Il sonno

di Giovanni Pasetti

Nonostante tutto quello che mi è capitato, sono uno come tanti. Un giorno, mio padre mi ha chiesto cosa volevo fare della mia vita, se preferivo lavorare nella sua azienda o accontentarmi di una rendita modesta che mi avrebbe permesso di studiare. Ho scelto, senza esitare, i pochi soldi che mi stava offrendo, e sono partito.

Ho visitato tutta l’Europa, viaggiando per un anno intero; alla fine del viaggio mi sono iscritto a una delle università più importanti di un paese che ora non riesco a ricordare. Ero felice, sono stato felice. Non studiavo solo per imparare; cercavo di conoscere le cose che non sapevo, e capivo di sapere molto poco. Ammiravo i miei professori e intuivo d’essere giudicato un allievo attento e intelligente, benché disinteressato al compimento della carriera scolastica. La mia ambizione era diventare davvero amico di uno di loro. Grazie alla mia tenacia, al termine del primo periodo di corso avevo già raggiunto lo scopo, entrando nella ristretta cerchia di discepoli del più anziano e saggio docente della scuola.

A mio parere, quell’amicizia onorava entrambi. Mi sentivo davvero legato a lui, e trascorrevo tutti i pomeriggi della mezza stagione ad osservarlo seduto in biblioteca, mentre correggeva le composizioni degli studenti tracciando intorno a certe frasi dei rapidi cerchi e dei punti esclamativi, diritti e leggeri come la sua grafia. Ogni tanto si alzava, percorrendo sorridente la distanza che separava il suo tavolo dalla mia poltrona; veniva a chiedermi impressioni sulla giornata, parlando delle relazioni che intrattenevo con i compagni di studi.

Rispondevo a stento, usando poche e generiche frasi, e lui ammiccava, quasi a significare che avremmo affrontato in seguito gli argomenti seri. Il momento infatti veniva, ogni giorno. Di sera, una passeggiata lungo i confini del parco ci dava tempo e modo di discutere i problemi che mi turbavano. Erano mie elucubrazioni.

Io dicevo spesso che ogni persona riveste un ruolo che le appartiene per destino. Un simile segreto agisce come una corrente d’aria calda: la porta a salire fino al momento in cui quella qualità fondamentale che in lei si nasconde non è in grado di operare secondo i propri veri mezzi. Solo allora la persona può scegliere, se compiere le azioni che sono nel suo dominio oppure volare un attimo più in alto, senza trovare un vento adatto a sostenere il volo. In tutti i casi, un limite invalicabile resta fissato, e oltrepassarlo è inconcepibile. Dicevo ancora che la volta del cielo tracciata dal nostro sguardo esiste realmente, ed è una parete: siamo proprietari di uno spazio e di un tempo che ci competono, infrangibili.

Questa era la mia idea; per difenderla ricorrevo all’astronomia e all’astrologia. Affermavo che l’uomo era costretto a rappresentare la terra sferica e lo spazio ricurvo; infatti la gravità esiste dovunque, la gravità che rende l’universo un insieme infinito di centri; e Copernico contiene Tolomeo come la buccia protegge il seme da cui è nata.

Il mio interlocutore era troppo abile per confutarmi citando quali prove di un’evidenza contraria alcune nostre facoltà, l’immaginazione, la sensibilità, il sentirsi talvolta sospesi nel vuoto. Tornava invece indietro nel tempo, parlando di altre opinioni che non conoscevo, perché coloro che le avevano espresse erano autori minimi o infimi, tardi pensatori scolastici prossimi all’eresia, insignificanti letterati cinquecenteschi desiderosi di arricchire con qualche levata d’ingegno le loro opere marginali. O, ancora peggio, pensatori leggendari dell’antico oriente, divini patroni di città greche.

Il professore raccontava che uno di loro si era ritirato un giorno sopra una vetta inaccessibile, gridando che le sue parole acquistavano forza, come i sassi, per l’altezza da cui cadevano. Così, un altro adorava quale unica divinità la distanza, e fuggiva cercando i luoghi più aperti e desolati, gettando lontano da sé ogni cosa trovata sul suo cammino, stimando che la felicità più grande consistesse nel perdere definitivamente la consapevolezza.

Questi discorsi non mi convincevano affatto, anche se non sapevo replicare alle favole che inventava. Tacevo, limitandomi a non condividere, cercando invano l’affermazione decisiva che mi rendesse vincitore, costringendo quel vecchio capo bianco a chinarsi in un cenno di assenso; ma non riuscivo nemmeno a concepire l’esistenza di qualcosa che potesse sconfiggere la sua imperturbabilità.

Però, un mattino d’estate, rovistando tra i libri della facoltà, trovai uno scritto di remotissima pubblicazione che, sviluppando i temi dei miei ragionamenti, veniva a illustrare il problema con assoluta chiarezza. Felice come non mai, corsi subito a cercare il professore. Il testo mi dava infatti ragione, e la sua ultima frase era quasi un monito sprezzante rivolto al mio contraddittore.

"Riguardo a chi poi non consentisse con l’opinione che abbiamo fin qui svolto, si ricordi costui che il credere ai sogni è, da sempre, cosa pericolosa, perché dietro a quelle ingannevoli apparenze mille anime si sono perse, e migliaia ancora si perderanno prima che il sigillo dei tempi precluda all’uomo la parola."

Quando gli mostrai l’opuscolo, il professore sorrise. Promise di leggerlo in serata e se ne tornò lentamente verso casa, costeggiando il prato con devozione, quasi temesse di calpestarlo. L’indomani, quando mi parlò, era molto accigliato. Mi disse che i pensieri altrui avevano molta importanza, e che non credeva esistesse un tribunale autorizzato a processarli in nome della verità. Ripeteva di non guardare all’assoluto, bensì agli atteggiamenti del nostro animo, senza condannare nulla. Concluse che una sola cosa gli stava a cuore; voleva che io riflettessi sul tessuto dei sogni e sul loro destino, perché forse un giorno avrei mescolato al sogno la mia stessa vita, più intimamente che mai.

Sentendo queste parole qualcosa salì dentro di me, simile alla nebbia, annullando il mio buonsenso. Dissi, quasi gridando, "Lei mi accusa senza capire."

Scoprivo un risentimento insolito; credeva forse che gli avessi portato il libro per offenderlo? Sapevo d’essere molto diverso da lui, ma questo non gli dava il diritto di trattarmi come un ragazzino incapace. Sognavo anch’io, certo; senza pensare però che i sogni fossero in grado di rivelare più di quanto gli occhi vedono durante il giorno.

"Allora, non mi basta che i sogni dicano qualcosa di noi. Voglio che abbiano un’esistenza propria, perché non si può interrogare un fantasma che svanisce quando ci voltiamo, un fantasma che ci parla come fa un’eco".

Così il colloquio finì, e ci separammo senza desiderio di aggiungere altro. Passai la notte leggendo un romanzo. A ogni riga mi fermavo, alzavo lo sguardo e, perplesso, cercavo qualcuno che mi potesse ascoltare, nella speranza di confidargli l’insicurezza che mi colpiva; ma la stanza era vuota. Era molto grande; l’avevo arredata con tanti piccoli oggetti senza riuscire a riempirla davvero. In compenso, il letto mi sembrava minuscolo e mi costringeva a restare rigido fra le lenzuola, per timore di scoprirmi o, peggio, di cadere.

