leon Battista aveva dedicato il De Pictura; negli anni sessanta venne eretto a Mantova San Sebastiano; Ludovico, capitano generale dell'esercito toscano, aveva finanziato a partire dal 1469 il rinnovamento albertiano della Rotonda dell'Annunziata a Firenze. Purtroppo, quando i lavori tanto attesi potevano iniziare, il grande architetto era già scomparso: il suo testamento risale al 19 aprile 1472.

A nostro avviso, la nobile figura dai capelli bianchi, dagli occhi malinconici e dalle vesti scure che si trova alle spalle di Rodolfo e di Gianfrancesco è proprio il celebre artefice; egli assiste in silenzio all'arrivo del nulla osta che permette la costruzione della basilica da lui ideata. Paragoniamo il volto mantegnesco al disegno contenuto nel codice V. E. 738 della Biblioteca Nazionale di Roma, in cui si scorge una maestosa figura racchiusa dalla scritta Mess. B. Alberti; secondo il Grayson, ci troviamo addirittura di fronte ad un autoritratto. I lineamenti del viso ci sembrano simili a quelli tratteggiati nell'affresco. In questa identificazione siamo preceduti e confortati da E. J. Johnson, che la propone nell'articolo apparso in Arte Lombarda del 1975.

Vittorino da Feltre (1373-1446)

Un altro personaggio si distingue nella corte per l'abito scuro, gli occhi abbassati e l'aspetto venerabile. Si tratta dell'uomo la cui testa spunta dietro il cappello di Ludovico. Riteniamo di ravvisare nell'anziano dal naso pronunciato e dalle labbra sottili e strette il profilo di Vittorino da Feltre, indimenticabile maestro di un'intera generazione.

Umanista con spiccata vocazione pedagogica, allievo di Guarino Veronese, scelse per sé non la prestigiosa carriera di letterato, ma l'appartato compito di educatore. Mantova divenne la sede della prima scuola intesa nel senso laico e moderno del termine quando, nel 1423, il marchese Gianfrancesco invitò Vittorino a ricoprire il ruolo di insegnante dei propri figli. La Ca' Zoiosa, che aveva sede nell'area di Palazzo Ducale, si trasformò in un luogo di giochi intellettuali e di apprendimento delle materie da cui un principe poteva trarre alimento ed esempio. Qui si studiavano il latino, il greco, la filosofia, le lettere e la storia, ma anche il canto e la pittura. Vittorino, nuovo Socrate, lasciò pochissimi scritti, convinto che la memoria si basasse più sull'affetto che sulla ripetizione. Oltre ai giovani di nobile stirpe, alle sue lezioni egli ammise brillanti adolescenti e fanciulli meritevoli, anche se di scarsi mezzi.

La sua presenza alle spalle del Gonzaga è chiaro indizio di un rapporto ancora vivo tra il maestro e l'alunno. Il ritratto dipinto da Giusto di Gand per Federico di Montefeltro, altro suo celebre allievo, ci ripropone la veste severa, l'espressione attenta e buona, le palpebre semiabbassate. Come il Duca di Urbino, il Marchese di Mantova ha inteso evidenziare nel cuore della sua dimora l'importanza che i maestri di cultura e di vita devono assumere nell'esistenza del Signore virtuoso. Vittorino e Leon Battista compongono così una coppia di spiriti eletti, che ispirano dall'eternità le azioni del buon governante.

Gli Sforza

I rapporti tra i Gonzaga e Milano furono sempre necessari e difficili, per ovvi motivi di contiguità territoriale. L'esecuzione di Agnese Visconti per ordine del marito Francesco Gonzaga, che nel 1391 l'aveva accusata di adulterio, è solo un episodio all'interno di una storia tormentata. Ludovico si era ritrovato in lotta contro il fratello Carlo anche a causa della spregiudicata condotta di Francesco Sforza che, alla morte del suocero Filippo Maria Visconti (1447), tentava con ogni mezzo di impadronirsi del potere.

