Il Duca di Atene

Trentacinquesimo

Cesare arrivò al porto di Chioggia proprio quando il peschereccio stava sbarcando la strana compagnia, di ritorno da un viaggio breve e avventuroso. Il tramonto di un giorno qualunque accompagnava i movimenti pesanti di Gigi e del fonico, che scaricavano pazientemente alcune apparecchiature inutilizzate; la loro tristezza dimostrava quanto la fatica fosse stata vana.

Cesare li vide tutti in fila sulla banchina. Riconobbe Andrea e capì, dalle sommarie descrizioni ricevute, il ruolo degli altri. Pensò che erano stanchi, provati, ma non associò l'immagine al timore di un fallimento; inesperto di ogni lavoro collettivo, non si accorgeva di nulla. La sua scarsa prontezza lo proteggeva ancora.

Fermò l'automobile accanto al mare e salutò affabilmente. "Andrea! Andrea, eccomi. Sono qui."

Andrea lo squadrò come si guarda chi arriva ad arrecare danno e trascina con sé l'ultima difficoltà, la più sgradita. Sapeva tuttavia di dover riconquistare il prestigio perduto e rispose, sfoggiando un certo autocontrollo, "Ciao. Vieni, che ti presento a... a loro."

Sentì che Vinci diceva, voltandosi appena, "E chi sarà mai?"

"Piacere, Cesare Almonti."

Gli rispose un coro indistinto, né ostile, né amico. Era certo un sintomo di diffidenza. Cesare attribuì questo riserbo al disprezzo del gruppo per una persona che non apparteneva al suo stesso mondo; gli sembrò allora d'essere rifiutato e respinto definitivamente, rinchiuso nel solito angolo di apparente privilegio. Già dal primo istante, quindi, eliminò dalle sue speranze la prospettiva di un qualsiasi slancio.

Andrea, benché volesse dedicarsi ad altri problemi, comprese subito la ritrosia e il nuovo mutismo del ragazzo. Pensò che occorreva chiarire alla svelta la situazione prima che le antipatie si cristallizzassero, e rivolse un piccolo discorso alla sua truppa.

"Ho scelto Cesare perché abbiamo bisogno di qualcuno che intervenga là dove noi non abbiamo tempo di andare. Seguirà alcuni particolari momenti della produzione: sarà il nostro coordinatore. È alla prima esperienza, ma sono certo che il suo contributo sarà prezioso. Si è sempre interessato di film, di sceneggiature, di riprese. Cercate anche di aiutarlo, se non siete troppo occupati a discutere i miei ordini."

Aveva deliberatamente provocato Vinci, che difatti scattò, bruciato dal nervosismo. "Cosa fai, sfotti? Non mi pare il caso, con tutte le grane che ti capitano."

Andrea si trattenne; gli sarebbe piaciuto zittirlo. Ben sapendo, tuttavia, che non era opportuno scomporsi, continuò a giocherellare con la cinghia di un esposimetro mentre sussurrava: "Vinci, per l'ultima volta. Abbiamo già discusso del principio di autorità e di quanto sia utile che uno solo decida, assumendosi ogni responsabilità. Dunque, mi sembra stupido litigare. Non voglio che ti salga la pressione."

Vinci impallidì ma non replicò. Questo primo successo convinse Andrea a proseguire. "Via, stiamo scherzando. Dopo la nostra gita in mare c'è un po' di tensione, anche se non è accaduto nulla. Non è vero, Fortunato?"

Fortunato rise, e la sua risata sdrammatizzò il contrasto, quasi una mano avesse rimescolato le carte. Fortunato stesso intuì il motivo che dava luogo a tanti equivoci."Io non so dove prendi la tua forza, Andrea. Sembri abbattuto e impotente, e un istante dopo ricominci a fare progetti come se nulla riuscisse a cambiare le tue idee. Sei molto diverso da me, ma devo confessare che ti ammiro."

Andrea non voleva stravincere. Lasciò dunque che il caso avesse la meglio; parlarono di tutto e di niente, finché il vento freddo non li persuase ad allontanarsi dal mare.

Passeggiavano verso l'albergo, dividendosi in singole voci finalmente allegre.

"Siamo rimasti fuori così a lungo che il rumore delle onde mi ha intorpidito. E questa umidità! Ho i brividi."

"Andiamo in albergo. Speriamo di dormire, stanotte."

"Stanotte... Andrea, cosa c'è in programma domani?"

"È un giorno di riposo, ripartiremo giovedì. Domani vi darò il piano dei prossimi spostamenti."

"Bene, era ora."

"Vedrai che riusciremo a combinare qualcosa. Anche Vinci si ricrederà."

"Certo. È tutto a posto."

Cesare e Fortunato erano in disparte. Camminando, si accorsero di avere quasi la stessa età, e questo suggeriva all'uno di fidarsi dell'altro. Fu Cesare a rompere il silenzio, benché gli costasse fatica.

"Mi pare che nella troupe ci sia qualche problema. Il lavoro potrebbe soffrirne."

Fortunato rispose "No, non badarci. È normale, quando si raduna un gruppo non ancora affiatato. Ognuno vuole pensare con la propria testa; poi passa, e ritorna la calma."

"Ho capito. Ma la tua funzione, qual è?"

Sorrise. "Quella di mettere pace. No, scherzo... In realtà sono l'operatore, e mi trovo qui per imparare. Bisogna sfruttare tutte le occasioni. Magari sarai tu a insegnarmi qualcosa."

Cesare arrossì. "E cosa? Non so niente."

Fortunato lo guardò, mentre si accendevano le luci dei lampioni. "Non si può dire, non si può mai dire."

...

Andrea

Cesare Almonti

Fortunato

Lettura consueta

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