Me ne stavo lì in quelle ore inutili, immobile, con il libro appoggiato sulla pancia. Con il trascorrere del tempo il dorso del volume reclinò, attirato al suolo come io ero vinto dal sonno. Infine le pagine si chiusero e mi addormentai, precipitando nel buio.

...

...

Il battito del sangue che dapprima sentivo forte e regolare si affievolì fino a spegnersi, e il nulla avvolse il mondo, compatto. Pensavo d’essere solo, d’essere qualcosa al di là, al di là del presente. Non capivo se esistevo davvero, o se stavo nascendo sotto altra forma. Mi sembrava d’essere guidato da una voce calma. Laggiù, si apriva una specie di varco, come una finestra; affacciandomi, ero forse arrivato. Arrivato dove?

Non vedevo nulla, immedesimato in una storia che non conoscevo, lasciandomi trascinare senza muovere un passo. All’ultima domanda - dove? seguì una pausa lunghissima. Mi rifiutavo di ammettere d’essere in qualche posto, lì, nel buio. Eppure, gradualmente, sentivo che le mie mani, che un attimo prima non sapevo di avere, premevano contro una parete. Ero rinchiuso in una camera senza luce?

Toccai il pigiama; non era il pigiama che avevo addosso, sembrava piuttosto qualcosa d’altro, il maglione e i pantaloni che portavo quando...

Cercai di vedere se le lancette dell’orologio che avevo al polso brillavano ancora, ma inutilmente, perché di fronte a me iniziava a delinearsi una fessura, e io non mi accorgevo di quanto era distante, né potevo calcolare la sua ampiezza. Era un filo bianco che calava dal cielo per salvarmi dalla notte.

Allungai un braccio, e questo si accese tutto di quel magnifico colore. Raggiungendo l’apertura, pigiai le dita contro i bordi; il taglio era divenuto una mezzaluna che continuava ad aprirsi grazie ai miei sforzi. Improvvisamente, il congegno che la manovrava si arrese e io caddi, attraversando per un attimo un liquido intriso di materia chiara, forse calce. Solo allora notai che i miei occhi erano chiusi: non li avevo aperti mai.

Mi guardai intorno. Ero vicino a un fiume, valicato da un enorme ponte in ferro e acciaio. Due piloni piantati nel greto sostenevano la capriatura, e le correnti si frangevano là dove spuntavano le basi, nascoste da erbacce. La struttura sembrava solida, anche se la ruggine la ricopriva in molti punti.

Scelsi di seguire la strada diretta al ponte, per oltrepassarlo e controllare se si scorgeva qualche casa, dalla parte opposta della pianura. Il viottolo si fermò appena prima delle travi. Mi accorsi che l’intelaiatura non conteneva una strada, e per un istante mi illusi che fosse costruita solo per condurmi sull’altra riva: era così sproporzionata e inutile... Credevo ancora di sognare. Sono rimasto fermo un poco, esitando, intorpidito dalla bella giornata di sole.

Avrei preferito attendere il passaggio di una macchina, tentando di avvicinare una presenza umana, ma questo non sembrava molto probabile; mi spinsi dunque verso il centro del fiume, arrivando stanco dopo un chilometro di cammino. Mi riposai all’ombra, finché un rumore sordo non risvegliò la mia curiosità. Chinandomi dalla balaustra verso l’acqua, vedevo uno spettacolo incredibile: centinaia di isolotti fatti di tronchi e di alghe ostacolavano il libero corso dell’elemento che li circondava, forzandolo a dividersi in torrenti che, resi impetuosi dal passaggio stretto, si annodavano in gorghi e mulinelli prima di trovare la via verso oriente, là dove una barriera di vapore faceva supporre l’esistenza di una cascata di cui invece non si avvertiva affatto il fragore. E le due rive si allontanavano rapidamente l’una dall’altra quasi a formare un cono, un estuario impossibile; impossibile, perché se là in fondo c’era un lago o un mare non si spiegava allora la violenza sempre crescente della corrente, che sembrava voler strappare via anche il ponte, e me, che aspettavo seduto nel mezzo. Allora mi voltai.

Si avvicinava una figura. Era un ritratto del tormento, una maschera che nascondeva un’inquietudine assurda. Pensai all’attimo di incertezza che a volte capita quando diciamo frasi senza essere sicuri del loro significato, e le affidiamo al futuro senza che siano mai state per noi vero presente. Leggevo nel fragile aspetto di quella persona l’avvicinarsi veloce di un’angoscia certa, e volevo svegliarmi, tentare di sparire per riemergere, dopo. Ma era inutile.

Non potevo che affrontare la situazione, preparandomi a domandare qualcosa a chi mi veniva incontro. Un mucchio di stracci gli nascondeva quasi completamente il corpo, e una qualche superbia era evidente nel suo incedere. Il colore della pelle tendeva a una tinta scura, che diventava però bianca sulle mani e sui piedi, in particolare là dove le rughe erano più fitte. E la luce del sole, trovandosi ormai alla massima altezza, gli scivolava addosso dalla testa in giù, senza penetrarlo. Non parlavo: intorno ai lembi della sua veste il paesaggio si raggrinziva come se, assorbito dalla macchia nera, lottasse invano per ottenere un attimo di vita.

In realtà, erano i miei pensieri che si precipitavano su di lui, affascinati dall’assenza di gesti dello sconosciuto. Avrebbero voluto riempirlo, colmare quel buco; ma, incapaci di osare tanto, si limitavano a sparire senza lasciare traccia. Cercai di interrompere l’incantamento, e girai intorno al viandante liberando il suo cammino. Lui passò oltre. Per un attimo ritornavo ad essere felice.

Vedevo altra gente, lontano: una macchina procedeva lentamente sull’erba e due bambini correvano davanti, divertendosi a disegnare un percorso. Il bambino con la maglietta blu urlava alzando le braccia, tuffandosi per radere gli arbusti che ancora separavano l’automobile dall’inizio del ponte. Fu il padre a fermarlo. La comitiva deviò, invertendo il senso di marcia. Nella direzione opposta, il forestiero stava per raggiungere un gruppo di alberi che forse nascondeva una strada asfaltata. Decisi di seguirlo. Affrettandomi, mi accorgevo di scoprire continuamente qualcosa di nuovo, di cui non ricordavo nulla.

Certamente sentivo che la marcia era obbligata, quasi stessi viaggiando su un paio di rotaie; così vedevo anche che tutto cambiava, che si aprivano e chiudevano contemporaneamente mille prospettive diverse. Ero condotto a percorrere una sola linea; ogni punto rappresentava l’intersezione di infinite rette, e al termine di ciascuna scorgevo un piccolo panorama in fuga, un nucleo di oggetti che esisteva senza di me. Se non avessi avuto tanta fretta sarei forse riuscito a saperne di più, a conoscere di più. Perché scappavo?

Non ero disperato, comunque. Vedevo un villaggio, e il pellegrino misterioso che mi precedeva sostò accanto alle prime case. Lo imitai, trovando finalmente il coraggio di chiedere "Avreste la cortesia di spiegare chi siete? Abitate qui? In quale paese ci troviamo? Si può dormire, mangiare?"

Aspettai. Dopo qualche minuto di silenzio lui iniziò a parlare. Rispose che non intendeva rivelarmi nulla perché era stanco di farmi da guida. Indicò, lontano, una piazza, bisbigliando che di lì a poco sarebbe arrivata gente; mi consigliò di fuggire, quando le tre finestre di una certa casa si fossero accese.