In seguito, la casata mantovana dovette patire dai signori di Milano un affronto sanguinoso. Prima, la figlia maggiore di Ludovico, Susanna, promessa nel 1450 al figlio dello Sforza, Galeazzo Maria, fu respinta a causa di una malattia che l'aveva resa deforme. Poi, una seconda figlia, Dorotea, venne fidanzata a Galeazzo (alcuni cronisti sostengono che il matrimonio ebbe luogo), ma fu dallo stesso rifiutata per il sospetto di una gibbosità ereditaria. La povera Dorotea morì nel 1467, e si disse addirittura che fosse stata crudelmente avvelenata per eliminare ogni intralcio alle prestigiose nozze di Galeazzo con Bona di Savoia, avvenute nel maggio del 1468. Tuttavia, le corti rimasero formalmente in amicizia, anche dopo la morte di Francesco Sforza (1466), che stipendiava Ludovico come capitano delle sue milizie.

Nel 1471 Galeazzo si recò con una gran chometiva (Schivenoglia) a Mantova, quindi a Gonzaga, salvo fuggire precipitosamente quando una lettera lo informò che stava per essere massacrato insieme ai suoi. Pare si trattasse di un equivoco o di una maldicenza. Come abbiamo ricordato, lo Sforza tornò a Gonzaga il 14 luglio del 1472, accompagnato da un treno di ben cinquemila persone (Amadei). Il Cardinale Francesco differì la sua venuta a Mantova per evitare di incrociare i milanesi; in una lettera del 1467 Giacomo Trotti afferma che Francesco odiava Galeazzo perché ... l'è stato lui et non altri cagione della morte de madonna Dorothea. D'altronde, Galeazzo aveva fama d'essere uomo vizioso, crudele e sadico. In quell'estate del 1472 egli ammassò navi a Guastalla e a Borgoforte, rifiutando ogni ispezione gonzaghesca. Il 9 di agosto si trasferì a Dosolo e poi a Cavallara insieme alla moglie e a tutta la corte. Qui, senza mai scendere a terra, accolse ospiti come se fosse nella propria reggia. Quattro o cinque giorni dopo si allontanò definitivamente dal Mantovano, lasciando incerta opinione di sé medesimo e delle sue occulte mire (Amadei).

Che la folta compagnia presente nella parete nord della Camera fosse collegabile agli Sforza ci è subito sembrato evidente. Il gesto dell'uomo in piedi sopra i gradini, che porta il cappello capitaneo, volta le spalle alla corte di Ludovico e indica ai suoi di partire, ci era parso assai indicativo.

Davanti a lui, il bel giovane dalla carnagione scura era chiaramente riconoscibile come Ludovico il Moro (1452-1508), futuro duca e condottiero, di cui possediamo molti ritratti attendibili. Ogni dubbio in proposito scomparve confrontando la scena con la miniatura in testa al Codice 4586 della Biblioteca di Parigi, in cui vediamo Galeazzo Maria circondato da tutta la famiglia, mentre riceve dall'autore il libro contenuto nel codice stesso. Si tratta di un'opera che tratta i diversi livelli di consanguineità suscettibili di rappresentare impedimento al matrimonio. La miniatura è posteriore al 1466, poiché Galeazzo è già duca. Fra i personaggi effigiati è facilmente identificabile il Moro, nell'identica positura dell'affresco mantovano.

Inoltre, nell'immagine del codice è presente anche il fanciullo che Mantegna ritrae sulla destra con una leggera gobba, probabilmente uno dei figli illegittimi di Galeazzo. Altra conferma viene dalle tinte delle calze, il bianco e il morello, colori araldici della casata sforzesca.

Siamo anche certi che il personaggio a sinistra del pilastro della parete settentrionale sia il fratellastro di Francesco Sforza, ovvero Alessandro (1409 - 1473), Signore di Pesaro; egli era padre di Battista, moglie di Federico da Montefeltro. Il confronto con le medaglie di cui disponiamo è decisivo, come si vede nell'immagine. Costui, ancora vivente nel luglio del 1472, era già scomparso all'epoca della conclusione del dipinto; infatti, il suo aspetto è aggrondato come accade per l'Alberti e per Vittorino. A destra del medesimo pilastro scopriamo suo figlio Costanzo (1447-1483), giustamente provvisto del cappello da signore, poiché nel 1474 effettivamente governava Pesaro. (vedi immagine di una medaglia quattrocentesca). Tra i due sta un giovane biondo dall'aria spavalda e con lo spadino in bella evidenza. Egli potrebbe essere un figlio naturale di Galeazzo Maria, Carlo (1458-1483), famoso per i suoi eccessi. Possediamo i ritratti di Caterina, sua sorella, e di Ippolita, sua figlia: entrambe lo ricordano nei lineamenti del viso.

