Il Duca di Atene

Trentaseiesimo

Un parco di oltre venti ettari circondava villa Almonti. Era per metà formato da una collina che digradava lentamente verso est, e per l'altra metà da un falsopiano più vicino alla casa.

Il falsopiano era a sua volta coperto in gran parte da un bosco molto folto e ombroso, solcato in diagonale da un solo sentiero di ghiaia, tortuoso come la mente che aveva progettato il giardino. Da secoli gli Almonti erano proprietari della tenuta; la pianta più antica, un acero, superava in età il fregio settecentesco del salone maggiore.

L'antenato che si era proposto di innalzare una costruzione tanto imponente, che dominasse anche da poca altezza la pianura, si chiamava Cesare come il suo lontano pronipote; sperperando quasi completamente la ricchezza che gli era piovuta nelle mani, qualcosa almeno aveva concluso, terminando il corpo centrale del palazzo e seminando il parco.

Si raccontava che lo stesso Cesare si fosse poi dedicato a banchetti, a orge segrete. Infine si era ucciso, dopo aver lasciato una lettera in cui riempiva d'ingiurie la moglie legittima. L'accusava di averlo avvilito, di non aver saputo riconoscere il genio che le dormiva accanto.

Barbara, camminando lungo il sentiero nel mite pomeriggio di aprile, pensava che questo destino infelice perseguitava spesso le compagne di uomini dotati di un talento notevole. Costoro, ritenendo eccezionale il loro ingegno, esaltavano l'intelligenza che avevano ricevuto in dono dal nulla, e tendevano a giustificare gli eccessi, gli scatti d'ira, le frasi velenose di cui le mogli erano le uniche spettatrici. Isolati dal resto del mondo, che non li capiva, cercavano nella donna una base, un aggancio con la realtà. Ma nel loro cuore odiavano questa realtà, la disprezzavano ardentemente. Finivano dunque per detestare anche la persona che più li amava, e che tentava invano di ricondurli alla radice del sentimento.

Così, i mezzi geni restavano mezzi, individui bizzarri derisi dai contemporanei. La domanda della gente era semplice: "Se sono così intelligenti, come fanno a non vedere cose tanto ovvie?"

La moglie aveva coscienza esatta del valore del marito, e non sapeva rimproverargli l'atteggiamento scostante, non ribatteva agli oltraggi, si disperava anzi, più per lui che per sé. Ma, dopo aver cercato inutilmente di salvarlo, parlandogli con dolcezza, implorandolo, si rinchiudeva fatalmente nel ricordo dei primi momenti felici. Preservava in questo modo almeno un'immagine. Allora, il genio incompreso si scagliava contro la sua dedizione, scambiandola per aridità.

Barbara sbattè il bastone da passeggio contro la corteccia di un albero, con il gesto isterico di chi vuole riscattare i peccati commessi da altri, perché si accorge che in qualche grado essi la toccano, ma riesce solo a manifestare la sua rabbia inservibile.

Il bastone si scheggiò e non si ruppe, cadendo tra le ortiche. Lei decise di non raccoglierlo, per non ferirsi la pelle sottile, e la sua inquietudine aumentò. Proseguì, comunque. Controllava ogni settimana lo stato del parco, sotto la pioggia o sotto il sole. Controllava in maniera identica l'evolversi dei suoi affetti, o piuttosto lo preveniva, come si sparge insetticida sui campi coltivati. Esaminando gli ultimi avvenimenti, notò che in pochi giorni alcuni fatti nuovi avevano scalfito la scorza più esterna delle infinite muraglie che la difendevano. La lettera di Andrea, la partenza di Cesare, la visita di Enrico Salvati.

Tra i primi due eventi c'era un legame diretto; solo l'incontro con Salvati sembrava un episodio a parte. L'abilità analitica di Barbara voleva soffermarsi su questo incontro, soppesandone l'importanza; qualcosa però, con identica forza, ostacolava il suo desiderio.

La sua attenzione scivolò dunque sul tema meno essenziale, il futuro del figlio. Non la sorprendeva l'improvvisa passione di Cesare per il lavoro. La giudicava infatti una delle consuete oscillazioni del suo umore, sempre incerto tra le mille opportunità che gli si presentavano. Lui era ancora un bambino, incapace di crescere. La sua fame d'amore era quella di un bambino, incondizionata, spontanea, esigente; i suoi momenti di rabbia non si esprimevano in un comportamento coerente. Tutto appariva negli occhi, senza travestimento e senza definizione.

Probabilmente questo accadeva perché le emozioni di Cesare non si erano mai scontrate con ostacoli che rivelassero la presenza di qualcosa di nuovo, al di là della grande parete di ingenuità che gli annebbiava lo sguardo. Alcuni potevano sostenere che era lei, la madre, la responsabile; lei che gli aveva insegnato solo a fasciarsi, senza fasciargli l'anima una volta per sempre. Ma l'arte materna di Barbara si era spenta alla morte del marito. Quanti anni avevano, allora, i figli?

Il corso dei suoi pensieri si interruppe ancora, nel giardino. Era giunta nel luogo in cui gli alberi cedevano al prato della collina; le sembrò che ogni ramificazione della sua mente svanisse. Se Cesare aveva scelto di partire, che facesse pure. Doveva chiamarla, però; già da troppi giorni non ascoltava la sua voce, e parlare con Diana non era abbastanza.

Per quanto riguardava Andrea, invece... Lei non temeva certo che l'intraprendenza di un giovanotto bastasse a spezzare il filo che la univa al figlio. Era un filo con troppi nodi, reso robusto da una sottile corrente di ostilità.

Barbara non credeva nel futuro, vedeva dovunque immobilità. Tuttavia, prima di ritornare al palazzo, sentì aprirsi una fenditura. Si chiese se era mai possibile che qualcosa le venisse di nuovo rubato.

...

Barbara Almonti

Lettura consueta

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