Così si concluse il colloquio, e io scivolai via senza salutarlo, temendo le sue parole, ubbidiente agli ordini che sembrava avermi dato. Aveva detto il vero. Raggiunsi la piazza, lastricata da cubetti di marmo disposti secondo circonferenze che decrescevano man mano verso il centro. Colorate di nero, azzurro e viola, formavano un mosaico che riproduceva il mare, azzurro in superficie e viola sul fondo, un mare abitato da grossi pesci neri che nuotavano contorti nella geometria dei cerchi. Alla luce ormai mancante della sera si era sostituita la luminescenza di una corona di lampioni tanto alta da sormontare i tetti delle case, che delimitavano le strade e le forzavano a confluire tutte lì, nel loro alveo naturale. Non c’era gente, però. Il luogo restava deserto, e anche le porte e le imposte delle finestre erano chiuse, uguali le une alle altre, tranne...

Un fregio dorato tagliava obliquamente una facciata; il pittore aveva forse voluto rappresentare il vento, incidendo una lunga elica fatta di dieci corde intrecciate da cui spuntavano foglie, piume e granelli di polline giallo. Alla sommità, la striscia si divideva; un ramo proseguiva verso la punta, l’altro ricadeva avvolgendo in tre volute diverse altrettante finestre decorate da un archetto in legno, tripartito. Mi voltai, spaventato da un frastuono improvviso.

Una folla imponente si stava riversando nello slargo, che l’accoglieva come una coppa accoglie l’acqua. Ero sconcertato, perché mai in vita mia mi ero trovato di fronte a un così numeroso gruppo di persone, spinte da una gioia che si manifestava tanto liberamente.

Avevano indossato gli abiti delle grandi feste e li avevano scelti gareggiando in sfarzo, cercando la combinazione più variopinta. Ognuno parlava in tono concitato, gridando per farsi capire, afferrando le mani degli amici per ottenere ascolto. Qualcuno ballava agitando campanacci di ottone, altri si radunavano in capannelli rumorosi intonando cori.

Mentre venivo ricacciato all’estremo limite della piazza dalla furia dei nuovi arrivati notai che dieci volonterosi stavano erigendo un palco, utilizzando tubi e travature uscite da uno scantinato. Facevano in fretta, ma erano incitati a gran voce dagli uomini rimasti inoperosi. Mi sembrava di intendere frasi prive di senso, che accennavano a un governatore, all’anno nuovo e ad una terribile punizione. Speravo che nessuno badasse alla mia presenza. Per distrarmi, mentre il tempo passava, guardavo un teatrino organizzato sotto la tribuna.

Recitavano brani di commedie diverse; protagonisti erano sempre un re e una regina, che a volte si amavano, altre volte si uccidevano, altre volte ancora sospettavano un tradimento. Spesso l’azione si risolveva in farsa, ma talvolta il dramma, nutrito da lunghi monologhi, irrompeva crudelmente lacerando la vita dei poveri regnanti. Allora, tra la folla seduta intorno agli attori nasceva spontaneamente il pianto, e una nenia di lamenti scandiva la fine della rappresentazione. Qualcuno provvedeva subito a introdurre un pezzo comico, rivelando così l’intenzione di non turbare in modo eccessivo l’animo del pubblico.

Stavo sorridendo allo scherzo di un buffone quando una voce che veniva dall’alto intimò il silenzio. Spauriti, i commedianti si ritirarono, scomparendo in mezzo al popolo che levava gli occhi al cielo. Sul palco, un uomo né giovane né vecchio stava alzando le braccia, esigendo sottomissione. Un faro era stato acceso e puntato sul suo viso, un viso duro, solcato da molte cicatrici, tanto pallido e intenso da unire in sé la forza del guerriero e l’ascesi del sacerdote. Parlando, accennò a fatti che non potevo conoscere.

Capivo comunque che stava enumerando colpe e delitti primordiali, e disgrazie inestinte derivate da queste colpe. Il discorso divenne sempre più concitato, l’eccitazione cresceva; dalle sue labbra incominciarono a cadere le accuse e gli insulti, come grosse gocce di pioggia. Chiamava in causa uno alla volta i suoi ascoltatori, facendo il loro nome. Oltraggiando vigliaccamente chi interpellava, lo additava al disprezzo altrui con tanta astuzia che, in quell’istante, quella persona sembrava essere l’unico responsabile dei mali della città. Quindi, mentre il poveretto piangeva strisciando a terra, senza nemmeno cercare pietà, quella specie di giudice supremo lo abbandonava al suo dolore con un cenno brusco, passando a una nuova vittima che dileggiava con pari determinazione.

Continuò così finché non decise di farla finita. Rivolgendosi all’assemblea pronunciò un ultimo proclama, incendiando un taglio di tela.

"Queste fiamme sono oggi il simbolo dell’inferno futuro. Prendetele!"

Scagliò dal palco il panno, forse intriso di benzina, e il fuoco terminò il suo volo sulle spalle di una disgraziata dall’aspetto di mendicante. Lei urlò, perché la stoffa le bruciava i capelli, le ustionava il collo; si portò le mani alla nuca, tentando di reagire, di spegnerla. Ma non fuggiva, né chiedeva aiuto: da sola, rannicchiata sul selciato, si affannava a salvarsi mentre il suo vestito si sfilacciava in braci. Svenne prima che le fiamme si estinguessero, e dal suo corpo nacque un filo di fumo leggero che saliva nell’aria notturna.

Allora vidi che in terra erano apparsi tre riquadri luminosi. Le tre finestre si erano accese, e l’evento spezzò il silenzio. Gli abitanti, dimenticando la scena crudele, si chiedevano se quello era l’annuncio di una rovina prossima, o se era invece un segno mandato dal cielo a indicare l’esistenza di qualcuno che li avrebbe guidati . Sentivo dire "Come i nostri padri..."

Nulla avvenne, finché non giunse un canto melodioso a tre voci, due toni di soprano e un tono di contralto. Il canto non era accompagnato da strumenti, solo da un dolce suono di campana. Rapito dall’armonia dell’imprevisto concerto, non mi sorpresi della dedizione che la gente manifestava né delle lacrime che, rigando le loro guance, sottolineavano i passaggi più commoventi. Ben presto alcuni, affascinati, si accostarono al portone della casa delle tre finestre e la massa si distese a seguirli, compatta. Fu un attimo. Centinaia di corpi si spinsero contro gli stipiti per sradicare il legno che li divideva dalla musica. Mi accorsi allora della prodigiosa estensione e dell’intensità sempre crescente di quelle voci. Osservavo anche che i vetri stavano vibrando, mentre un’ebbrezza ingiustificabile si diffondeva, e anche quelli che non partecipavano all’assalto dimostravano la propria follia stringendosi attorno all’abitazione assediata. Poiché la porta non cedeva, costruirono una piramide umana, e un ragazzo agile e svelto venne issato fino in cima.

Vidi che stendeva le braccia per aggrapparsi a uno dei balconcini, decidendo infine di saltare, cercando una presa sull’archetto che faceva da cornice alle tre aperture. Sbagliò, precipitando al suolo, mentre l’intera torre crollava, sfinita dal fallimento. Mi coprivo le orecchie: la forza del canto era enorme e rendeva assolutamente inudibili i lamenti dei feriti. Il palco era vuoto e l’oratore scomparso; me ne andai, temendo che la rabbia della folla già completamente impazzita si sfogasse sui pochi che non avevano contribuito all’impresa.

