Il Duca di Atene

Quarto

In Piazza della Vittoria, nell'angolo accanto al fiume, c'era il negozio di un fotografo.

Quel pomeriggio Cesare aveva deciso di comprare un'altra videocamera; voleva liberarsi subito dell'assegno che la madre gli aveva firmato la sera prima, fingendo d'essere commossa dai suoi lamenti. Se non fosse stato per il terrore della puntura di un ago, Cesare sarebbe diventato certamente un appassionato consumatore di eroina. Gli piaceva credere, invece, d'intendersi di apparecchi fotografici e audiovisivi, anche se l'unico elemento in gioco era la sua capacità di trovare denaro. Studente senza desideri, amante illuso delle opere altrui, timido, pressapochista, confusionario, Cesare non riusciva a distinguere nella sua vita una qualsiasi radice di cambiamento.

Pensava però che questo tratto di carattere era comune a tutta la gente che conosceva e, per quanto a volte si disperasse a causa della coscienza della sua vacuità, continuava a ripetere all'infinito gli stessi gesti e gli stessi errori. Il malessere gli cadeva lentamente in tasca, coprendo le banconote nascoste sul fondo. Bruciava così insieme banconote e malessere, cercando occasioni che gli consentissero di perdere con facilità un nuovo frammento del capitale distante e immobile di Barbara, custodito senza uso né scopo.

Era davanti alla porta del negozio. Entrando, il commesso gli sorrise e gli consigliò di attendere. Già imbarazzato, lui dimenticò di seguire l'ordine della fila e si mise a sfogliare un catalogo, costringendo il padrone, che si era subito accorto del suo arrivo, a chiamarlo in disparte per chiedergli cosa desiderava.

Rispose, con voce naturalmente esitante, "Una videocamera. Voglio una videocamera. Quella che mi hai venduto un mese fa ha molti difetti."

"Quali difetti?"

"Difetti? Non so se posso chiamarli così. Sai, sono esigenze mie, strane forse, forse esagerate per il tipo di macchina. Appunto, fammi vedere altri tipi."

"Più costosi?"

"A me interessa specialmente la qualità, se costa di più non è un problema." Si guardò intorno quasi a voler dire che si rendeva conto d'essere uno stupido.

"Ecco, questa andrà bene. Mi è arrivata ieri."

Gli lasciò tra le mani il nuovo modello e ritornò dagli altri clienti, rinunciando a discutere con un incompetente. Cesare esaminò con attenzione le manopole e i pulsanti, appoggiò l'occhio sul mirino, valutò i dati tecnici della tabella.

Il commesso si avvicinò. "Bella, vero? La prende?"

Lui parlò di effetti speciali, dei diversi modi in cui si poteva incidere il nastro, dell'ultimo articolo letto sull'ultima rivista. Infine acconsentì, pagando con il famoso assegno. Uscendo nella piazza si teneva ben stretto al petto il regalo, soddisfatto per il rapido affare, contento anche del vago senso di colpa che avvertiva, tanto scioccamente.

Eppure non era privo di un talento incerto, di una sensibilità che disperdeva nelle disavventure di un'esistenza resa precaria dal timore del giudizio altrui. Gli era sempre mancata una guida, qualcuno a cui riferirsi per ottenere l'indice di paragone, la lancetta puntata sempre verso un'ora, giusta o sbagliata che fosse.

Cercava forse il padre, morto troppo presto; forse odiava la madre, una pazza dedita solo al collezionismo e all'occultamento. Non aveva ancora incontrato tra le persone che frequentava un uomo da ammirare davvero. Certi comportamenti, inoltre, non usavano più.

Cesare non possedeva un'auto: gli era stato proibito dopo i primi cinque incidenti. Aspettò dunque l'autobus e già quest'obbligo consueto lo depresse, poiché il suo umore era molto mutevole, variando sull'onda di uno stesso tema; l'inadeguatezza definiva l'esito dei tentativi mai portati a termine.

Da piccolo gli dicevano che doveva essere buono, e lui si sforzava d'essere dolce, come se volessero mangiarlo subito dopo. Non aveva mai concepito l'idea di fare del male a qualcuno, di picchiarsi, di contrastare una decisione ingiusta. Lasciava che le cose scorressero, e si ritagliava un piccolo spazio di incompetenza per essere in grado di rispondere "Non sono capace". Pronunciava queste parole con tanta innata ostinazione da convincere tutti della loro verità. Crescendo, aveva trovato molte conferme. La consapevolezza d'essere più ricco della maggior parte dei compagni di liceo e di università lo aveva comunque protetto da umiliazioni troppo forti.

Una volta un amico gli aveva detto "Quelli con i soldi non sanno fare nulla". Allora, gli si era allargato il cuore; poteva dedicarsi completamente a questo nulla, ornarlo di minuzie e di pettegolezzi, travestirlo persino di una parvenza sofferta. Così, sperava di vivere meglio in futuro, ancora sbagliando.

L'autobus arrivò per portarlo lontano, non a casa, non al palazzo. Andava verso i colli, da un amico che non si curava dell'ora, del luogo e degli avvenimenti. Gli avrebbe mostrato la videocamera, avrebbero parlato di cose inutili per molto tempo, buttando via la giornata.

La notte, poi, avrebbe ripensato agli errori.

...

Cesare Almonti

Lettura consueta

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