Il Duca di Atene

Decimo

La matita rossa le toccava le labbra mentre sul foglio di carta si susseguivano cifre, conti, costi e ricavi.

"Non mi bastano nemmeno per arrivare a fine maggio. In banca ho poco e niente, questi due assegni, Banca Nazionale del Lavoro, Monte dei Paschi di Siena. Devo pagare i vestiti dell'estate e il gatto di cristallo. È bello, ma sono povera."

Quest'ultimo pensiero stava sfiancando Diana. Sentì che qualcuno la spingeva in acqua da un ponte altissimo, e nel tuffo rabbrividì, svegliandosi disperata. "Ho bisogno di cose da fare, ho voglia di cose da fare. Devo spostarmi, cercare."

Elettricamente statica, tormentava un fazzoletto ripetendo un gesto antico che non le apparteneva assolutamente. Il sapore amaro che sentiva in bocca le confermava la presenza di un'emozione che altri avrebbero sfogato nel pianto, in lacrime da spargere sul cuscino.

"Dicono che le lacrime servono ad ammorbidire la vita. Io non riesco a piangere."

Strofinava la pelle contro superfici ancora più ruvide, ansiosa di squamarsi e perdere, strato dopo strato, le protezioni di cui andava fiera. Era esperta di fremiti, di brividi; sapeva scegliere gli incontri, programmando i contatti in modo da ottenere la giusta risonanza per i suoi desideri. Amava vedere la sicurezza altrui, l'orgoglio, sciogliersi di fronte alla sua vanità trionfante. Era così fatua da non esserlo affatto.

"Avere un uomo non significa nulla. Bisogna essere un uomo, dalla testa ai piedi. Oggi mi hanno telefonato in cinque. Uno mi ha chiesto garanzie d'amore, e non era il più ridicolo."

Viveva in una stanza scombinata, tra calze viola e verdi appese allo specchio grande. Il materiale per il trucco era sparso a pezzetti nel bagno e in cucina. Il fohn sul letto, attaccato a una prolunga che arrivava fino alla parete opposta, aveva da poco asciugato i suoi capelli soffiando via i frammenti di lettere stracciate, le ricevute e le bollette, nel disordine solo apparente, perché ogni dettaglio aveva comunque il suo posto.

Ricordava l'ultima avventura, la macchina preparata dal fotografo e lei che diceva al ragazzo "Ti piace? È carica." E il ragazzo, con intuizione fulminea, aveva colto l'attimo per scattarle una foto, un'immagine legata a una storia d'amore che poi si era misteriosamente spenta.

Purtroppo, altre circostanze avevano portato minore fortuna. Forse qualche spesa di troppo. Qualche sostanza eccessiva aveva sbilanciato il conto corrente.

"Sono povera e senza aiuto."

Abbattuta, affondò la testa nelle lenzuola strisciando le unghie contro il tessuto. Ferire il letto in questo modo era un tormento che avrebbe volentieri inflitto ad altri. Lei non poteva colpire se stessa. Il suo eterno istinto di conservazione funzionava automaticamente e le dava ordini: ordini sciagurati e meschini, ordini provvidenziali e pesanti. Ma la sua mente non era mai disposta ad ascoltare i lamenti del corpo, e così le sofferenze l'assalivano proprio quando il piacere stava per farsi strada. Allora, un'espressione smarrita e dolente si sostituiva alle normali armi della seduzione, catturando qualche preda in più. La seduzione, infatti, non era sufficiente per spiegare il colpo d'ala, lo scatto che lei senza dubbio aveva, misterioso e non padroneggiabile.

Diana voleva riuscire a pensare. Si chiese: "Ho paura?" Non era difficile rispondere.

"Sì, ho paura. Ma passerà anche oggi. Non posso vestirmi e non posso uscire, e qualcuno mi aspetterà inutilmente. Ma la cosa più importante è telefonare a Maranesi per vendergli il quadro. E che sia finita, con i soldi e il resto."

Si guardò intorno, cercando un numero. Trovò sotto il letto un notes rosa, e decifrò pagina dopo pagina il tratto della penna, seguendo attraverso i fiori, i cerchi e i ghirigori la scrittura incerta delle sue note a margine. Infine, tra stelle e freccette e punti esclamativi, scoprì un blocco compatto di sillabe: "Maranesi / 57412120".

Aveva sottolineato tutto in nero, con rabbia, quasi rompendo la carta.

Quando compose quella sequenza sui tasti la sua voce diventò roca. Nessuno la spaventava tanto, solo lui aveva questa autorità. "Pronto? È lei, Maranesi? Sono Diana Almonti."

"Sì, signorina, sono io. Mi dica, la sto ascoltando."

"È per quell'affare. Ricorda?"

"Naturalmente. Volevamo discutere con calma. Potrebbe passare da me verso sera? Questa sera?"

"Veramente avevo deciso... Va bene, verrò."

"Allora l'aspetto. Non se ne dimentichi. Buongiorno."

"Buongiorno."

Ecco fatto. La paura aveva ormai un nome e una data di nascita, e ragioni valide su cui fondarsi. Poteva essere trasformata in un pretesto o in un antidoto. Diana si coricò a pancia all'aria, paralizzata, mentre il meccanismo si era già rimesso in moto. Doveva spostare l'incontro con la madre, doveva fare un bagno, doveva prepararsi...

Morse a lungo il notes rosa. L'impronta dei suoi denti perfetti si stampò sulla copertina di plastica prima che il notes volasse sopra il letto, rimbalzando contro lo specchio, infrangendosi quasi.

...

Diana Almonti

Lettura consueta

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