Arrivando alla periferia del villaggio, sentivo il fragore estinguersi e la campana tacere. Spossato, mi coricai in una piccola grotta. Speravo di riposare tranquillo, e subito il sonno mi prese.

Al risveglio, qualcosa in me tentò di riesaminare quello che mi era capitato, quasi mettendo insieme frammenti di ragione perduta in un mondo che non potevo riconoscere. Di sogno non c’era più nulla, non c’era nulla della fantasia lucida che invade chi si addormenta e ricostruisce l’universo a suo piacere, estraniato da questo ma pur sempre suo autore. Era la freddezza delle visioni a cancellare in me il proposito di ricondurre i fatti entro un recinto consueto.

Il colpo di grazia mi ferì proprio allora, quando compresi che dal sonno non emergevano le pareti umide della grotta. Ero a contatto con un’architettura chiara, un luminoso fantasma di palazzo paragonabile all’ala di un gabbiano trasparente, immobilizzato in alto, accanto al sole.

Mi era già accaduto di venire abbagliato dalla luce, al risveglio, dopo una nottata pesante. Ma gli occhi erano sempre riusciti ad abituarsi dopo pochi attimi di smarrimento, al contrario di quel che avveniva nel palazzo incantato. Mi chiesi se stavo vivendo dentro una favola, e se il mio sogno si era segmentato in tante parti distinte; una mancanza si nascondeva nei miei pensieri, un vuoto che mi impediva di dimostrare il sentimento in modo adeguato, rivelandosi un punto invincibile. Quella luce mi ricordava il paradiso.

Stranamente, associavo all’immagine di un dio impressioni di piacere, quasi aspettando l’apparizione di donne stupende, vestite d’aria, che mi corteggiassero. Era un desiderio che si intensificava ma che, certo, nascondeva ancora la solita mancanza. Era difficile spiegarlo a me stesso; non ero in grado di vedere cose fatte di carne, corpi, presenze individuate. Solo la luce esisteva, incredibilmente sensuale, più di ogni altra realtà.

Era un muro, erano molti muri intrecciati, e io non capivo cosa li teneva in piedi, cosa mi costringeva a combattere per distruggerli, lamentandomi. Era sempre il punto invincibile la base di tutto. Perché, se sognavo, una mano amica non veniva ad accarezzarmi? Perché nessuno mi aiutava, e non arrivava una donna a propormi qualcosa? La luminosità intanto non diminuiva, benché un tremito in lei ci fosse, e una specie di riverbero scendesse a intervalli regolari lungo l’imbiancatura ossessionante che restava dietro al mio sguardo, in agguato. Sentivo ancora delle voci.

"Cadere, cadere. Essere in perdizione e in perdizione restare. Superare il male per espiare. Espiare per ritornare al male."

Pensai di trovarmi alla mercé di un delirio religioso, e mi disperavo senza piangere, ricordando con nostalgia gli ammonimenti del maestro: li avevo trascurati, sfidando il mondo a precipitare. Ero ormai schiavo della realtà, divisa in spicchi come una carta geografica sfasciata; forse le anime della natura combattevano in me, e io non ero che un loro riflesso. Agitavo le braccia per scoprire se, giunto a tanto, potevo almeno incontrare una seconda apertura.

Così, lo splendore si franse e le tre finestre della scena precedente si ripresentarono; ma il loro interno sembrava dipinto di blu, color notte. Ero nella casa che aveva provocato la follia e la rivolta della gente del paese. La vita si era rimessa in moto.

Non fui sorpreso dall’apparire improvviso di un gruppo di bambine in festa che trascinavano con le piccole mani cerchi di ferro leggero, girandole di carta e coroncine da damigella. Ogni cosa era circolare. Le vidi fare un girotondo senza canzone, mentre una di loro mi fissava sorridente con una tale curiosità negli occhi che non mi trattenni dall’andarle vicino e, chinandomi, ricambiare il suo affetto. Le chiesi "Bambina, mi sai dire di chi è questo palazzo, e come si fa a uscire?"

Era una domanda molto semplice; lei sembrò stupirsi e mi toccò, quasi per sincerarsi della mia esistenza. Aveva la pelle rosa come le bambine dei sogni, gli occhi azzurri e innocenti. Mi rispose, saggia, "Il palazzo non è di nessuno, ce lo danno per giocare finché non siamo diventate grandi. Di là ci sono le grandi. Perché vuoi uscire?"

In quel momento una sua amica tentò di spingere a tutta forza il cerchio enorme che stava intorno al suo vestito. La scossa che gli diede bastò a farlo volare. Il cerchio non ritornò giù ma, sospeso in aria, restò immobile quasi fosse un’aureola gigante che costringeva le piccole a guardare in alto. La mia bambina non venne turbata dal miracolo: ero io il suo gioco più bello. Per la prima volta sentivo che qualcosa mi stava commovendo. Non ricordavo di aver mai avuto, quando ero anch’io bambino, una compagna tanto graziosa. Pensai che questo mi poteva riconciliare con me stesso, riempire la mancanza, sgretolare il muro. La volevo portare con me, e la presi in braccio. Era un peso leggero, nient’altro che il fruscio della stoffa che la copriva. Gridò di felicità, approfittando subito della sua nuova altezza per infilarmi un dito in bocca. Ma il cerchio cadde e io, più spaventato di lei, le chiesi ancora "Cosa sta succedendo? Perché il cerchio è caduto?"

Era evidente, la bambina non comprendeva quelle parole, le trattava come un nuovo balocco privo di forma, un puro suono. Purtroppo, non riuscivo ad essere tanto assente; mi ripetevo che una porta doveva pur aprirsi, nonostante lo spazio digradasse verso il solito bianco, e nemmeno di spazio si poteva parlare. Ma la presenza della piccola fra le mie braccia mi avrebbe consolato.

Purtroppo, questo non avvenne. Mi accorsi che qualcosa cambiava, e presto fui costretto ad ammettere che la bambina stava diventando leggera. Pur conservando tutto di se stessa lei diminuiva, quasi assottigliata da una forza esterna. "Non avere paura, ti tengo stretta. Non ti lascerò."

Così le dicevo, tentando invano di rassicurarla; invano, perché lei scomparve, come tutto scompariva in quella notte assurda, che mi impediva di conservare anche il minimo dettaglio. Le bambine correvano lontano. Vidi una porta che sembrava reale e, toccandola, sentivo che era proprio di legno. Anche il legno però poteva disfarsi, al contrario dell’angoscia che stava definitivamente controllando i miei pensieri.

Accostandomi, ammirai il mio riflesso in uno specchio; un presagio, una voce interiore mi rivelava un altro confronto. Lo specchio si oscurò, coperto da una schiena di donna. Si mostrò davanti a me come una nuvola, che assorbe ogni raggio di un sole ormai in declino. Capivo che essere donna significava proprio questo, raccogliere il nostro ardore sparso, unire la decadenza a quel che rimane, assolvendo le nostre intenzioni dal terrore di precipitare e sbagliare, arretrando rispetto ai padri e al passato.