Quanto al gruppo di destra, dietro al Moro è forse identificabile Sforza Maria (1451-1479), duca di Bari, per l'età e per il copricapo. L'uomo con la veste arabescata e il suo compagno che invita i familiari alla partenza potrebbero corrispondere a Secondo e Tristano Sforza, entrambi figli naturali di Francesco, rispettivamente di 39 e di 50 anni. Notevole è la loro somiglianza con il volto del grande padre.

Quindi, ci troviamo di fronte agli Sforza al gran completo. Ma, fatto incredibile, manca il protagonista assoluto della corte stessa, il duca Galeazzo Maria, che pure era presente a Gonzaga. Così finalmente si spiega il contenuto della relazione inviata il 26 novembre 1475 da Zaccaria Saggi, ambasciatore a Milano del Marchese Ludovico. Qui si narra che Galeazzo Maria era fortemente irritato, tanto che Zaccaria ammette: comprehendo che non gli piaccia ponto che avendo Vostra Signoria fatto fare così bella camera... non gli abbi fatto ritrare Sua Excellentia...

Ludovico rispose con malcelata ironia, sostenendo che gli pensassemo de fare mettere Sua Sublimità nel più digno loco, ma lamentando che Andrea non era molto abile nell'arte del ritratto. In realtà, nella Camera si eterna l'assenza e l'esclusione dell'arrogante Galeazzo, in voluto contrasto con l'importanza concessa ai suoi familiari.

Nella medesima relazione si aggiunge poi che Galeazzo era particolarmente infastidito per aver Mantegna ritratto i duy più tristi homini del mondo, ovvero Cristiano I Oldenburg re di Danimarca e Federico III Asburgo, Imperatore dal 1440.

Federico III, Imperatore (1415 - 1493)

Dove sono dunque i due sovrani? Secondo Signorini, Federico III è, per motivi fisiognomici, la figura che a nostro parere corrisponde al Poliziano. Ma sembra inverosimile che la massima autorità del globo terracqueo, volgendo le spalle al Marchese e al Cardinale, venga dipinto a capo scoperto e in vesti comuni. I raffronti iconografici, benché non omogenei, rivelano in generale una netta discordanza con il profilo effigiato, come si può ad esempio constatare esaminando le immagini pubblicate a fianco. Inoltre, l'età del sovrano nel 1472 non si addice alla prestanza del giovanotto multicolore. Infine, Mantegna mantiene una stretta coerenza nella rappresentazione dell'incontro e della corte, evitando di aggiungere personaggi che non parteciparono agli eventi connessi.

La ricerca di Federico d'Asburgo non è quindi conclusa. C'è somiglianza fra il viso di Galba (nel medaglione sopra la targa con i putti) e il volto dell'Imperatore. Tuttavia, avanziamo un'ipotesi diversa: Federico è scomparso, lasciando di sé solo la mano protesa che oggi scopriamo vicino al cavallo grigio sulla parete ovest. Un'intera fascia verticale di pittura è purtroppo caduta, come dimostra la vasta lacuna che cancella quasi tutta la tenda a sinistra del cavallo e l'individuo che da essa spuntava. Il gesto sottinteso dalla mano, tra la benedizione e il comando, ricorda la celebre statua equestre di Marco Aurelio, disegnata anche da Giovanni Marcanova o da Felice Feliciano nel Manoscritto L. 5, 15 della Biblioteca Estense di Modena (1465). Il destriero gonzaghesco è bardato in modo analogo a quello ritratto nel medesimo disegno. Il Marcanova, che morì nel '67, fu amico del Mantegna e lo seguì - insieme al Feliciano - nella nota gita antiquaria sul Lago di Garda del 1464. Iconograficamente, vi è parallelismo tra la mano misteriosa e la mano di Ludovico nella scena adiacente dell'incontro, a significare una simmetria ispirata dall'autorevolezza di entrambi i governanti. Un altro indizio è offerto dall'imponente paesaggio retrostante, in cui sono ravvisabili tre castelli nordici che si ergono su alture rocciose.

