Il Duca di Atene

Ventunesimo

"Eccomi solo, al buio. Seduto in un palco, medito. Ho a disposizione gli elementi che possono realizzare un'idea, deviando il corso della mia vita. Quali elementi? L'immaginazione, e uno spazio libero: l'immaginazione chiede ascolto, lo spazio vuole essere riempito. Insieme, pretendono da me qualcosa. Sarò capace di seguirli, o mi lascerò distrarre?"

Andrea non voleva diventare il veicolo di sensazioni che ancora non gli appartenevano. Cercava piuttosto di utilizzare a suo piacere la materia, ordinando e facendosi ubbidire. Ma il problema rimaneva; per dare ordini occorrevano intermediari, per dipanare le difficoltà era necessario affrontarle, e incontrare impedimenti che ostacolassero in modo provvisorio la decisione definitiva. L'oscurità nascondeva le resistenze, le neutralizzava, aumentando i dubbi. L'oscurità non annullava affatto gli ostacoli, era anzi loro complice.

"Non voglio sbattere contro muri che non vedo. Non serve procedere alla cieca. Mi dedicherò alla storia e al mio lavoro senza coltivare illusioni impossibili. Mi piacerebbe essere onnipotente, ma non saprei usare la mia forza. Prenderò nota delle strutture del teatro e scoprirò i movimenti dei personaggi."

Gli sembrava difficile appuntare schemi nell'aria e ricordare direzioni senza un foglio su cui scrivere. Esitò, e si perse per un attimo nel vuoto che circonda chi non rinuncia a divagare con il pensiero. Meccanicamente, tentò di concentrarsi sull'episodio del programma; scese quindi sul proscenio pensando che gli occhi si fossero già abituati alla mancanza di luce.

Guardava, senza vedere. Tra le colonne del portico, scolpito ad arte per raffigurare allo spettatore una prospettiva di spazio e di fuga, c'era una nicchia con una conchiglia in marmo che quasi copriva un'anfora simile a un'acquasantiera. Disse "Qui verrà la protagonista per la prova generale. Vorrà essere scelta dal regista e gli chiederà il permesso di interpretare un ruolo nel dramma. Lo commuoverà: avrà quello che desiderava, per ragioni misteriose. Tra le altre cose, un'attrice invidiosa cercherà di farle commettere degli errori. Ma... Ma non ci riuscirà, anzi. Diventeranno amiche, e... Questo può essere un buon filo conduttore. Il dramma verrà rappresentato in molte città."

Un viso di donna lo stava fissando dall'interstizio tra colonna e colonna. Andrea arretrò, con un tuffo al cuore. La donna fuggì verso l'uscita. Era vestita con una tunica leggera, azzurra; aveva i piedi nudi e i suoi passi non risuonavano. I capelli erano a riccioli, lunghissimi; tra i capelli brillava un fermaglio. Quando arrivò alla porta che dava sull'atrio (ma l'altra porta, quella vera, era chiusa da quindici mandate), mostrò per un istante la trasparenza della tunica e il corpo, una vita sottile, un collo magro e aggraziato, fianchi stretti. Poi sparì.

Andrea venne invaso da un terrore irragionevole. Ritornò ancora a passi lenti verso il palco, come se là potesse trovare un nascondiglio capace di proteggerlo. Ma, seduto come prima, vide solo la scena deserta e buia; gli mancava il coraggio di correre ad accendere le luci. Per la prima volta in assoluto sentiva d'essere circondato dal gelo, quasi un soffio boreale lo stesse trascinando via.

Gridò, per reazione disperata "Chi c'è? Chi c'è, qui dentro?"

Di nuovo, nessuno. Le porte erano ancora solide e sbarrate, legno duro e scheggiato su ferro stridente. Gli vennero in mente spiegazioni ovvie: "Sono molto stanco per il viaggio, molto teso. Non c'era nessuno, eppure... Pretendo forse troppo da me?"

Nel teatro continuava ad agitarsi una strana presenza, quasi prendessero vita frammenti nascosti, componendo nuove immagini dotate di movimento autonomo. Andrea non le padroneggiava benché volesse, per istinto di conservazione, considerarle parti di sé, imprigionando i fantasmi all'interno dei consueti monologhi. "Se in me ci sono idee, idee che riescono a turbarmi, perché non ascoltarle?"

Ai due lati della scena c'erano due statue, che raffiguravano entrambe un moro nell'atto di sorreggere un lume, spento. I due mori si guardavano con espressione stupita, come se cercassero invano parole appropriate. Andrea non si trattenne dal chiedere "E voi, perché tacete?"

Fu il buio a mandare una voce, nero come il viso dei due servi stanchi di tenere tra le braccia una lampada morta. Gli sembrò che i mori avessero iniziato a conversare, domandando di lui: temevano di spaventarlo, ripetevano che da un oggetto inanimato non ci si può aspettare risposta. L'uno ricordava all'altro che non c'era bisogno di infrangere tanto bruscamente qualche debole certezza. Continuavano, senza accorgersi che qualcuno assisteva al loro dialogo. Si lamentavano della tensione che Andrea continuava a diffondere, e soffrivano per la sua paura inesorabile. Si scusavano, mormorando di non essere parte di nulla, dicendo che era meglio scomparire al più presto; e la voce diventava flebile e sfuggente.

Andrea stava per chiedere qualcosa al buio, convinto ormai che il buio fosse una persona. Ma le voci all'improvviso se ne andarono, e quella sparizione lo sorprese più dell'apparizione stessa. Venne sopraffatto dal panico.

Corse senza mai fermarsi verso l'uscita e, quando trovò il portone ancora al suo posto, lo spinse violentemente senza riuscire a forzarlo. Si precipitò allora al piano superiore, spalancando i battenti di una finestra che si apriva sopra un salto di qualche metro. Cadde, perché l'idea di ferirsi non lo turbava. Un attimo dopo era finalmente in strada.

Si trascinò zoppicando fino alla parete della casa opposta e lì rimase, ansimante.

...

Andrea

Lettura consueta

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