Dire che fosse meravigliosa è inutile; era l’occasione che mi costringeva a esprimermi così, era il modo della sua bocca piccola, socchiusa ad appoggiare le labbra l’una sull’altra, quasi muovendo un dolce rimprovero all’immagine dello specchio, che ora si divideva fra me e lei. Era alta, i capelli neri e corti pettinati alla paggio, ma segnati da un taglio trasversale che dava carattere alla sua figura, sottolineando un piglio da ragazzino studioso, una determinazione che si rifletteva nella sua iride bruna.

Quel tanto di maschile che esisteva nel suo aspetto mi affascinò ancora di più; la paragonavo a certi personaggi travestiti delle commedie antiche, fanciulle che viaggiano mascherate e imparano a essere amiche dell’uomo prima che sue amanti. Diventano amanti all’improvviso, smessi i vestiti di un tempo e abbandonati, pur conservando quel tratto esperto che nasce dall’innocenza estrema quando, come argento vivo, cade nell’acqua fredda e si fa sostanza.

Mi avrebbe parlato? Abbandonai l’idea d’appartenere a un sogno e, immaginando di giocare con le parole, volevo proporle di sognare insieme, sognare con lei per imparare qualcosa. Mi avvicinai, notando che una camicia bianca era la sua unica veste: arrivava dove il ginocchio segna la gamba, appena sopra. Mi guardò. Quegli occhi incrociavano la mia anima; sulle sue labbra c’era una patina lucida, forse il residuo di un lungo bacio. Non avrei saputo tollerare il silenzio.

Disse "Non sarei mai riuscita a prevedere il tuo arrivo così esattamente, se non ti avessi sentito giocare con le bambine. L’amore arriva inatteso, non credi?"

Risposi, dimenticando l’irrealtà delle pareti bianche, "L’amore? Allora tu mi ami."

Lei era tanto vicina che avrei potuto facilmente stringerla, toccarla almeno, estinguere la stanchezza di quel viaggio incredibile. Ma non facevo nulla, ancora paralizzato da una discordia interna. Lei sembrava dispiaciuta, un attimo prima di arrendersi definitivamente. "No, non posso dire di amarti. La tua è un’illusione. Nessuna donna può concedersi, se non vede che l’uomo si concede il rischio."

Il rimpianto mi tormentava. Ero costretto a perdere anche quell’ultima speranza, lasciando che scomparisse nella zona morta? Solo parlando pensavo di poterla di nuovo attrarre. "Non ti conosco ancora, non so il tuo nome. Sono così preso da te che vorrei scordare tutto, affidarmi alla passione. Anche se mi trovi ora tanto smarrito, privo di punti di riferimento, io sono romantico. Se ci fosse un ostacolo, un rivale, lo annullerei, credimi. Ma..."

"Perché un rivale? Devi forse fingere? Ti fai bello dell’idea di un combattimento; ma un dito non lo muovi, verso di me."

Lo specchio sembrava felice di questa quasi lite. Mi ricordai di quanto mi piaceva, ammirando altri che tentavano di amarsi tra la gente, verificare la realtà del loro sentimento, e se davvero erano capaci di scordare le distanze. Cercavo di essere io stesso uno specchio, orlato di una cornice di similoro, condannato a replicare le cose che rientravano in uno stretto giro di angoli, disinteressato a un possibile paradiso.

"Sì, sono uno stupido." Non mi aiutava, purtroppo, la sua camicia. Aveva due bottoni aperti, in alto, e la pelle scendeva verso il basso, verso immaginarie conclusioni di voluttà. Capiva.

"Vorresti forse che mi togliessi qualcosa? Ti smuoverebbe un gesto? Oppure vuoi essere tu a farlo, quel gesto?" Mi provocava, respirando a ritmo quasi affannoso. Io, vinto dalla felicità del potere che mi stava regalando, sbagliai. Lo specchio riportò un’espressione di piacere intenso sul mio volto, e lei mi girò le spalle. Prima che potessi riprendere un atteggiamento abbastanza freddo, un secondo personaggio venne a spezzare l’attimo.

Era una signora dalla faccia simpatica, una di quelle governanti compiacenti che diventano mezzane delle loro padrone. Mi salutò con un cenno della testa e strinse per tre volte una chiave immateriale, mostrando infine una mantella che le servì a coprire il corpo immacolato del mio folle amore. Sì, mi accorgevo di amare quella donna, la donna del palazzo bianco. Lei, forse, aveva scatenato la rissa furibonda; potevo supporre che fosse davvero una principessa, la mia principessa bianca.

Le chiesi, "Dimmi almeno come ti chiami."

"Mi chiamo Gloria."

Risi in modo sciocco, credendo di poter affermare che quel nome corrispondeva sicuramente a un sogno. Ma, guardandola meglio, pensavo che lei invece non era affatto tale; non c’era nulla di fantastico nella devozione che usava cospargendosi il volto di una crema che la rendeva ancora più pallida, una crema che l’aiutava ad affrontare la notte.

Confermando le mie riflessioni, si distese sopra un letto a baldacchino e disse "Resta pure. Ora la mia amica leggerà qualcosa, per farmi dormire. Ma non voglio che tu vada via; avremo ancora tanto tempo, domani, per spiegarci, per tentare d’essere uniti. Ti desidero, più del sonno."

Ascoltandola, per un attimo pensai di cadere sul letto, tra le lenzuola, e trascorrere tutta la vita lì, insieme a quel miracolo. Fu un riflesso condizionato a fermarmi, quasi si fosse stabilita fra noi una tensione statica, un’impasse di riconoscimento.

La donna aveva nelle mani un libro. Mi guardò, aspettando che fossi io a dare inizio alla lettura; la principessa sembrava essersi già assopita, i capelli sparsi sulla fronte e sulle guance. Dissi "Sì, incominciamo pure."

La favola parlava di due innamorati che si chiamavano Dario e Francesca. Non si sapeva se erano giovani o vecchi. Per ragioni misteriose, erano separati da un fitto bosco che nessuno era in grado di attraversare. Si erano perduti, e si disperavano dubitando di non rivedere mai più l’amato, perché nemmeno le loro voci riuscivano a incontrarsi; ma entrambi erano certi che l’altro era là, nella medesima posizione, piangendo, soffrendo e aspettando.

Dario, ingegnosamente, decise di comunicare usando gli animali della foresta come messaggeri, pensando che le creature nate nel bosco potessero percorrerlo liberamente. Affinché Francesca riconoscesse i segnali d’amore, distinguendoli dagli altri fenomeni naturali, Dario elaborò due metodi diversi. Faceva sì che i segnali arrivassero seguendo un certo ritmo, da lui continuamente composto e variato; inoltre, accoppiava cosa a cosa, nella speranza che lei notasse le strane unioni e comprendesse le parole che formavano il discorso dell’amato.

Dai cespugli uscivano così porcospini con la schiena coperta di chicchi di granoturco, volpi che portavano rami d’edera annodati alla coda, rami con foglie dipinte dal succo di bacche rossastre. L’invenzione sembrava funzionare. Francesca interpretava i messaggi risolvendo il loro codice; e costruiva a sua volta timidi tentativi di risposta, vaghi e geometrici voli di uccelli, disturbati da qualcosa là, al limite del bosco.