Cristiano I di Oldenburg (1426-1481)

A sua volta, Cristiano è riconoscibile nella figura accanto alla porta, accompagnata da un uomo con un documento fra le dita. Il raffronto fra il viso mantegnesco e l'immagine conservata nel Museo di Frederiksborg non lascia dubbi. Dobbiamo inoltre notare che qualcosa di chiaro spicca sulla berretta del personaggio effigiato nell'affresco: si tratta probabilmente di una decorazione nobiliare del Sacro Romano Impero, formata da un nastro piegato a foggia di pennello. Cristiano possedeva l'Oldenburg, lo Schleswig e l'Holstein. Proprio nel 1474 l'Imperatore aveva promosso a ducato quest'ultima regione e aveva concesso al re il turbolento territorio del Dithmarschen.

È sempre del 1474 il viaggio di Cristiano in Italia. Egli attraversò la Germania, si recò a Malpaga dal Colleoni, poi a Milano dallo Sforza, quindi a Mantova, dove rimase dal 22 al 24 marzo. Partì poi per Viterbo dove trovò ad accoglierlo Francesco Gonzaga, che lo accompagnò a Roma. Qui ebbe dal Papa l'ambita onorificenza della Rosa d'Oro. Lasciata la città eterna, ripassò per Viterbo, Firenze e Mantova, dove sostò nuovamente dal 10 al 16 maggio. Si diresse quindi, via Milano, verso Strasburgo dove, il 29 maggio, si doveva tenere una Dieta indetta da Federico III.

Durante la permanenza in Italia, Cristiano si industriò per ricevere prestiti dal Gonzaga e dallo Sforza; inoltre, ottenne dal Cardinale i benefici ecclesiastici di Dalby e Lund, in Scandinavia. Da qui una complicata vicenda di denari, che ben conosciamo grazie alle lettere inviate da Francesco alla madre Barbara.

Ora, occorre che il lettore focalizzi i seguenti dati: Galeazzo Maria Sforza cercava invano di carpire all'Imperatore la nomina a re di Lombardia e la definitiva investitura a Duca di Milano, usando Cristiano come intermediario e alleato; per fini opposti, Ludovico stava svolgendo un'accorta opera diplomatica sul medesimo Asburgo, utilizzando l'influenza dello zio di Barbara, Alberto Achille di Brandeburgo, uno dei sette grandi elettori; Trionfo Norliger, uomo del Gonzaga, ebbe l'ordine di scortare Cristiano a Mantova nel suo viaggio di ritorno da Roma (in modo che egli non passasse subito da Milano) e di partire quindi per la Danimarca, allo scopo di acquistare i pregiati cavalli del nord. In archivio, esistono tre documenti che gettano luce su questa complessa e riservata trama. Il primo agosto 1474 Federico III concede a Ludovico l'importante privilegio (ASMn, AG, b. 44) di stringere alleanze, patti e confederazioni con qualunque re, principe, signore e popolo. All'inizio e alla fine di giugno, due lettere a Trionfo (ASMn, AG, b. 2893, lib. 74, c. 71v e c. 84v) insistono sulla necessità di comprare i destrieri tanto amati dal Marchese, che già aveva ottenuto un baio in dono dal cognato. È lecito supporre che Trionfo non si limitasse al commercio di equini, ma, parlando il tedesco e passando più volte da Augsburg, sede imperiale, avesse modo di farsi interprete degli intendimenti del Gonzaga.

