Il Duca di Atene

Ventinovesimo

Enrico era nel suo palazzo: pensava all'effetto sgradevole dell'incontro con la signora Almonti. Benché in apparenza fosse riuscito a ricondurre il dialogo nei confini di una tranquilla normalità, non poteva dimenticare la sensazione di minaccia evocata dalle parole della donna. L'aveva offesa? No, certo. Aveva usato modi sgarbati? Neppure. Ma...

Il viso di lei si era deformato, quasi fosse sul punto di pronunciare una maledizione biblica; il suo sguardo si era acceso, squadrando un nemico di cui cercava il punto debole.

Enrico scendeva lungo la scalinata, in visita alle stanze delle sue ospiti, fuggite dalla quiete dell'albergo per esplorare la mattinata romana non ancora accaldata dal sole, anzi ingentilita dalla luce tenue che filtrava attraverso le nuvole. Le ragazze erano scappate, consentendo alle cameriere di pulire le camere, cambiare la biancheria, rimediare ai piccoli danni causati dalla vivacità giovanile. Ogni cosa si svolgeva con ritmo e ordine perfetti, quasi davvero l'albergo ospitasse solo armonia.

Qual era il suo punto debole? Non sapeva. Non era certamente pronto ad accettare una battaglia non dichiarata, e non voleva nemmeno che quella maledizione, se esisteva, gli rovinasse la vita. Quanto ad avere una donna per nemica... Era già accaduto, ma in un tempo lontanissimo.

Gli era capitato, da giovane, di invaghirsi di una bella signora la cui età era doppia, almeno doppia della sua. Lei somigliava a un grande mobile antico, perché la sua pelle era scura come la superficie di un legno invecchiato, lucida quanto i riflessi dorati di quel materiale prezioso. Vestiva abiti di seta pesante, color verde scuro o azzurro scuro. Alla fine, era impazzita d'amore per lui. In risposta, Enrico aveva deciso di lasciar perdere: proprio allora stava imparando l'arte di sopravvivere, e avvertiva un rischio imminente. Però, aveva continuato per vanità a corteggiarla, anche quando la donna aspettava solo un cenno per cadere nelle sue braccia.

Non era accaduto nulla. Ma, urlando, lei un giorno l'aveva maledetto, e aveva confidato al marito che un ragazzo l'aveva oltraggiata. In una brutta mattina di novembre, Enrico era stato selvaggiamente pestato da due domestici, fingendosi ben presto esanime per evitare colpi più duri. Cadendo, e restando poi a letto per un mese intero, già pensava a come trasformare in vantaggio l'aggressione.

Tornato all'oggi, Enrico salutava con la consueta cordialità le donne di servizio, le stesse da anni ormai, divenute ancelle della sua solitudine felice. Stavano come al solito lamentandosi del disordine delle ragazze, sottolineando che nessuna di loro si degnava di dare una mano.

Ce n'erano proprio tre, ferme in fondo al corridoio; al suo arrivo sorrisero simultaneamente, muovendo le labbra per il desiderio di parlare. Lui non credeva che fosse saggio accontentarle: rispose al sorriso, regalando all'incontro un tono di pace, come se fosse ancora l'armonia a trionfare. Simili a scolarette sorprese dal maestro a sostare nell'aula oltre l'orario delle lezioni, le ragazze se ne andarono, riprendendo i loro discorsi sommessi. Chi poteva dire cosa pensavano?

I muri della pensione erano tutti bianchi e aggiungevano altro decoro alla serafica quiete del mattino di primavera. Enrico continuava a sorridere, anche se non c'era più nessuno: le sue paure si erano sciolte, ammirando la timidezza delle giovani donne. Così, forse avrebbe continuato a sorridere in silenzio se un rumore di voci non l'avesse distratto, suoni che venivano dalla portineria.

Affacciandosi, capì che il brusio nasceva da una televisione accesa; salutando anche la portinaia, si appoggiò per un attimo alla porta, sentendosi un poco, inspiegabilmente, stanco.

A quell'ora la televisione offriva solo repliche; e il programma, in bianco e nero, era lo sceneggiato più ovvio che si potesse immaginare, nient'altro che i Promessi Sposi.

Si narrava la storia della Monaca di Monza. L'episodio, interpretato in modo piatto e retorico, portò Enrico di nuovo indietro nel tempo, seguendo prima la data dello sceneggiato (settanta, settantuno, settantadue?), quindi l'epoca del libro, infine i giorni dell'amore contrastato.

Indietro ancora, perché i misfatti della Monaca di Monza erano antecedenti alle sofferenze di Lucia. Si trovò quasi perso in questo vortice a ritroso, il cui inizio coincideva con i forzati voti della religiosa, come se fosse esistito per tutti un periodo simile, che si legava alle pene di una donna violentata, forse la stessa donna che lui non aveva nemmeno sfiorato.

Era Barbara? Rivide la sua espressione dura e immediatamente ricordò che lei voleva abitare proprio lì, nel palazzo, sostituendo un museo addormentato alla bellezza dei muri bianchi, sporcandoli con i suoi quadri inutili. Barbara non voleva certo lasciar perdere, certamente non si considerava sconfitta.

Nella portineria entrò la fedele segretaria, disperdendo l'inutile lavorio dei pensieri. "Signor Salvati, oggi deve mostrare all'amica di quella ragazza l'appartamento in periferia. Se n'era dimenticato?"

Enrico rispose, guardandola con gratitudine, "No, davvero. Ma la ringrazio ugualmente."

...

Enrico Salvati

Lettura consueta

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