Ma lo stile di Dario divenne con il passare del tempo sempre più complesso, alla ricerca di concetti nuovi, mentre le possibilità di combinazioni elementari si andavano esaurendo. Per Francesca le difficoltà aumentarono; il caso confondeva come una divinità malvagia i significati puri, nascondeva i collegamenti semplici, impediva le facili interpretazioni, costringeva il pensiero a uno sforzo maggiore, ad una gara sfiancante. Molti degli animali che apparivano senza portare alcun contrassegno erano forse anche loro parti del gioco, perché, a ben guardare, ciascuno era diverso dagli altri della sua stessa specie; così la corteccia che cadeva in frammenti e lo scroscio di pioggia che batteva seguendo un’unica direzione erano forse altri elementi della lettera d’amore.

Ma sembrava assurdo attribuire tutto a una volontà sola. Infine, accaddero fatti nuovi. Nulla dava a Francesca la certezza che Dario restasse ancora a parlare al di là degli alberi, anche se, ad ogni istante, lei poteva scorgere prove della continuità del racconto. Il suo cuore cambiò, impercettibilmente. L’amore scomparve, restando soltanto la capacità di vedere; sparita la prima intenzione, rimase il desiderio di accogliere quello che proveniva dalla foresta, senza più risposta. Intanto, dall’altra parte del bosco, Dario non era più sicuro che i suoi pensieri, divenuti frammenti di realtà, conservassero traccia del movente iniziale, né che trovassero qualcuno pronto a riceverli. Sconfortato, si chiedeva se la nascita di quelle rappresentazioni non fosse un’invenzione sterile, fabbricata ad arte per consolarlo della sua giornata vuota, una giornata che non aveva più l’amore. Ma decise di continuare, non sapendo perché.

Qui finiva la storia. Ma ne esisteva anche una seconda versione, che raccontava come alla prima coppia di amanti se ne sostituì un’altra vagante nel bosco, e poi una terza, e un’altra ancora, e come tutti questi uomini e donne producessero segnali, scambiandoli senza sapere per certo chi era colui che li mandava e chi il destinatario, e di chi fosse l’amore.

La donna terminò così; io mi ero già accorto dal tono della voce declinante, alcuni attimi prima, che era tempo di osservare il viso di Gloria per scoprire se davvero lei voleva cedere al sonno. No, era sveglia, e un leggero movimento delle gambe sotto il lenzuolo mi fece capire d’essere atteso.

Disse "Bene, amica mia, questo racconto mi è piaciuto molto; proprio per la sua bellezza non mi sono addormentata. Ora va pure. Voglio rimanere sola con lui."

Le sussurrai "La notte è lunga."

Rispose "Sì, lunga."

Cosa mancava ormai perché tutto finisse, perché la natura si unisse ancora una volta al sovrannaturale, l’unico nostro vero mistero? La governante se ne era andata, trascinando con sé il grosso libro. Toccai il cuscino con le dita, mi chinai, e stavo già immaginando il bacio quando un sonno tremendo mi tolse ogni forza. La mia volontà era sconfitta e schiava del buio, quel buio invasore che scendeva dalle tre finestre per prendere possesso dell’ultima isola di luce sopravvissuta, superando facilmente il muro della mia anima.

Ma il pericolo era diverso; non si trattava solo di un momentaneo perdersi, perché sentivo Gloria che piangeva, gridando "Così, tu mi lasci per sempre." Per sempre. Sì, ora era tutto chiaro. Un incantesimo mi costringeva a passare di sogno in sogno; ogni volta che mi addormentavo penetravo in un’altra di quelle scatole cinesi, abbandonando per sempre ogni vita precedente. Era la maledizione conseguente al mio dubitare dei sogni, dubbio che forse aveva smosso l’ira di un demone della notte. Era inutile resistere.

Vidi l’immagine di Gloria imperlarsi di un vecchio e falso chiarore, come lo schermo di un tubo catodico che si fa argenteo un istante prima di esplodere. Urlai, "Gloria."

Ma era solo un patetico sfogo. Dormivo, e mi risvegliai in un luogo completamente diverso. Era ancora un palazzo, ma non più austero e bianco come il primo, bensì adorno di stoffe preziose, colorate in quantità eccessiva. L’arredo intorno a me aveva l’aspetto delle scene di gusto orientale usate dai teatri di provincia per rappresentare improbabili harem. Ma sentivo di non avere cuore sufficiente per scherzare.

Un tavolino d’oro stava nel mezzo, circondato da cuscini; scritte arabe decoravano di ghirigori un soffitto da cui pendevano lampadari reggenti a cerchi concentrici diversi ordini di candele accese. L’odore di fumo e di cera bruciata rendeva l’atmosfera soffocante, impedendomi quasi di conservare lucidità e ironia. Notai due grandi tende e un cordone che portava appesa, in cima, una campana di ottone. Non pensavo di chiamare qualcuno in soccorso. Capivo che nessuno mi poteva salvare; la ferita nata dalla perdita della principessa mi spingeva a rimanere solitario, come se il male che mi aveva colpito potesse venire curato da giorni e giorni di abbandono.

Ma non potevo pretendere d’essere lasciato in pace; proprio mentre mi chiedevo in quale misura le creature che incontravo fossero frutto della mia odiosa immaginazione, dalla tenda rosso porpora uscì un uomo che prima si inchinò e poi si prostrò al mio cospetto. La sua pelle, scura quanto quella di un abitante dei deserti australiani, mi consentì subito di riconoscerlo; era la stessa figura che mi aveva guidato verso il villaggio all’epoca del primo segmento del sogno. Però, sembrava cambiato; era umile, sembrava aver nascosto i suoi desideri tenebrosi.

Capivo d’essere importante per lui; ora potevo ordinargli di rispondere, perché in me stavano crescendo inesorabilmente l’autorità e l’orgoglio. Gli chiesi "Chi sei? E chi sono io?" Lui alzò la testa, rivelando uno sguardo per nulla sottomesso, anzi malvagio. Sospettai di aver trovato finalmente chi ordiva la trama dell’incubo, e stavo già pensando al modo di usare il mio potere per liberarmi, quando ascoltai la sua voce. Parlava senza muovere le labbra.

"Mio signore, perché chiedi questo? Tu sei il nostro imperatore."

Un residuo di saggezza continuava a proteggermi. "Io? Così giovane?"

"Sì, giovane, ma già forte e esperto. Cosa comandi?"

La forza mi possedeva davvero. "Non hai ancora detto chi sei."

"Sono il mago di corte. Devi rivolgerti a me quando la tua forza non basta. Addio." Sparì, sfiorando appena le tende.

Avrei cercato di inseguirlo, per costringerlo a dichiararsi finalmente amico o avversario, se non me l’avesse impedito l’arrivo di una folla variopinta che mi festeggiava. Ballavano e cantavano, dimostrando il loro affetto; e donne sorridenti tentavano anche di avvicinarsi, e qualcuna riusciva perfino ad accarezzarmi. Era tanto dolce quella sollecitudine, quel volersi donare a tutti i costi, che mi induceva quasi a seppellire i dubbi. Ma, con tono che certo non si confaceva a un re, fermai un cortigiano per sapere se c’era nella reggia una principessa dai capelli neri e corti. Lui mi guardò addolorato, sussurrando che la mia sposa era morta, misteriosamente.

Questo mi fece ritornare bruscamente il ragazzo che ero, il ragazzo che sono. Mi accasciai sul trono, temendo che quelle mura fossero di cartapesta e che null’altro al di là ci fosse, e comunque nulla in grado di compensare la mia perdita infinita. La folla arretrò, smarrita. Le donne che prima mi blandivano cominciarono a singhiozzare, come persuase da uno stesso rimpianto. Tutta la corte si disperava; gli uomini sembravano bambini, e io stesso sprofondavo nel desiderio infantile di avere, di possedere, di toccare a qualsiasi prezzo.