Una volta esposti tali elementi, la scena composta dall'Imperatore, dal grande cavallo grigio accanto a lui, dai famigli che si occupano del cavallo e dei cani, oltre alla coppia formata da Cristiano e dal personaggio con il documento, inizia a chiarirsi. Crediamo che la mano dell'accompagnatore di Cristiano stringa il privilegio imperiale di cui abbiamo parlato. Riteniamo che il cavallo al centro sia uno dei destrieri comprati da Trionfo fra la Danimarca e la Germania; l'aspetto possente, i forti garretti, il robusto collo e la statura ragguardevole indicano un esemplare delle potenti razze nordiche; l'insegna del sole, ripetuta più volte nella bardatura e tipica di Ludovico, dimostra che l'animale appartiene al Gonzaga. Quindi, il significato profondo della rappresentazione risiede nell'onore conferito al Marchese (e rifiutato allo Sforza), a cui si affiancano le recenti promozioni territoriali concesse ad un familiare del Gonzaga medesimo, ovvero Cristiano I di Oldenburg. Questa è l'unica parte dell'affresco che ritrae eventi del 1474: così si spiega la presenza della targa, che certifica la conclusione dell'opera e viene racchiusa nello spazio delimitato dall'apertura a sipario delle due tende, insieme alla scena dell'Imperatore e dei famigli.

Ludovico voleva che la Camera fosse terminata almeno per il ritorno del re danese a Mantova. Un ulteriore breve ritardo, da maggio ad agosto, portò probabilmente ad arricchire la simbologia dinastica del capolavoro, completandolo con un nuovo prestigioso traguardo raggiunto dalla Corte mantovana.

Gli altri personaggi

Nella scena dell'incontro, il maturo personaggio vestito di violetto può corrispondere al beneventano Meolo Mascabruni, divenuto nel 1464 vescovo di Muro Lucano, dopo esserlo stato di Telese; egli, come abbiamo visto, accompagnava Francesco il 22 agosto del 1472. Iconograficamente è utile il confronto con l'uomo dipinto dal Ghirlandaio nel già ricordato affresco della Cappella Tornabuoni, proprio accanto al Poliziano; costui, secondo ricerche attendibili, è il vescovo di Arezzo Gentile de' Becchi.

Rimangono da identicare alcune figure sulla parete nord. La bambina con la mela è certamente Paola, ultima figlia del Marchese, nata nel 1463, futura sposa di Leonardo Conte di Gorizia. Il bambino smunto e dagli occhi tristi al suo fianco, sulle cui spalle stanno le mani di Gianfrancesco, rappresenta invece un problema più arduo. Egli sicuramente non è il vescovo Ludovico, poiché l'età non corrisponde. Tuttavia, la sua somiglianza con il Marchese è impressionante. Sia il Tonelli che il Litta, storici settecenteschi, accennano ad un altro Federico, figlio del signore di Mantova, morto fanciullo. L'inclinazione del viso e l'espressione mesta lo accostano agli altri scomparsi, in particolare a Vittorino da Feltre, che sembra quasi fissarlo.

Barbara Gonzaga (1455-1503)

L'attraente fanciulla vestita con eleganza che guarda verso destra è certamente un'altra figlia di Ludovico e di Barbara, a cui venne dato il medesimo nome della madre. Scrive di lei il cardinale Francesco (8 luglio 1474): la qual è de tanto singulare bellezza che se puoria mettere a parrangone cum tutte le belle donne d'Italia... Proprio nella primavera di quell'anno (12 aprile, secondo lo Schivenoglia) venne officiato il suo matrimonio con Eberhard conte di Württemberg, detto il Barbuto, fondatore nel 1477 dell'Università di Tubinga. Egli era parente dei Brandeburgo per parte di madre; a causa di questo quarto grado di consanguineità si rese necessaria una dispensa papale. Sisto IV, opportunamente convinto da Francesco, concesse il nulla osta solo il primo giugno; fino a quel giorno la sposa era rimasta illibata.