Fu un suono metallico, scenograficamente, a destarmi. La folla fece ala all’arrivo di qualcuno che, a giudicare dalle armi, doveva essere un soldato. La sua lunga spada era rossa di sangue; dalla borsa spuntava un ciuffo scuro, sporco e morto. Il soldato rovesciò la sacca, e una testa mozzata rotolò di fronte a me. Mi stupì la mia stessa freddezza, pronunciando una frase che mai avrei pensato di dire: "È un ribelle, vero?"

"Sì, mio signore. La rivolta è stroncata, ma l’esercito marcia verso la capitale e fra pochi giorni sarà battaglia. Siamo perduti, se non li affrontiamo subito."

Lo guardai. "Subito? Chi è il mio generale?"

Il soldato sembrava sconcertato. "Mio signore, tu solo ci puoi guidare. Tu solo, in tutto il regno, conosci le arti della guerra."

Mascherai il mio terrore imponendo a tutti di allontanarsi, e di nuovo restai solo nella stanza del trono. Era necessario affrontare la prova; il mio animo oscillava tra la sicurezza degna di un imperatore e il sentimento di assurdo che io, in quanto ero ancora io, non potevo nascondere. Le mie uniche battaglie erano state i giochi di un bambino, e non riuscivo a intuire se il sogno mi offriva una via di uscita. Ma la realtà, quella realtà, esigeva il confronto.

Corsi, superando in un istante le migliaia di porte, di corridoi e di saloni del castello, alla ricerca dell’unico essere che contava infine qualcosa, il mago di corte. Lui si materializzò non appena mi fermai, e attese una richiesta, una supplica. Cercando di far valere tutta l’assoluta importanza della mia carica, gli intimai di rivelare se esisteva qualche incantamento capace di trasformarmi in vincitore, o almeno utile a farmi apprendere in poco tempo le virtù necessarie a sbaragliare il nemico. Senza parlare, il mago mi mostrò un filtro violetto. Arretrai, temendo quel colore che mi ricordava liquori bevuti da vecchiette raccolte a salotto, gocce di zucchero sulle labbra anch’esse viola di rossetto, in un dissimulato concilio di streghe del nostro tempo.

"Mio signore, non avere paura. Questo distillato ti aiuterà a vincere. Vincerai qualsiasi battaglia, finché..."

Il sortilegio imponeva i suoi patti. "Finché..."

"Finché non lascerai che il sonno ti prenda. Il sonno è l’unica cosa che riesce a distruggere il potere del filtro."

Certo, questo già lo sapevo. In ogni frammento del sogno io ero davvero invincibile: la sconfitta nasceva dal desiderio di dormire, quella pausa che causava il passaggio da uno stato all’altro e mi impediva di raccogliere i frutti della giornata.

Decisi di costringere il mio avversario a tenermi sveglio e, vuotando la bottiglia, ordinai "Stammi sempre vicino. Risponderai alle mie domande, e questo allontanerà il sonno." Lui approvò.

Da quell’attimo in poi gli eventi si svolsero velocemente e i minuti persero coerenza. Organizzavo piani di battaglia assistendo alle sfilate dell’esercito, uscendo dalla città con le truppe, imperatore a cavallo. Costruivo il campo, tenendo l’ultimo consiglio di guerra sotto una grande tenda rossa, e il consiglio veniva interrotto da messaggeri che annunciavano l’avvicinarsi del nemico.

Venne così la prima notte. Quella notte parlai con il mago, che mi insegnò formule segrete; bevevo droghe che convertivano il cuore in strumento di raffinati piaceri della mente, rimanendo sveglio, rapito ad ammirare imprevisti passaggi del pensiero. Il giorno dopo il nemico attaccò. Respinsi facilmente i primi assalti, infliggendo a quell’orda oscura perdite tali da prosciugare il sangue di un intero popolo. Al tramonto, scomparvero.

Arrivò una seconda notte; la trascorsi raccontando i sogni che avrei voluto sognare, se fossi stato ancora un ragazzo qualunque, disteso ad affrontare nel suo letto placidamente l’alba. Ricordavo la principessa, descrivendo il bacio che avrei voluto darle; e vedevo me stesso vagare come un fiume, che percorreva il regno e attraversava la campagna, sfiorando la vita degli innumerevoli sudditi. Ripetevo "Ora, lei si china su di me e io noto un neo sul collo, e questo diventa una stella che compone lo zodiaco del suo corpo infinito. Viaggio, continuo a viaggiare, dentro quell’universo." Mi rispondeva solo il silenzio.

Il secondo giorno il nemico era più agguerrito. Erano barbari di diverse razze; quando li colpivo con la spada, osservavo i loro occhi piangere e mi stupivo dell’espressione compunta, quasi timida, che usavano per combattere. Migliaia di uomini erano a terra, sacrificati; scoprivo il volto di tutti, quasi li avessi incontrati ancora. E, mentre avanzavo verso una roccia che serviva da baluardo all’invasore, mi sembrava che qualcuno mormorasse il mio nome. Continuai a vincere fino alla nuova ritirata che contrassegnò il sorgere della terza notte. Ero più sicuro, ero un guerriero valoroso.

Sentendomi prossimo alla vittoria finale, approfittai di quel tempo di allucinato riposo per chiedere al mago una cosa che mi stava a cuore. Gli domandai perché doveva esistere in noi una seconda entità che diceva Io. Lui evitò di parlare. Fece semplicemente un gesto che era possibile interpretare in molti modi, ma che equivaleva forse a una risposta rimandata per sempre. Il sole apparve nel cielo, e il combattimento riprese; spinto dalla smania di vincere mi gettai per primo contro il muro quasi inerte di soldati.

I miei ordini tempestivi dividevano in tante parti le schiere avverse, frananti come terrapieni erosi dall’acqua. Vedevo il terrore nello sguardo di chi cadeva, e un rimpianto segreto mi fece perdere insensibilmente la misura, trascinandomi al centro della pianura sommersa. Fissai le braccia esanimi di uno sconosciuto trafitto da una lancia nel mezzo del petto, compiacendomi della dignità del suo morire. Quell’attimo di rapimento fu fatale; mi accorsi di essere solo e circondato, in pericolo di vita. Pensai che nessuno poteva sconfiggere il mio impeto, e d’istinto spronai il cavallo cercando una via di fuga.

Oltrepassando gli sbarramenti più vicini, trovai uno spazio aperto dove inoltrarmi; il cavallo corse per la prateria fino ad allontanarsi dal campo di battaglia, arrivando infine sopra una bassa collina da cui si dominavano gli eserciti. Mi pentii subito del mio comportamento assurdo e decisi di tornare indietro. Stavo già per farlo, quando mi vinse un sonno potentissimo e improvviso. Sognai, allora, una voce che mi diceva di non aver paura; mai mi era sembrato tanto bello poter dormire.

Al risveglio, tutto era finito; restavano nella pianura i cadaveri, gli animali uccisi, le armature frantumate, le frecce spezzate, e piccoli fuochi bruciavano lentamente mucchi di morti. Ero sicuro di aver causato la distruzione della mia gente; benché avessi ancora un lieve dubbio, una minima speranza, non osavo cavalcare verso l’accampamento per timore di scontrarmi con una giusta punizione. Il potere era per sempre perduto.

Aggirandomi tremante fra quelle rovine, stringevo in pugno un coltello, pronto ad alzarlo per togliermi definitivamente dall’incubo, verso la morte o altro, comunque lontano. Ma un ricordo mi trattenne, perché nel sogno avevo sentito qualcuno parlare. "Se vuoi conoscere il nome del tuo successore, cammina verso oriente. Sarà chi per primo vedrai."

Cercai di ubbidire a quella voce. Dopo una marcia di molte ore giunsi in un villaggio deserto, attraversato da un ruscello. Ero perplesso, e aspettavo che qualcuno si mostrasse. Finalmente, vidi: era un giovane bello, dall’aspetto coraggioso, che rivelava determinazione unita a saggezza, e ardimento controllato, e desiderio di agire; ma non parlava, apparendo rapito in una profonda contemplazione. Alzai il braccio per attirare il suo sguardo e anche lo sconosciuto alzò il suo. Lui non era altro che la mia immagine, riflessa nello specchio d’acqua che scorreva rapido verso una cascata; ma non riconoscevo me stesso, ritrovandomi cambiato, quasi ancora ringiovanito.

Non mi lasciarono il tempo di abituarmi alla nuova figura. Molti soldati mi circondarono, innalzando stendardi di un colore nuovo, gridando canti di vittoria. "Lunga vita al nostro sovrano, onore all’imperatore caduto." Solo molte ore dopo trovai il tempo di chiedere a un guerriero quale era stato l’esito della battaglia. Rispose che l’esercito stava già cedendo, perché tutti credevano che il comandante supremo fosse rimasto ucciso, quando una voce aveva ordinato di volgere gli occhi indietro. Mi videro, su una collina poco distante, mentre indicavo con un gesto autorevole la strada della vittoria: così il nemico venne sconfitto. Ma, quando i generali corsero verso di me per portarmi in trionfo, scoprirono che ero morto, trafitto da una freccia. Il sangue, colando dalla mia armatura, si era raggrumato componendo parole che consigliavano di nominare imperatore un ragazzo, il ragazzo che sarebbe apparso nel villaggio deserto.

Incominciai a piangere, diviso tra la felicità di una rinascita inattesa e il dubbio originato dal trasformarsi incessante del paesaggio, delle persone, dei sentimenti, del mio stesso aspetto. Cosa rimaneva uguale, cosa mi faceva soffrire? Sopravviveva, forse, l’intreccio del carattere e dei ricordi, forse una qualche qualità dell’anima; anche quest’anima, però, non sembrava capace di conservare se stessa intatta nelle vicissitudini della fantasia. Ma dimenticai le lacrime, perché una mano si posò sulla mia spalla. Il mago stava accanto a me, rovesciando finalmente il cappuccio che gli proteggeva il capo.

Il suo non era un volto umano; era un labirinto di rughe, come se un bambino impazzito si fosse divertito a rigare la sabbia di una spiaggia giocando per un intero, isterico giorno. Dissi "Sei orribile."

Sentivo d’essere duro come una roccia, sentivo che tutta la vicenda si era rappresa su di me, concedendomi un istante di maturità sofferta. Lui sembrava roso da una sofferenza incessante; la sua sicurezza era stata solo uno schermo, la sua magia un diletto per trasferire in me parte del suo insopportabile peso. Con un dito lunghissimo si toccò la fronte.

Io gli chiesi "Chi sono? Come farò a uscire dal sogno?"

Lo vidi guardare una foglia che cadeva da un albero, unico elemento naturale di quel desolato scenario. La foglia strisciava nell’aria, aggrappandosi al vento per ritardare l’attimo fatale in cui avrebbe toccato il suolo. Capivo che non sapeva rispondere. Allora, mosso da qualche strano sentimento, lo presi per il mantello e lo trascinai via, quasi accarezzandolo. Andavo verso una vasca d’acqua che si era formata dietro a noi. Lo strinsi con tutto il coraggio e il valore di cui ero capace: i suoi muscoli esili cedevano, aggrappandosi, mescolandosi a me. Ci buttammo nella grande vasca, entrambi seguendo il salto dell’altro, affogando insieme, senza più aria per respirare. Io volevo semplicemente estinguermi.

Stavo soffocando, con l’esatta percezione dell’ossigeno che ormai mancava, e ogni parte del corpo che gridava per salvarsi. Ma, aprendo gli occhi, ero nel letto della mia camera d’albergo, tornato al punto di partenza, forse beffato. Era stato davvero un sogno. Ansimando, mi gettai sotto la doccia, sperando di lavar via il sudore e tutto il resto.

...

...

Da quel giorno ripresi la vita di sempre, concentrandomi sugli esami del corso, superandoli rabbiosamente, uno dopo l’altro, arrivando in pochi anni alla laurea, quasi divorando i libri di testo. Non volevo più frequentare l’amico professore, forse perché lo ritenevo responsabile di quello che era accaduto. Ero molto cambiato, stavo invecchiando sotto il peso di responsabilità crescenti, che io stesso cercavo per compensare, per abbattere l’angoscia.

Infine ritornai al mio paese, e mi sposai con una ragazza che curiosamente si chiamava proprio Gloria, una nuova Gloria.

Ieri, ero con lei lassù, sul monte che chiude la nostra vallata. Camminavamo a mezza altezza, affrettandoci perché veniva la sera. Distinguevo il tramonto lontano, e le nuvole portate dal sole, e la foschia che velava la pianura, intravista fra le rocce del valico. Non sapevo a cosa pensare; il silenzio del luogo non mi incoraggiava a parlare, e io badavo più all’attenuarsi della luce che alla presenza di mia moglie. Tornavamo, e non c’era bisogno di spiegazioni, nessuno le cercava.

Così, sono rimasto sorpreso quando mi ha chiesto "Tu, mi vuoi ancora bene?"

Vi giuro che è difficile capire quello che è accaduto, quando mi sono voltato verso la sua giacca rossa. In quel momento, dove ero io per guardare al dopo e al prima? Forse, là dove non c’è ritorno. Dovete immaginare un lume a forma di sfera, acceso; intorno, la luce della notte si dispone a cerchi concentrici che nascondono gli oggetti invece di illuminarli. Imprigionati nell’alone, centinaia di insetti navigano lentamente verso il centro di quel mondo, scomparendo nei neri canali che lo solcano, per riapparire più vicini al punto bianco. Di tanto in tanto un’ombra passa, e un pipistrello miete i campi silenziosi e affascinati, facendo tacere i vortici che danno vita e tempo, spezzando l’immobilità.

Quella era la voce del delirio che parlava in me. La conoscevo, ormai: arrivava quando qualcosa voleva strapparmi via, e mi afferrava forzandomi a seguire. Stavo scrivendo, e alle righe si sovrapponeva un’immagine che tentavo inutilmente di ricordare. Era così vicina che non esisteva parte dei miei sensi capace di coglierla.

Ogni apparizione era un dolore, che costringeva a cercare l’attimo del suo generarsi. Ma qual era il punto che separava le due regioni, il punto che mi spingeva a vivere le cose comuni all’una e all’altra? Sapevo che Gloria non poteva aiutarmi, ma dovevo rispondere.

"Sì. Io ti voglio ancora."

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