Paola Malatesta Gonzaga, morta nel 1449

Alle spalle di Barbara notiamo un volto austero che contrasta decisamente con la bellezza della giovinetta. Crediamo che questa figura, su cui sembra posarsi un'aura di santità, sia la madre del Marchese Ludovico, Paola Malatesta, sposa di Gianfrancesco Gonzaga. Donna colta e religiosa, ebbe il merito di portare a Mantova Vittorino da Feltre e Bernardino da Siena. Grazie ai suoi saggi consigli, il carattere irruente del marito, il cui cappello capitaneo spunta dietro la testa di Ludovico, venne indirizzato verso mete elevate. Si addebita a lei la gibbosità ereditaria dei Gonzaga, ma i mantovani devono molto a questa grande personalità rinascimentale. Dopo la morte di Gianfrancesco, si ritirò nel convento di Santa Paola che aveva fatto costruire nel 1420: qui venne sepolta, vestita del saio francescano. Oltre all'abito conventuale in cui Mantegna l'effigia, due sono gli indizi maggiori che conducono a identificarla. Ella fa parte della schiera dei defunti per atteggiamento e sguardo. Inoltre, si trova accanto ad Alessandro Sforza, la cui seconda moglie Sveva era una Montefeltro: la sorella di Sveva, Agnese, era nuora di Paola, in quanto sposa di Alessandro, fratello minore di Ludovico. D'altronde, nel 1472 l'unico legame familiare di rilevo fra i Gonzaga e i signori di Milano era rappresentato dalla parentela fra Paola Malatesta e Alessandro Sforza.

Il convento di Santa Paola accolse anche Cecilia (1425-1451), sorella di Ludovico, una seconda Cecilia (1451-1478), sua figlia naturale, e quella Susanna (1447-1481) respinta da Galeazzo Maria Sforza. Dietro Barbara e Paola vediamo infatti apparire due teste di donna coperte da un velo. La presenza nell'affresco della coppia formata da Barbara e Paola sottolinea la gloria della stirpe, e suona come ulteriore rimprovero a Galeazzo, che vide deformi le donne Gonzaga, senza cogliere la loro bellezza e la loro spiritualità.

Ulteriori riflessioni

Crediamo di aver contribuito alla comprensione dell'armonioso progetto del Mantegna. L'affresco è concepito secondo schemi e simmetrie che si evidenziano identificando le figure ritratte e valutando i loro reciproci equilibri. In particolare, ogni sezione ha un punto focale: da sinistra a destra, il cavallo e il famiglio, Francesco Cardinale, Barbara di Brandeburgo, Ludovico il Moro e il personaggio che invita gli Sforza alla partenza.

Questi fulcri ideali rappresentano altrettanti nodi diplomatici attraverso cui si esercitò la politica estera del Gonzaga. Procedendo ancora da sinistra a destra: i rapporti con l'Impero, il legame con la Curia Romana, le parentele con le casate germaniche, l'alleanza conflittuale con i Signori di Milano. Ma i poli fondamentali restano due: da una parte, i tre documenti cartacei, relativi appunto alla Chiesa e all'Impero; dall'altra, l'assenza clamorosa del maggiore degli Sforza, Galeazzo Maria. Quest'ultimo venne assassinato nel 1476 da tre sicari, che precedentemente si erano recati da Ludovico per ottenere il suo assenso. In tale occasione, uno di loro avrebbe confessato d'essere il responsabile della morte di Dorotea, sua figlia.

La Camera degli Sposi si rivela una rassegna di dinastie e di personaggi eminenti. Da un lato, i Pico e i Malatesta, che strinsero fin dagli albori vincoli di nozze con i principi di Mantova; i Brandeburgo, la cui vasta influenza sui destini dell'Impero si amplia grazie ai matrimoni con le altre grandi famiglie tedesche; l'Asburgo, da cui provengono in definitiva le investiture che consentono ai Signori italiani di continuare nel loro governo. Dall'altro, un'eletta schiera di intellettuali: l'Alberti, Vittorino, il Poliziano, Giovanni della Mirandola e lo stesso Mantegna, che interpretano a pieno titolo lo spirito umanistico delle corti rinascimentali. Altrettanto significative sono le assenze. Abbiamo già parlato a lungo di Galeazzo Maria Sforza; la moglie di Federico, Margherita di Wittelsbach, è invece lontana a causa delle continue gravidanze che, nei fatidici anni 1472 e 1474, riguardarono Maddalena e Giovanni. Altri figli per assecondare nuovi legami dinastici. Così, la medesima Maddalena sposerà Giovanni signore di Pesaro, figlio di Costanzo e nipote di Alessandro Sforza.

Nella Camera, l'ambizioso sogno del principe diviene dunque pittura; la realtà si unisce all'arte, eternandosi nel segno del Maestro.

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